
Longobardi – Tre frasi e cambia la storia di Roberto Neri
Quasi ogni primavera l’arrivo della bella stagione, e il ritorno a condizioni favorevoli per gli spostamenti, mi ricordano la storica scena descritta con poche suggestive parole d al cronista Paolo Diacono: “Igitur Langobardi, relicta Pannonia, cum uxoribus et natis omnique supellectili Italiam properant possessori”, ovvero la partenza, l’esodo in massa con donne, bambini e tutto quanto possibile trasportare, dei Longobardi verso l’Italia, che aspettava solo di essere occupata dopo lo spopolamento e l’abbandono dovuto a decenni di guerre, invasioni, pestilenze, calamità.
Quella scena avviene il 2 Aprile 568, lunedì dopo Pasqua, forse un bel giorno di primavera, scelto dal re Alboino per la partenza; il cronista citato, nella sua “Historia Langobardorum”, scritta a distanza di quasi due secoli e mezzo dalla migrazione, riporta la data del 2 Aprile con precisione notarile, quasi fosse consapevole della solennità del momento, e della sua gravità, come in effetti avverrà di lì a poco.
Ma quanti erano i Longobardi alla partenza? Secondo gli studi più recenti , non meno di 150mila persone. Proviamo allora ad immaginare tutti i Longobardi, una mattina d’Aprile, coi carri già stipati di persone, carichi di provviste e suppellettili, con mandrie e greggi, chi a cavallo e chi a piedi, muoversi contemporaneamente. Ma la scena di massa è più vasta; all’esodo si unisce un folto gruppo di Sassoni, circa 20mila. Costoro da tempo vivevano accanto ai Longobardi in qualità di alleati, e ne condividono la sorte.
La gente di re Alboino si era stanziata ufficialmente in Pannonia da 42 anni, riferisce Paolo Diacono, quindi da nemmeno due generazioni. Le necropoli invece dicono che la migrazione dalla Boemia, dove i Longobardi sono attestati in precedenza, comincia già nel V secolo, a piccoli gruppi, diretti verso la pianura tra il Danubio e il Tibisco. Da qui poi si spostano verso il “limes” romano, il confine, lo attraversano e si insediano definitivamente all’interno dell’Impero Romano.
A risiedere lì erano stati autorizzati da un accordo coi Bizantini, gli eredi di Roma, che successivamente in più occasioni avevano arruolato contingenti longobardi per le proprie campagne militari; durante una di queste, la cosiddetta guerra greco – gotica (535 – 553) migliaia di mercenari Longobardi, temutissimi per la loro violenza, ebbero informazioni dirette su tutta la penisola italica coinvolta nel drammatico conflitto.
E allora, quale motivo causa la nuova ed ennesima migrazione? Cosa c’è all’origine dell’esodo capeggiato da Alboino il 2 Aprile 568, lunedì dell’Angelo? La Pannonia longobarda corrispondeva all’attuale Ungheria a ovest del Danubio, e alle zone più orientali di Slovenia e Croazia. Ancora agli inizi del V secolo la regione era parte viva ed integrante dell’Impero Romano, ma poi subì le devastanti invasioni di Goti e Unni; le città, ovvero i centri nevralgici dell’amministrazione romana, e della vita quotidiana, non si ripresero più. La regione pannonica, proprio perché in crisi demografica, e per le ampie aree a pascolo che offriva, sembrava ideale per i Longobardi quando nel 526 ottenero l’autorizzazione imperiale da Costantinopoli a risedervi. Tale riconoscimento formalizzava un insediamento già effettivo da prima del 526. E da prima ancora l’Impero aveva perso il controllo della Pannonia.

Tra tutti i popoli germanici, i Longobardi erano i più nomadi, sia per la durata della loro migrazione, iniziata dalla nordica penisola di Scania quasi cinque secoli prima, sia per la tradizionale diffidenza verso la vita di città. Infatti, nei musei ungheresi di Szekszàrd, Budapest e Veszprem, i reperti longobardi vengono da tombe a inumazione i cui “occupanti” erano stati in vita guerrieri , razziatori, allevatori.
