Luci dal Medioevo. A colloquio con Davide Bertotti

L'Imperatrice Theodora e la sua corte, affresco della Basilica di San Vitale, VI secolo
L’Imperatrice Theodora e la sua corte, affresco della Basilica di San Vitale, VI secolo.

di Mario Miguel Moretta.

Davide Bertotti è musicista di professione, esecutore di repertorio vocale liturgico antico e studioso attento della Storia; da sempre medievista per elezione, saggista e drammaturgo, è autore di diversi lavori legati alla cultura di un mondo complesso che inizia nel V e termina nel XV secolo, denso di vicende umane e politiche ma soprattutto straripante di esaltanti e talvolta inquietanti esperienze spirituali. Un mondo, spesso rievocato in modo distorto da tanta filmografia d’avventura o da componimenti letterari di discutibile spessore, che resta poco noto alle grandi masse sebbene abbia prodotto nei secoli incomparabili capolavori specie in ambito urbanistico, artistico e filosofico. Capita che, nell’immaginazione della gente comune, l’età del Medioevo non goda dello stesso fascino di quella antica che l’ha preceduta, né di quella moderna che l’ha seguita. Parliamo di un tempo animato da figure ritenute “lontane” e forse contrapposte alla nostra sensibilità definita dai sociologi “post-moderna”. Questi personaggi lontani, soprattutto nel tempo, le cui gesta costituiscono una grande fetta di storia dell’umanità, sono papi e imperatori, santi ed eretici, crociati e filosofi, artisti e “streghe”. La loro vita, intimamente incardinata nella trascendenza della cristianità, si dipana tra guerre di conquista e pestilenze, tra costruzioni di superbe cattedrali e fiorenti commerci marittimi e terrestri, tra pellegrinaggi devozionali e singolari ritualità ereditate dal mondo pagano. Si tratta di dieci secoli che, ieri come oggi, nei licei, nell’ora dedicata allo studio del passato, gli studenti recepiscono senza eccessivo entusiasmo. Le ragioni sono tante, sta di fatto che il Medioevo è indicato paradossalmente ancora oggi come un’interminabile ma transitoria “età delle tenebre” e nel linguaggio corrente la parola “oscurantismo” si associa senza tanti distinguo alla parola “medievale”, benché i tanti “buchi neri” del nostro presente siano spesso sottaciuti ovvero elegantemente rimossi. Non meno distorta tra i giovani è l’idea di “progresso” in quanto, se il Medioevo risulta essere poco noto, il terrore del Novecento sembra addirittura non essere mai esistito. Può accadere che qualcuno, senza il piglio del medievista di professione, si accosti seriamente alla lettura di autori quali ad esempio San Bernardo di Chiaravalle, Sant’Ambrogio, San Tommaso ed altri ancora, imparando a rimuovere tanti pregiudizi e riappropriandosi di una dimensione interiore dello spirito che l’uomo contemporaneo ha in gran parte seppellito. Per fortuna la magnifica poesia, l’arte in genere e la ricca filosofia del Medioevo tengono ancora banco nelle scuole, ma il “latino”, ormai ridotto a mero reperto archeologico, non sta reggendo l’aggressiva concorrenza dei nuovi saperi. Lo studio della lingua che ha fatto grande la nostra civiltà diventa, ogni giorno che passa, esclusiva passione per pochi cultori. Raramente si sottolinea il fatto che Dante Alighieri abbia scelto come ultimo compagno del suo viaggio ultraterreno un “Padre” d’eccezione come San Bernardo, il “doctor mellifluus”, emblema di un ideale medievale di vita tutto vocato a scoprire il “senso” profondo delle cose. L’ideale di vita dell’uomo medievale è fortemente ancorato al bisogno (mortificato se non annientato dalla modernità) di attribuire unità di significato a tutto ciò che gli accade intorno. Con Davide Bertotti inizia un colloquio amichevole e franco, non soltanto su questioni di stretto ordine storico e dunque non legate segnatamente all’analisi di eventi che si collocano nel Medioevo. Niente di specialistico, nessuna pedanteria e soprattutto nessuna nostalgia passatista: con lo studioso torinese affronteremo alcuni temi che la “modernità”, cioè la fase storica su cui fonda le sue radici l’odierna post-modernità, è stata ciclicamente costretta a rimeditare alla luce di una colossale mancata promessa; vale a dire l’illusorio convincimento, miseramente disatteso dai fatti storici, che la sola razionalità potesse assorbire e amministrare ogni ambito della esistenza umana. Parleremo di “civiltà”, di “barbarie”, di “secolarizzazione“, di “decadenza”, di “feudalesimo”, di “capitalismo”, di “modernità”, di “fede”, di “scienza”, di “politica”, di “arti”, ecc. allo scopo di stimolare un utile confronto, questo sì, con un passato che sembrerebbe assai meno “buio” di quanto ancora comunemente si ritenga.

Moretta: Perché le chiese di ferro e cemento che si costruiscono oggi non hanno nulla a che vedere con quelle del passato? E’ un problema di architetti e maestranze, o di “presupposti ideali e spirituali”? Ogni pietra scolpita di una cattedrale medievale ci ispira un senso di bellezza che le bislacche fattezze delle architetture contemporanee non sono affatto in grado di emulare. Perché?