Queste tombe forniscono dati preziosissimi sui Longobardi, prima che lasciassero per sempre la Pannonia. Le necropoli erano distanti da ciò che restava delle città, ma vicine spesso a semplici luoghi fortificati non urbani. Le analisi più recenti confermano che non erano un popolo omogeneo. Essi aggregavano membri di comune origine germanica ma diversi per provenienza (Gepidi e Svevi); erano presenti pure individui originari delle steppe asiatiche (Bulgari e Sarmati) e altri soggetti romanizzati. Circa il 60 per cento degli inumati del periodo longobardo in Pannonia era alto 170-190 cm., e con struttura ossea robusta, a conferma della provenienza nord europea. L’aspetto del restante 40 per cento, probabilmente la popolazione locale di discendenza romana, era più basso e gracile.
La storiografia ci dice che i Longobardi erano già cristiani, in maggioranza ariana, al tempo di Alboino. Ma nelle tombe pannoniche i corredi non comprovano ancora la recente cristianizzazione, a fronte invece della permanenza diffusa del paganesimo, ben testimoniata da alcune sepolture di guerrieri insieme ai loro cavalli. Corredi funerari con Odino e Thor, e avanzi di ossa animali e altre cibarie, rinvenuti nelle tombe insieme a resti di bevande, confermano che i culti pagani longobardi erano la quotidianità. Le tombe pannoniche con corredo, e di cui ho detto, erano scavate molto in profondità, fino addirittura a 4 metri; altre tombe, nelle medesime necropoli, ma senza corredo e profonde al massimo soltanto 1 metro e mezzo, quindi meno importanti come sepoltura, erano forse appartenute a schiavi e discendenti delle genti già presenti in Pannonia prima dei Longobardi.
Le indagini con isotopi di stronzio, i corredi e la collocazione delle tombe, in Pannonia, non confermano però la tradizionale struttura della società longobarda, come la conosceremo, più avanti nel tempo, dall’editto di Rotari e da Paolo Diacono. In breve, le sepolture di cui si parlava prima, sono ancora genericamente longobarde, ma prive di segni riferibili a “fare” (gruppi famigliari allargati) o “arimanni”(nobili), “faramanni” (guerrieri) , “aldii” (semiliberi), “scalc” (schiavi).
Nel 567 però la speranza longobarda di aver ottenuto finalmente una sede stabile, lì in Pannonia, ormai diventata la loro patria, si infrange. Da est gli Avari, un popolo turco – mongolo, e nomade anch’esso, giunge sul medio Danubio e comincia a scatenare feroci incursioni nei Balcani e verso i vicini Longobardi e Gepidi. Quasi contemporaneamente entra in trattativa coi Bizantini per insediarsi come potenza alleata stabile dominante in Pannonia. Le fonti storiche di quell’anno non ci permettono di conoscere i sentimenti dei Longobardi, né di immaginare il terrore che dovettero provare davanti alla prepotenza àvara. Paolo Diacono, che scrive la sua “Historia” oltre duecento anni dopo il 567, parlando di quei mesi “preparatori”, spiega a modo suo come si decise l’esodo; lo fa rielaborando una leggenda nata successivamente, senza base documentaria, e ci racconta un’altra storia. Eccola. Ma prima, un brevissimo inquadramento.

Nel 567 Narsete, il generale bizantino che oltre un decennio prima aveva strappato ai Goti la penisola italica, è in difficoltà. La sua difficile missione è di consolidare la dominazione dei vincitori, ma ha poche risorse e ancor meno truppe. Costantinopoli, impegnata su altri fronti, non lo aiuta e si disinteressa delle sofferenti regioni italiche. Narsete fa quel che può. In primis, difende i valichi delle Alpi, e crea ex novo quattro Ducati, imperniati su altrettante città pedemontane fortificate; la fonte storica elenca solo le quattro localita, e una di queste è Forum Iulii, l’attuale Cividale del Friuli, a cui spetta la difesa verso est.
La leggenda di Paolo Diacono inizia a questo punto e narra che Narsete, preoccupato per le disastrose condizioni della penisola a nord, si ricorda dei valorosi combattenti longobardi e invia loro una delegazione. I diplomatici bizantini, ricevuti a corte, iniziano deplorando con parole ad effetto le squallide condizioni di vita in Pannonia. Poi, decantando la prosperità italica, offrono ad Alboino un ricco tesoro di frutta e altri prodotti della penisola , per invogliare così il re longobardo a partire, ed occupare i territori “liberati” nel 553 dai Goti. E Alboino, coi suoi, già entusiasti per i beni che li aspettano, ordina di partire.
Prima però si accorda -dice ancora la leggenda- con Avari e Bizantini e ottiene che i Longobardi possano tornare in Pannonia nel caso l’invasione fosse andata male.
La parte leggendaria dell’esodo finisce qui. Paolo Diacono ha spiegato e risolto gli antefatti del 567. Non racconta i pressanti timori e i dubbi della popolazione, nel lungo inverno pannonico, ma passa oltre e arriva al fausto e primaverile 2 Aprile 568, di cui ho già detto.
A questo punto la “Historia Langobardorum” continua così: “Igitur cum rex Alboin cum omni suo exercitu vulgique promiscui ad extremos Italiae fines pervenisset” cioè il re germanico col suo popolo, insieme a genti non longobarde, giunge al confine italico. Qui Alboino dall’alto di una montagna si ferma per ammirare le terre che aspettano lui e il suo popolo. Questo rilievo, che sarà chiamato poi “Monte del Re”, come riferisce Paolo Diacono, resta tuttora non identificato con precisione.
Non conosciamo nemmeno il percorso; probabilmente Alboino percorre vie militari romane, già note ai suoi tanti guerrieri che avevano, in qualità di mercenari, combattuto i Goti sul suolo italico. Se ipotizziamo che l’esodo sia iniziato circa dal lago Balaton, e si sia diretto verso le antiche ma desolate città Poetovium ed Emona (Ptuj e Lubiana, attuale Slovenia), potrebbe essere giunto in meno di un mese a ridosso del primo grosso ostacolo, ovvero i rilievi montuosi di confine, la cui difesa spettava al duca bizantino di Forum Iulii. La primavera che avanzava, il percorso relativamente breve (350 – 400 km.), la scarsa elevazione alpina da valicare, e infine lo spopolamento della zona attraversata, simile al resto del nord italico, fin qui favoriscono la marcia Alboino.
Ma qual è la situazione che attende i Longobardi oltre la frontiera che sbarra loro la strada? La storica “Venezia e Istria” è la prima regione italica che incontrano. Essa manteneva ancora i confini amministrativi e militari risalenti al Tardo Impero romano, confini però debolmente difesi nel 568, cioè adesso che Alboino li minaccia frontalmente; è lì fuori con tutti i Longobardi. L’esercito bizantino, intanto, era stato già dirottato in Oriente, su altri fronti di guerra. Narsete, destituito da Costantinopoli, non può perfezionare la difesa della penisola italica; a nord i Bizantini si sono appena riappropriati delle principali citta (Milano, Verona, Pavia, Ravenna) e sono le uniche che rafforzano; le altre sono praticamente sguarnite. I successori di Narsete, e poi gli Esarchi, cercano faticosamente di controllare le strade di collegamento e alcune direttrici prealpine, mentre lungo le coste i Bizantini sono attestati su posizioni meglio difese .
La situazione politica nel 568 al nord è altrettanto negativa. La classe senatoriale romana che forniva la maggioranza degli amministratori, come giudici, prefetti e consoli, non c’è quasi più. Alcuni vescovi sono incaricati di sostituirli. Di altre città e relative province o diocesi mancano notizie. Spesso l’Esarca deve supplire nominando dei militari che si occupano anche di opere pubbliche.
L’economia langue da anni, nel 568. La quasi totale scomparsa dei senatori, che erano anche i maggiori proprietari terrieri, produce un drastico calo del gettito fiscale. I Bizantini tentano di spremere ciò che resta per finire il lungo conflitto coi Goti, e poi governare nei difficili anni post bellici, ma deprimono ancor più la situazione. Nelle città del nord e nel contado l’economia, già “di guerra” è aggravata dal calo di popolazione, ben più che decimata rispetto al tempo di Teodorico. A ciò si aggiunge la fuga di manodopera, ovvero servi e soprattutto schiavi, dai campi. Verso la fine della guerra, la fuga diventa massiccia e favorita dai Goti .