Bertotti: Si tratta di un problema generale che esplode in particolare nel secondo Novecento. Le cause sono molteplici e terribilmente connesse tra loro. Al momento mettiamola così; la popolazione, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, cresceva e c’era bisogno di costruire nuove chiese soprattutto nelle periferie urbane di allora; il costo dei materiali e delle diverse maestranze per realizzare capolavori di architettura sacra sarebbero stati “insostenibili”: tanto valeva affidarsi alle concezioni costruttive di quella che già allora era la post-modernità. Se si parla ancora oggi con qualche giovane architetto sano, ci si sente rispondere che nulla supererà mai, nell’ambito dell’architettura sacra cristiana, le cattedrali gotiche, ossia ciò che era chiamato “opus francigenum”: nessuno peraltro poteva pensare che Antoni Gaudí fosse in grado di clonarsi in serie per disseminare il mondo cristiano di nuove cattedrali. Siamo sicuri che le gerarchie ecclesiastiche considerassero davvero “insostenibili” i costi che avrebbero permesso alla cristianità di continuare a proporre architettonicamente ciò che, pur attraverso diversi stili artistici, era stato proposto per più di quindici secoli? La risposta si ha nel fatto stesso che una civiltà in ascesa crea ed edifica sempre per qualcosa che sta sopra di sé: la modernità, fin dai suoi esordi precedenti l’Umanesimo quattrocentesco, non era partita benissimo e, dopo mezzo millennio, aveva finito per autodistruggersi totalmente. Se si legge attentamente il discorso di chiusura dell’ultimo concilio della chiesa cattolica, pronunciato da Paolo VI nel 1967, i conti tornano: per conoscere il volto di Dio bisogna contemplare il volto dell’uomo. In gergo tecnico, una tale affermazione può chiamarsi “sofisma”. Nei fatti, la chiesa cattolica è stata avvolta da un ennesimo Mysterium Iniquitatis a partire dalla morte di Pio XII e solo ora, grazie alla grandezza di Benedetto XVI, può ricominciare a sperare di ricostruire qualcosa anche di sé stessa. Costruire un edificio sacro è compito elettivo, arduo e altissimo: i millenni ci hanno detto quali architetti ne furono degni e quali criteri furono adottati allo scopo, in tutte le religioni e in ogni parte del mondo. La cosa certa è che, quando si ha a che fare non con popoli e comunità ma con “masse” da manovrare, sono proprio la bellezza, l’arte e il divino i primi fondamenti a essere distrutti dai prodi rivoluzionari. Sappiamo tutti che fu praticamente un miracolo a impedire ai giacobini di distruggere Notre-Dame; con i bolscevichi andò allo stesso modo. Come poteva dunque una civiltà votata alla morte occuparsi dell’edificazione della bellezza che è un “signum Dei”? Nel neogotico ottocentesco sopravvisse ancora qualcosa da cui, per esempio, provenne un Gaudí. L’architettura civile non se la passa affatto meglio e pertanto possiamo dire che l’architettura sia uno speciale ritratto della società stessa. Per costruire le cattedrali medievali ogni ceto sociale laico e clericale mise del proprio senza alcun risparmio, come accertato da ogni sorta di documenti: moltissimi invece, nell’ultimo mezzo secolo, non hanno messo altro che la propria nullità, la propria ideologia, la propria appartenenza a vecchi poteri generanti nuovi schiavi, la propria visione salvifica del “sociale”, mezzo e fine perfetto di dissoluzione. Questo il risultato dell’uomo fattosi Dio: a ciascuno il giudizio che può dare o che si merita. Quanto più presto ci lasceremo alle spalle tale scempio, meglio sarà; a mio giudizio, è persino sciocco chiederci se “siamo ancora in tempo”: il tempo, volendo, lo si trova sempre.

Moretta: Alcune pubblicazioni di grande successo, pensiamo per esempio a “Il codice da Vinci”, cui si affiancano centinaia di romanzi o fantasiosi trattati divulgativi su temi intriganti quali “I Templari”, “Il Sacro Graal” ecc., da una parte suscitano diffusa curiosità per la storia medievale, dall’altra alimentano molti luoghi comuni che paradossalmente si adattano benissimo a quanto abbiamo letto nei libri di storia. Il problema della diffusione delle falsità storiche intorno al Medioevo investe solo le scelte furbastre di un’editoria confezionata per il largo consumo o vi sono complicità di ordine per così dire “accademico”?

Bertotti: In realtà si tratta di un vero e proprio odio profondo, metodico e sistematico nel confronti del Medioevo e del cristianesimo, in specifico della cattolicità. Già gli umanisti quattrocenteschi chiamarono “gotica”, ossia spregevolmente barbarica, l’arte francigena del Pieno Medioevo: si voleva in realtà, con l’Umanesimo, reintrodurre la riscoperta del mondo pagano dell’Antichità come luogo dell’uomo “misura di tutte le cose” (Protagora), delle scienze umane perfettamente autonome; si trattava di un progetto assolutamente politico e intellettualistico mirante a screditare e distruggere dalle fondamenta il principio politico gerarchico, secolare ed ecclesiastico, che aveva caratterizzato tutto il Medioevo: rientrava, soprattutto con lo studio dei filosofi greci, l’idea di “democratizzare” la società politica. I frutti, con la deflagrazione della Riforma protestante, non si fecero attendere e tali frutti ne produssero di ancora peggiori durante il materialismo razionalista della Francia settecentesca. Partito in “segretezza”, tale progetto politico di Nuovo Ordine mondiale progressivo non trovò sempre le adeguate risposte da parte di ceti politici, soprattutto secolari, che stavano diventando sempre più autoreferenziali (nonché endogamici) e svuotati di ogni autentica energia militare di controllo e repressione dei movimenti politici sovversivi. Questa lenta decadenza politica era nata già nel Duecento ma, in quel secolo, non era facile prevedere gli infiniti lutti del futuro: si erano infatti concretizzati equilibri geopolitici che solo la scoperta delle Americhe avrebbe scompaginato. Tornando alla domanda, fra le mille buffonate cui ancora oggi assistiamo (e cui in futuro assisteremo), l’esempio di Dan Brown è certamente paradigmatico; è come se il romanziere si fosse chiesto: “Perché non proviamo a mettere insieme un bel mix di eresie dei primi tre secoli cristiani? Vediamo un po’ come rispondono i moderni analfabeti: intanto puntiamo al bersaglio grosso, ossia l’Opus Dei”. Detto che l’Opus Dei non è una consorteria di incappucciati, il romanziere si è riempito le tasche in adorazione della Dea Fantasia, ma gli è andata male in un versante ben più decisivo: ha finito infatti per riaccendere l’interesse intorno a tutti i temi che ha trattato, stimolando forse milioni di persone, che di quelle faccende si erano ormai dimenticate, a ricercare la Verità nelle gloriose pagine di storia della Patristica, nonché in quelle di storia delle eresie e, in specifico, delle eresie che potremmo definire pelose. Il Medioevo fu infatti talmente tenebroso, oscurantista e sterminatore che molti temi di Dan Brown si possono ritrovare fra le pieghe dei più noti romanzi cavallereschi medievali: magari il romanziere pensava che anche quei romanzi fossero citati nell’Indice dei libri proibiti (libri che, di norma, si trovavano quasi ovunque). Le complicità d’ordine accademico, relativamente alla diffamazione del Medioevo e della sua storia, sono talmente varie che, al solo pensarci, non si sa se piangerne o riderne. Possiamo però dare per certo il fatto che uno storico marxista non abbia fatto peggiori danni di uno storico illuminista, di un idealista o di un umanista: si tratta infatti di quattro figure strettamente imparentate. Sarebbe però il momento di cercare la Verità di tante cose anche e soprattutto fuori dagli Istituti (dis)educativi dello Stato moderno: è fin troppo chiaro che i nuovi luoghi in cui svolgere un’autentica libera ricerca siano ormai sicuramente altrove.

Moretta: Il noto prof. Franco Cardini , a proposito del “buio medievale” parla di Leggenda Nera costruita nel periodo illuministico che si è trascinata fino ai nostri giorni. Provocatoriamente afferma: “Comincio a essere stanco” di fronte al fallimento di tutti i tentativi di ripristino della verità attraverso una “seria divulgazione” che ha visto impegnati eminenti studiosi. In un memorabile e affollatissimo convegno dal titolo “Medioevo e luoghi comuni”, tenutosi a Bologna nel 2002, si sono chiarite molte cose. Può farne cenno?

Bertotti: Mi conceda una brevissima divagazione: quando lessi che quel convegno si sarebbe tenuto il 3 ottobre 2001 all’Università di Bologna nell’aula “Prodi” non sapevo, anche in quel caso, se piangere o ridere. La partecipazione di docenti (in particolare) fu talmente alta da spingere gli organizzatori a bissare l’appuntamento il 7 marzo 2002. Il convegno fu di due nature, una “storiografica” e l’altra “pedagogico-didattica” (quasi che gli ultimi due termini non costituiscano in pratica una tautologia). Nel testo di apertura, presentato dal prof. Frabboni, si parlava del Medioevo come di “una materia sentita come difficile” da affrontare “attraverso un’opportuna mediazione didattica tra i saperi esperti (la storiografia) e i bisogni cognitivi emozionali sociali dei giovani del nuovo millennio”. Devo continuare? La scongiuro di no, perché altrimenti mi vien da piangere per davvero. Quanto a Franco Cardini, certamente uno dei più noti medievisti italiani insieme a Ludovico Gatto, gli va riconosciuto di aver provato a sfatare, accademicamente, la cosiddetta Leggenda Nera; può anche darsi che ora, dopo un quarantennio di onorato servizio, si ritenga giustamente stanco: ottima ragione, dico io, per farsi da parte e lasciare a giovani altamente motivati e disciplinarmente ineccepibili il compito di proseguire la ricerca e la divulgazione della Verità sui “Secoli della Luce”. E non si venga a dire che non ci siano giovani di altissimo valore; io stesso, che non lavoro in ambienti accademici, ne conosco uno di valore enorme: il suo nome è Marco Meschini, docente di Scrittura della storia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (dove, con ogni probabilità, non ci sono aule “Prodi” in cui tenere convegni che somiglino a raffinate esercitazioni di Medicina legale).

Moretta: Parliamo di “razionalità” e di “logica”. Questi capisaldi della conoscenza sono portati alla loro massima espressione con l’Illuminismo o già con la filosofia scolastica raggiungono vette stratosferiche?