All’abbandono delle colture ed alla sfortunata serie di calamità naturali, in particolare terremoti, siccità e alluvioni, sicuramente documentate nel VI secolo, fanno seguito spaventose carestie e pestilenze, prima e dopo il 568, come racconta anche Paolo Diacono.
A complicare le cose sul piano militare ci sono probabilmente gruppi di Goti sbandati; infatti sappiamo che Narsete aveva dovuto affrontare una loro roccaforte che resisteva, benché la guerra fosse finita da tempo, ancora nel 564. Inoltre c’è il problema dei Franchi; erano intervenuti nella guerra come alleati dei Bizantini, ma alcuni loro gruppi avevano scelto di restare a guerra finita, e di occupare stabilmente e in totale autonomia piccole “enclave”. Inoltre i Merovingi storicamente bramavano di annettere la Liguria e l’Emilia al confinante Regno dei Franchi. Per tutte le ragioni anzidette, molti storici giustamente ipotizzano che nella primavera 568 l’invasione longobarda sia accettata da Costantinopoli come il “male minore”, cioè un episodio tollerabile e limitato alla zona di confine della Venezia, in attesa di tornare in forze, ripristinare il legittimo governo esarcale o imperiale, e scalzare Alboino.
Ma il re longobardo, dopo aver pregustato la conquista dall’alto di quel leggendario “mons regis”, è determinato più che mai. Rende inoffensivi i pochi nemici a guardia dello spartiacque Mediterraneo – Mar Nero. Penetra così, senza sforzo la già menzionata frontiera su cui sorgevano alcuni piccoli insediamenti militari d’altura. Questi avamposti, poco più che torri di guardia, erano già presenti durante l’Impero Romano, e uniti da una lunga muraglia, oggi ridotta a scarsi avanzi, in Slovenia. Entrato dunque nella Venezia, Alboino nel Maggio 568 scende verso il fiume Isonzo ma evita di attraversarlo sullo storico “pons Socii”, un solido e ampio ponte romano in muratura, nei pressi dell’attuale Gorizia, probabilmente ben difeso. Invece guida i Longobardi ben più a nord, e passa il fiume forse vicino a Caporetto.
Già, Caporetto, per ironia della sorte. Alboino da lì lì scavalca il facile rilievo del monte Matajur e si infila nella piccola valle del fiume Natisone, ormai in vista della prima città sopravissuta a guerre e invasioni, e che adesso gli si para davanti: Forum Iulii – Cividale.
Non sappiamo se il percorso del sovrano invasore, una volta lasciatosi alle spalle il Monte del Re, sia andato proprio così. Comunque sia, nella “Historia Langobardorum”, dopo una breve digressione, il racconto prosegue così: “Indeque Alboin cum Venetiae fines, quae prima est Italiae provincia, hoc est civitatis vel potius castri Foroiulani terminos sine aliquo obstaculo introisset, perpendere coepit”. Alboino, dunque, entra nella Venezia, la prima provincia d’Italia, e conquista la città o meglio -precisa Paolo Diacono- la fortezza di Cividale e la sua regione.
La frase “sine aliquo obstacula” ci dice solo che l’invasione è iniziata in modo quasi pacifico perchè letteralmente senza alcun ostacolo. Siamo probabilmente a inizio Giugno 568 e Alboino consolida la zona appena conquistata, creando il Ducato di Cividale, cioè la prima entità longobarda nelle penisola. Nomina duca il nipote Gisulfo, uno dei suoi più abili ufficiali. Questi chiede e ottiene di scegliere le “fare” secondo lui più affidabili per difendere il cividalese, o meglio il Friuli, cioè la regione che prende così il nome da Forum Iullii – Cividale, la sua prima capitale.