Bertotti: E’ assolutamente incredibile come le vulgate illuministiche siano riuscite a far passare i protagonisti assoluti della civiltà medievale per australopitechi o simili: peraltro, da intellettuali che hanno praticamente generato le teorie dell’evoluzionismo positivista c’era da attendersi di tutto. Non è un caso che nelle nostre scuole si manipoli ancora oggi il cervello dei più piccoli presentando come una certezza la mera ipotesi, sempre più smentita da autorevoli ricercatori e, in parte, persino da Darwin stesso, che un essere umano sia una scimmia evoluta: questi lavatori di cervelli fiutano però il pericolo che i loro teoremi, costruiti in tanti decenni di meticolosa alienazione spirituale, stiano per sbriciolarsi e, naturalmente, essi si aggrappano a tutto pur di non essere spazzati via dalla stessa libera ricerca. Sarebbe mai plausibile che la civiltà medievale aborrisse la “razionalità” e la “logica”, neppure si trattasse di orrendi mostri velenosi? Neppure per sogno. Nel Medioevo la filosofia greca era non solo conosciuta ma conosciutissima in lungo e in largo. Come testimonia San Tommaso, era però Aristotele il vero cuore della filosofia, della ragione, della logica e della conoscenza medievale. Platone non era meno importante ma, non a caso, i medievali citavano il celebre adagio, desunto obliquamente da Aristotele (Etica Nicomachea 1, 6, 1096a): “Amicus Plato sed magis amica veritas”. Ma per carità di Dio! Non ricordiamolo al celebre autore di “Ecce Comu” il quale, ovviamente su l’Unità, scriveva il 7 novembre 2001: “Amicus Plato, sed magis amica veritas – lo hanno sempre detto i dogmatici e fanatici di ogni tempo; e giù pogrom, inquisizioni, roghi di eretici, carcerazione di diversi, oppressione delle minoranze devianti, liquidazione delle razze inferiori…”. Poi ci chiediamo perché le vulgate continuino a tener banco! Ci consola il fatto che tra Vattimo e un ideologo giacobino o bolscevico c’è la stessa differenza che passa fra una biscia d’acqua e un anaconda. Al limite possiamo ricordare Newton che, in quel celebre adagio, riuniva assieme l’ateniese e lo stagirita. A proposito: noi che pensiamo che mille anni fa l’Europa fosse popolata da sanguinari mostri sottosviluppati, abbiamo mai provato a rileggere i più grandi autori della Patristica, dell’Apologetica, della filosofia prescolastica e della stessa scolastica? Pensiamo forse che si tratti di opere in dialetto antartico e quindi neppure più decifrabili? Non ci sfiora nemmeno il sospetto di essere noi i veri analfabeti, con tutte le nostre ridicole scientologie? Galilei fu condannato ingiustamente, ma nessuno si ricorda che i più grandi amici e sostenitori di Galilei e di Torricelli furono alti esponenti gesuiti? Qui però siamo già ben fuori dal Medioevo e simili problemi sono del tutto moderni. Tra le loro mille discipline, i medievali consideravano astronomia e astrologia (quella della loro epoca) come due discipline importanti ma non disgiunte: e pazienza se l’illustrissima professoressa Hack non gradirà. Forse Sant’Anselmo d’Aosta non era Aristotele, ma ritenere che simili uomini non fossero in grado di elaborare un grandissimo pensiero in ogni campo mi sembra autenticamente squallido. Oggi la Teologia, un tempo la Scienza delle Scienze, è considerata una facoltà universitaria per pazzi o per decerebrati: perché? Assicuro che rispondere a una tale domanda non è soltanto duro ma, per milioni di occidentali postmoderni, potrebbe rivelarsi addirittura traumatico.

Moretta: Parliamo di “cultura”. Le conoscenze dell’Antichità grazie a chi ci sono state tramandate? Se il Medioevo è stato il tempo delle “tenebre”, quali esigenze hanno portato gli uomini di quel tempo a fondare le Università? Il sistema di numerazione posizionale, la trigonometria, l’avvio delle scienze nuove e delle tecniche costruttive è tutto interno alla “modernità” o sono già avvertibili in secoli anteriori?

Bertotti: Nel variegatissimo mondo arabo e mediorientale, attorno alla morte di Maometto, le conoscenze antiche, greche in particolare, erano filtrate attraverso le generazioni appartenute all’impero alessandrino e a quello romano d’Oriente: nella Baghdad dei califfi ommayyadi e abbasidi, fondatori di una civiltà ricca e potente, le scienze in genere facevano la parte del leone. Il sistema di numerazione posizionale è arabo e la trigonometria era già studiata dagli Egizi quasi 40 secoli fa. In quelle discipline eravamo rimasti indietro, dal momento che le invasioni barbariche ci avevano praticamente distrutto ogni cosa: anche questo sarà colpa del cristianesimo e della Chiesa, ovviamente. Peccato che nei monasteri fondati in particolare da San Benedetto da Norcia sia stato possibile preservare e ricopiare assolutamente tutto ciò che era stato salvato dalla furia dei barbari: dovevamo aspettare che l’eruditissimo prof. Eco ci indicasse la presenza, già allora, di inquisitori stragisti e torturatori… Per quanto riguarda le tecniche costruttive, credo che le maestranze e gli architetti direttori dei lavori di una cattedrale sapessero molte più cose di quante noi non possiamo immaginare. La trattatistica “tecnica” medievale è difficilmente assimilabile alla nostra, tuttavia gli autori sono in molti casi di un estremo rigore espositivo. La fondazione delle università non fu indolore: le scuole annesse alle cattedrali e ai grandi monasteri benedettini intuirono il pericolo di tempi difficili. L’autonomia di quelle nuove istituzioni era stata reclamata in modo spesso sfrontato e sprezzante da membri degli ordini francescani e domenicani onde rivendicare per loro, in particolare, nuove fette di potere culturale e sociale da spendere successivamente. Se è vero che Parigi ebbe Sant’Alberto Magno e poi San Tommaso, l’esperienza antecedente di Pietro Abelardo aveva chiarito molto bene cosa potesse significare l’ingresso di una speciale nuova sofistica in alcune discipline universitarie. La Parigi del Duecento sfornò teologi e avvocati in numero impressionante: furono in massima parte usati per costituire l’humus culturale per mezzo del quale Filippo il Bello poté distruggere la straordinaria figura di Bonifacio VIII, fare eleggere papa Bertrand de Got, suo favorito, annientare l’ordine dei Templari, omologare il regno di Francia attraverso una specie di terrorismo fiscale e trasferire la chiesa romana ad Avignone sotto il suo controllo. Bonaparte, a suo modo e con finalità diverse, si distinse ugualmente per le sue prodezze: era un altro che esportava il “diritto repubblicano” come alcuni oggi esportano la “democrazia” e, si badi bene, tutti senza uno straccio di Impero, bensì con un certo tipo di rivoluzioni e di guerre civili alle spalle. Sia dunque chiaro: la modernità non significa affatto il raggiungimento di una emancipazione (da maggiore età) del genere umano con tutto ciò che ideologicamente ne consegue; nell’ipotesi migliore è stato un “andare avanti” nel ricercare e nello scoprire ciò che ci poteva essere utile, cosa comunque di non poco conto.

Moretta: Recentemente ho avuto occasione di visitare l’Umbria, una regione meravigliosa, fatta di natura invitante e di splendidi gioielli architettonici. Passeggiando nella città natale di Jacopone ho potuto constatare che in effetti Todi merita davvero il titolo onorifico di “città più vivibile del mondo”. E’ un caso che questo riconoscimento sia stato assegnato a un città che, da un punto di vista urbanistico ha conservato il suo carattere medievale?

Bertotti: Questi “riconoscimenti” mi lasciano sempre fortemente perplesso se non addirittura irritato. Se andiamo a vedere chi sono i soggetti che rilasciano queste speciali patenti di vivibilità, anche i calvi avrebbero tutte le ragioni, come si suol dire, di mettersi le mani nei capelli. Alludo in tutta evidenza agli spocchiosi detentori di quella nuova fede ideologica che si definisce “ambientalista”, ricordando che a costoro non interessa nulla della vita in città simili poiché le considerano, senza alcuna remora, isole di urbanistica museale dove la speculazione del mercato immobiliare è tutta nelle mani loro o dei loro referenti politici. Nei musei la vita non esiste ed essi, da sempre incapaci di costruire alcunché, si pavoneggiano della bellezza creata dai nostri avi per proprio puro tornaconto fondato sulla speculazione o sulla rendita economica: è una sorta di Disneyland di cui vantarsi nei risibili salotti buoni gestiti dai soliti noti radical-chic. Le giuro che queste mie dure affermazioni non contengono neppure un solo milligrammo di invidia sociale, Dio me ne guardi! Solo che mi ricordo di quando, finita la Seconda Guerra Mondiale, la terra di campagna, in provincia, non valeva un soldo: chi vi rimase era ricco di suo oppure era uno di quelli che gridava più forte il celebre “La terra ai contadini!” costantemente strangolati dai “cattivi” padroni. Poi oggi si scopre che la magica “valorizzazione del territorio” è diventata un insostituibile vessilo ideologico di una certa parte politica. Dire dunque che, a tal riguardo, rimango allibito è usare ancora un gentile eufemismo. Ultimamente, alcuni palazzinari stanno provando a edificare, nei pressi di antichi paesini e borghi, simpatici condomini, villette a schiera e centri commerciali: gli ambientalisti si stracciano le vesti per poi scoprire che il palazzinaro di turno è quasi regolarmente a capo di una società cooperativa o simile. Devo aggiungere altro? La questione è simile a quella che abbiamo affrontato quando parlavamo delle chiese in cemento armato: si vogliono costruire nei pressi di centri urbanistici storici? Si faccia pure, basta che le nuove costruzioni siano in quello stile o, se diverso, siano innovative nel solco preciso di una tradizione, non innovative soltanto sotto il noto “profilo tecnologico”. Ma un sindaco che tale modalità volesse imporre, sarebbe subito sbertucciato e minacciato di essere un discriminatore non solo del (falso) progresso ma, soprattutto, del senso degli affari. La realtà dannatamente terribile è che non sappiamo costruire più nulla che sia autenticamente vivo in cui riconoscerci: al di là delle iniziative individuali, abbiamo commesso lo sciaguratissimo errore di distruggere il concetto di “comunità” per sostituirlo con quello (orrendo) di “collettività”, concetto gemello di “pubblico”, ossia di quelle cose che, in realtà, non sono di nessuno. Il Medioevo praticava il concetto di comunità e di cosa pubblica (e privata) in modo incomparabilmente vivo e vissuto: a noi, come dicevano Benigni e Troisi, non resta che piangere.

Moretta: In un bellissimo libro di Jacques Le Goff intitolato “Il bel Medioevo”, dedicato prevalentemente ai ragazzi e strutturato in una attraente forma dialogata , si parla della vita quotidiana degli uomini e delle donne medievali con rara semplicità ma anche con grande rigore storico. Se ne ricava che questa “età di mezzo” della storia occidentale non era poi così primitiva e “barbarica” come molti media la dipingono. La storia di questi mille anni, ricondotta ai suoi valori più autentici, può
mantenere la sua ineffabile suggestione, per esempio tra i giovani, senza ricorrere alle fantasmagoriche patacche dell’editoria romanzesca che troviamo nei supermercati?