La stessa frase “sine aliquo obstacula” fa ancora discutere gli storici e non solo loro. Perché la Venezia bizantina non si difende? Forse, suggeriscono alcuni, perché davvero i Bizantini erano d’accordo con Alboino, e quindi la leggenda, quella della frutta inviata da Narsete, è realtà. O forse perché ragionevolmente non poteva. Nel 568 i presìdi bizantini erano sguarniti, troppo vasta la penisola per essere controllata, dunque meglio ritirarsi in poche fortezze. I Longobardi non paiono ancora capaci di porre un assedio, né di portare minacce dal mare. Intanto la loro penetrazione continua, dislocando sul territorio tanti piccoli gruppi, le “fare”, appunto.
Mentre Gisulfo tiene per sé le “fare” migliori (“della più nobile stirpe”, ci dice Paolo Diacono), altre ormai possono entrare in Friuli per la via storica e più agevole del citato “pons Socii”, ormai indifeso. Addirittura alcune puntano a sud verso Tergeste (Trieste) che subisce un’incursione già nello stesso anno, ma non l’occupazione, a quanto sembra. Insomma, una conquista a piccole tappe, da punti diversi, con modalità variabili e in contemporanea. Significativo è il caso di Opitergium (Oderzo), che resta una fortezza bizantina inespugnabile, a guardia della strategica via Postumia, per quasi 50 anni dopo l’invasione, e che i primi Longobardi partiti dal vicino Friuli si lasciano alle spalle, se ne disinteressano quasi, mentre conquistano via via altre città nel nord Italia. Nel frattempo tra Oderzo e Grado resta aperta addirittura una via di comunicazione che garantisce i rifornimenti, e che talvolta usano anche gli stessi Longobardi per scambi di merci e prigionieri con le due città. Grado, come tutta la costa adriatica, rimane saldamente bizantina. Qui nel 568 si rifugiano in molti provenienti dalla Venezia invasa, tra cui il Patriarca di Aquileia.
Treviso rappresenta un altro caso emblematico. Alboino lascia Cividale nel Settembre del 568 e punta verso ovest ma si tiene distante dalla ben difesa fascia costiere bizantina. Preferisce i percorsi pedemontani e la via Postumia. Lasciata dietro sé Oderzo, arriva davanti a Treviso. Qui non trova una autorità civile con cui trattare, né un comandante militare che lo contrasta. Trova invece soltanto il vescovo Felice che gli viene incontro, e al quale Alboino conferma il possesso dei beni della sua chiesa, come previsto dalla legge vigente dal 554, la “Prammatica Sanzione” dell’Imperatore Giustiniano.
Nei mesi estivi del 568 i Longobardi organizzano il Ducato ma soprattutto si preoccupano di difenderlo. Gli storici loro nemici, gli Avari, potrebbero attaccarli alle spalle, penetrando anch’essi dalla Pannonia. E purtroppo così sarà, ma più tardi, nel 610, con una incursione devastante. Cividale è rasa al suolo, e lo conferma ancor oggi uno strato di detriti (30 -40 cm.) presente negli scavi e dovuto alla distruzione. Gli Avari massacrano, ràzziano e fanno schiavi. Tra questi ci sono cinque fratelli rimasti orfani a causa dell’incursione. Gli Avari portano i cinque ragazzi in Pannonia, da dove soltanto uno, Lopichis, sarà abbastanza forte e fortunato da tornare a Cividale, dopo molti anni. Lopichis riconoscerà la casa paterna, ormai in completa rovina, ma la ripristinerà con tenacia e poi avrà anche moglie e figli, tra cui Arechi che genererà Warnefrido. Costui sarà il padre del nostro cronista Paolo Diacono, nato prorprio a Cividale intorno al 720. Paolo diventerà monaco benedettino e stimato intellettuale. Lavorerà alla corte longobarda di Pavia poi sarà al sèguito di Carlo Magno, presso il quale finisce la stesura della “Historia Langobardorum”; da questa, e precisamente dal Libro II, capitoli 8 e 9, ho riportato le tre frasi qui analizzate. Tre semplici frasi per raccontare l’emozionante passaggio chiave nella vicenda del “Popolo che ha cambiato la Storia”. ©Roberto Neri
(Bibliografia / D, Obolensky “Il Commonwealth Bizantino” / N. Bergamo “I Longobardi” / P. Marchesi “Cividale del Friuli” in TCI Città da scoprire / Catalogo della mostra 2017 “Longobardi – Un popolo che cambia la storia”).