Bertotti: Il Medioevo non è solo un luogo spazio-temporale dello spirito o della storia: esso è vita, carne, ossa, sangue e, mi sia concesso, Fede. Da molto tempo ormai non solo chi studi Teologia, come ricordavo prima, ma anche chi testimonia vera Fede in Cristo è trattato alla stregua di un deficiente. Deficiente perché, come dice la parola, manca sicuramente di qualcosa: non ha infatti ben compreso che siamo diventati tutti maggiorenni e che una legge sopra di noi non esiste e non può esistere. Le leggi ce le facciamo noi, beninteso, a uso e consumo non già nostro (così fosse!) ma delle nostre nuove “appartenenze” ideologiche. “Vecchi padroni per nuovi schiavi”, diceva disperatamente pentito qualche giacobino francese della prima ora: ma ormai era tardi. Quanto al celebre prof. Le Goff, divulgatore e accademico tecnicamente ineccepibile, posso dire, conoscendo la quasi totalità delle sue pubblicazioni, che egli ha sempre palesato un difettuccio assai molesto: per lui, come per il pur grande Steven Runciman, l’Occidente cristiano è sempre l’aggressore degli altri; la Chiesa cattolica e il papato sono sempre per lui i responsabili delle varie guerre nei diversi luoghi dell’orbe allora conosciuto. Non solo queste convinzioni sono del tutto false sotto il profilo storico e documentale, ma tradiscono l’appartenenza di Le Goff alle vulgate del perverso illuminismo (nonché marxismo) di casa sua. E’ inutile raccontarci frottole: le premesse di un’opera sono importanti quanto la forma e il contenuto dell’opera stessa. Un grande storico “dimostra” le sue tesi alla fine della sua “expositio argumentorum” (come facevano i grandi retori) e non ha mai qualcosa da dimostrare fin dall’inizio: in tal caso l’opera perde la maggior parte del suo valore. Agli storici d’accademia è spesso mancata una autentica visione d’insieme: non sono stati “educati”, quindi, alla visione sintetica dei propri oggetti di indagine. Si autodefiniscono scientifici ma sono, per la maggior parte dei casi, degli analisti di cose che, tutto sommato, non li riguardano affatto. Vi sono esempi, fra loro, di affascinanti narratori: peccato però che i loro libri, tra le mani di veri conoscitori delle discipline da loro trattate, vedano evaporare progressivamente quel fascino che, in realtà, era piuttosto artificiale. Il Medioevo era un mondo fatto tutto di colori sgargianti: molti divulgatori così lo dipingono, ma il risultato è spesso un’oleografia da cartolina, ossia una ennesima cosa morta da contemplare con un sorrisino di sufficienza. Mi si potrebbe giustamente obiettare: “Ma i giovani, volendo conoscere il Medioevo, non potranno che partire da testi divulgativi: come faranno quindi a conoscere la verità su quei secoli”? Rispondo secondo la mia personale esperienza perché anch’io ho acquistato nel corso degli anni molti libri discutibili, inutili o addirittura pieni di falsità conclamate, come quelli generalmente adottati nelle scuole: dopo un paziente lavoro di ricerca e di selezione, ho trovato a mia totale disposizione tutto ciò che cercavo. La cosa più importante è che nessun giovane si creda mai in diritto che qualcuno gli serva il pasto caldo e gratuito: un errore che può essere esiziale. Ci vuole amore per lo studio, abnegazione, fatica e una grande virtù ormai insignificante per la nostra vita contemporanea: la “humilitas”, senza la quale ogni ricerca è assolutamente inutile. La “humilitas”, sia ben chiaro, fa parte del moralismo solo per quelle tante povere menti confuse che non hanno mai amato nulla nella loro piccola vita, salvo invece invidiare e odiare qualunque cosa che fosse veramente grande.

Moretta: Il fatto che nelle più importanti città europee vi siano ancora testimonianze significative di una forte e diffusa sensibilità religiosa, vocata principalmente alla cattolicità (chiese, monasteri e preziosi manufatti d’arte) ci può far pensare a una unità Europea, se non medievale sotto il profilo culturale, in qualche modo riferibile al fondamento, alla radice di quella che oggi chiamiamo “comune identità europea”?

Bertotti: Lo volesse il cielo, ma così non è. L’Europa, questa nostra miseranda Europa, non ha e forse non avrà mai più un Carlo Magno: è la nostra condanna, a meno di un miracolo possibile solo a Nostro Signore, non certo a noi. Se la nostra attuale “identità europea” è quella che si legge nei programmi e nelle azioni politiche del PSE (o addirittura di buona parte del PPE) prepariamoci pure al peggio senza farci la minima illusione. Negli ultimi tre secoli abbiamo venduto noi stessi e la nostra storia a qualsiasi nostro nemico: ne stiamo pagando (e siamo solo agli inizi) un prezzo altissimo. Quello della attuale identità europea è un libro da non aprire, quantomeno per dignità e pudore. Altra parola magica in tale contesto è “Dialogo”. Tutti vogliono “dialogare”. E’ la stessa situazione in cui un imbecille disarmato, senza più alcuna conoscenza di sé stesso, vada a parlare con un nemico armato di tutto punto e perfettamente sicuro di sé: come crede che vada a finire? Un incontro o uno scontro come si conviene sono ammissibili solo a parità di condizioni: ogni “pacifinto” o “pacifondaio” può mettersi il cuore in pace (finalmente) poiché il soggetto “uomo” non cambierà mai per il grazioso intervento ideologico di chi si è sognato di “cambiare il mondo”. Anche a Bisanzio qualcuno si ricordò, dopo secoli, di come si prendesse in mano una spada, ma ormai era tardi: i cannoni di Mehmet II erano efficaci quanto i traditori che gli aprivano non una ma mille piccole porte incustodite.

Moretta: La tesi secondo la quale da San Paolo a Sant’Agostino sia maturata nel cristianesimo un “edificio dottrinale antisessuale” ha fondamento? Nella visione dualistica del rapporto fra anima e corpo, il disprezzo per quest’ultimo era così determinante?

Bertotti: Ecco un’altra delle vulgate più famigerate, basata interamente sulla menzogna scientificamente perseguita. San Carmelo Bene (mi si conceda benevolmente il “San”) parlava della cattolicità cristiana come della religione più erotica del mondo: lui, studioso impareggiabile della mistica cristiana (femminile in specifico), conosceva per prova ciò di cui parlava. Che disciplina dura, l’Apologetica! Quant’è disgustoso confutare le testi di chi, in odio alla religione, vuole dimostrare capziosamente (dice lui, scientificamente) i propri rivoltanti convincimenti, facendo anche melliflui sorrisetti di supponenza e di profondo disprezzo verso chi conosca autenticamente le scritture e i loro protagonisti! Possiamo davvero permetterci di perdere così tanto tempo prezioso? Quelli che parlano di “edificio dottrinale antisessuale” in San Paolo e in Sant’Agostino sono degli analfabeti: infatti non hanno mai letto nulla di ciò che intenderebbero “criticare”. Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma è possibile”? La mia risposta è assolutamente affermativa: quando si ha in mente di servire un vero e proprio progetto di dissoluzione completa dell’ordine, della civiltà e della società si deve operare in quel modo; non c’è scampo. Mi piace ricordare, anche in tale caso, Matteo (18, 7): “Vae mundo ab scandalis. Necesse est enim ut veniant scandala, verumtamen vae homini per quem scandalum venit”. Il mondo (ormai da troppo tempo palese) dei diversi sovvertitori e rivoluzionari del nostro Occidente, si sta mostrando nel sua impotenza malefica ai massimi gradi. Inoltre, non dice nulla che i più odiosi veleni siano prodotti da costoro proprio in riferimento alla sessualità? A questo punto il gioco è più che scoperto e faremmo bene non solo a informarci ma a ricercare a fondo su quel problema: a tale proposito consiglio la lettura di tutte le opere del Marchese di Sade. E non sto scherzando affatto! Sade fu l’unico a dire ai francesi giacobini, repubblicani e democratici che cosa effettivamente essi fossero. Si tratta di un autore colossale: la lettura (terribile, lo so) dei suoi scritti è la chiave per distruggere quel progetto politico di cui parlavo prima. Come faccio infatti a distruggere un cancro se non lo conosco? Lo curo con l’aspirina? Sade è un punto di riferimento imprescindibile. Ecco perché io non perdo il mio tempo prezioso con le farneticazioni degli analfabeti: tornino in prima elementare a imparare a leggere, poi, se proprio sarà necessario, se ne riparlerà. Quanto alla visione dualistica del rapporto anima-corpo, perché non interroghiamo Platone e i suoi diversi epigoni alessandrini? Si dice sempre che, in Sant’Agostino, Platone abbondi: andiamo a leggere, ricerchiamo, verifichiamo. Quando si smetterà di parlare per sentito dire? La modernità ha fornito anche molti strumenti critici, alcuni di ottima qualità: usiamoli! Mi vien quasi da sorridere: se avessimo solo un po’ di schiena dritta in certe questioni, avremmo già riletto tutti gli antichi e ne avremmo ricavato per l’ennesima volta la gioia e il piacere della conoscenza. Tutti quegli analfabeti (ormai li chiamo così) imputano ai cattolici quel dualismo. Essi non ricordano neppure che quel dualismo fu scientificamente praticato proprio dagli eretici più assassini, violenti, razzisti ed eversori, fra cui gli apostati neopagani, gli ariani e soprattutto, dal XII secolo, i catari. Ma che dico mai?! Gli eretici sono soltanto le povere e innocenti vittime della sanguinaria repressione clericofascista. Per quanto saremo ancora in vena di carnevalate? Siamo stufi di peccatori marci dentro e storpi fuori, tutti pronti a pretendere diritti con inaudita arroganza. Stiamo cercando disperatamente peccatori con la spina dorsale: solo così potremo riprendere il celebre “bonum certamen certare” di San Bernardo. Possiamo solo augurarci che tutti i pensieri deboli condividano la stessa sorte dei virus intestinali, ossia quella di autoevacuarsi.

Moretta: Mi ha sempre incuriosito la diversità di significati che viene attribuita alla parola “gotico”. In alcuni contesti non può che farmi pensare, per esempio, alla magnificenza della cattedrale di Reims o alla bellezza del duomo di Milano, il che è tutto dire. Talvolta, sfogliando qua e là qualche vecchia pubblicazione, il “gotico” viene inteso come sinonimo di rozzo, di poco rifinito. Da dove trae origine questo doppio e antitetico significato?

Bertotti: Furono molti fra gli umanisti (in gran parte neopagani) del Quattrocento a coniare e diffondere questa bella teoria. “Gotico”, per loro, significava appunto rozzo, barbarico e via dicendo. Incredibile! Tralascio qualsiasi giudizio sull’architettura sacra rinascimentale e barocca per il semplice motivo che potrei esprimere soltanto opinioni strettamente personali. Quel che è certo è che la religione non può fare a meno del simbolo, della forma (che implica obbligatoriamente e direttamente il suo contenuto), del culto, della liturgia. E’ sintomatico che lo stesso San Bernardo, abbia fondato l’ordine cistercense con l’intento di rimanere più vicino alla spiritualità benedettina italiana piuttosto che condividere sic et simpliciter i fasti di Cluny. La Chiesa cattolica è stata quasi sempre rimproverata di eccessivo sfarzo, di ostentazione di ricchezza: le accuse, nella stragrande maggioranza dei casi, sono sempre state improntate all’invidia e a un volgare pauperismo usato in modo del tutto strumentale. Doveva sempre vincere il “povero” Cristo, non il Figlio Unigenito di Dio nella sua Potenza. Sono letture diverse del fenomeno ecclesiastico ma, guarda caso, sono tutte andate a confluire nel puerile ribellismo del Protestantesimo. Le conseguenze di quel modo di pensare e di intendere il cristianesimo non sono, purtroppo, note a tutti anche se gli effetti devastatori sono sotto gli occhi di chiunque. Il grande Guido Ceronetti parlava dello “sperma di Cristo povero” come di una ennesima nuova peste. Non parliamo poi delle varie strumentalizzazioni attuate in tal senso dal potere secolare nel tempo e nelle diverse nazioni europee: sono già stati versati fiumi di inchiostro al riguardo e non è necessario che vi aggiunga del mio. Per fortuna, il significato positivo di “gotico” è riuscito a rimanere saldo e a trasmetterci ancora oggi, concretamente, la Divinità nella sua potenza.

Moretta: Parliamo di una materia a lei tanto cara: la musica. Sappiamo che il pentagramma, così come noi lo conosciamo oggi, risulta essere stato concepito nel Medioevo. Purtroppo non capita spesso di poter ascoltare le sonorità di quel tempo, dedicate per lo più alla liturgia ecclesiastica, in una riproposizione filologicamente corretta. A chi ne sia quasi a digiuno come il sottoscritto, quali consigli può dare? Esistono oggi “forme” musicali che si richiamino a quelle medievali?

Bertotti: Alla musica, ossia a ciò che io chiamo il “Verbum Dei per sonum”, ho dedicato la mia intera esistenza. E’ una vocazione a tutti gli effetti, né c’è bisogno di sviluppare oziosamente un simile concetto: essa è in sé stessa e per sé stessa. Ma è ben diverso rispetto al celebre motto “Ars gratia artis”. E’ qualcosa di infinitamente più grande. Anche qui occorre ricercare continuamente iniziando la grande “peregrinatio” cristiana, dove i percorsi possono anche essere diversi ma la mèta finale è assolutamente Una e Trina. Non ci si smarrisce neppure quando ci si perde: potrà sembrare paradossale e incomprensibile ma tant’è. Questa “peregrinatio” non riguarda solo il musicista, qualunque ruolo ricopra, ma anche l’ascoltatore. Per più di quattro secoli la musica medievale (fatta eccezione per il canto gregoriano, più o meno manipolato) ha cessato di essere eseguita e ascoltata: una gravissima mancanza che ha prodotto danni rilevanti. La riscoperta, per così dire, di quella musica avvenne gradualmente a partire da studi filologici del secondo Ottocento. Fu però dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale che gli specialisti anglosassoni iniziarono a ricomporre le tessere di un mosaico dalla bellezza senza pari. Dopo mezzo secolo da allora, possiamo dire di essere ormai pronti a fornire al pubblico alcune sintesi apprezzabili, sia sotto l’aspetto scientifico sia sotto quello esecutivo. E’ stato un lavoro duro, non privo di ogni sorta di difficoltà e, non di rado, anche di scivoloni ai limiti del ridicolo quando meno ce lo si poteva aspettare. Tuttavia si è andati avanti e ognuno (musicologi, editori, musicisti, discografici) ha fatto dignitosamente la propria parte, spesso comprendendo anche gli errori commessi e ponendovi rimedio secondo le proprie possibilità. Nessuno, ovviamente, ci dirà mai come quella musica “suonasse” all’epoca in cui fu composta. Dato però lo studio accurato dei testi originali (musicali, trattatistici, archivistici), realizzate, pur con alti e bassi, le migliori trascrizioni possibili dei codici, conosciuta a fondo la ricchezza e la complessità di quell’epoca, constatato infine che l’essere umano ha la stessa fisicità da un po’ di migliaia di anni, anche se quelli dell’uomo “nuovo” continuano ancora oggi a desiderarlo “diverso”, possiamo ormai portare in pubblico lavori degni di essere goduti e ascoltati come meritano. La peggiore difficoltà da superare, soprattutto in Italia, è stata quella di creare gruppi di musicisti professionisti che mettessero questa musica al centro della propria attività. Onori e oneri sono sempre equamente distribuiti, sia nel caso degli inglesi (partiti per primi) che nel caso nostro: chi parte per ultimo, posto che abbia fatto abilmente tesoro dell’esperienza altrui, sbaglia poco e raggiunge velocemente quanto si era prefisso. Con Guido d’Arezzo, monaco pomposiano, parliamo ancora una volta di “italiani nel mondo”, dal momento che ci distinguiamo sempre e ovunque. Il suo tetragramma aggiungeva due righi e uno spazio ai due che c’erano già prima del Mille. Appena dopo la metà del Duecento, il manoscritto Wolfenbüttel 1099 riporta già le composizioni della Scuola di Notre-Dame su pentagramma. Tutti questi righi e questi spazi segnano il primo eccelso trionfo della polifonia, creazione peculiare dell’Europa cristiana occidentale medievale. Riconosco che quanto ho appena detto è scorrettissimo in un’epoca votata all’egualitarismo, all’omologazione, al relativismo e alla collettivizzazione; ma non me ne importa proprio nulla: è la Verità a renderci uomini liberi, non certo un’ideologia siffatta. Consigli ai neofiti di questa musica? Per quanto riguarda il canto gregoriano, ancora una volta due italiani si distinguono per le loro meraviglie: mi riferisco ad Alberto Turco e a Fulvio Rampi con i rispettivi gruppi di cantori. Salendo nei secoli, mi taccio per non essere accusato di interesse confliggente. Segnalare altri nomi non è strettamente necessario: la percezione della musica si appoggia su basi certamente oggettive ma anche, e molto, su basi soggettive di sensibilità individuale. Ciascuno cerchi e, dopo aver accumulato sufficiente esperienza, valuti serenamente. Un carissimo collega mi disse: “Avevo ascoltato molte esecuzioni di polifonia medievale e mi dicevo che non poteva essere tale se eseguita così come mi veniva proposta: ora ho capito come va eseguita”. Aveva appena finito di ascoltare la “live” dell’Ensemble di cui faccio parte (Sacra di San Michele, 23 settembre 2005); Dio mio, altro conflitto di interessi… Quanta vile ipocrisia e da che pulpiti! Oggi non esistono forme musicali di impronta medievale, o meglio, non dovrebbero esistere: invece c’è chi ci pensa, ancora un po’ occultamente, ma presto uscirà in piena luce. Aveva ragione il vecchio Stravinskij quando affermò che era stata la Chiesa cattolica a dare le “forme” per la creazione artistica della bellezza: dopo vari momenti di appannamento (e non sono stati pochi, ahinoi), solo il ritorno a quelle forme d’arte restituirà al cristianesimo ciò che gli è proprio. Anche Rachmaninov, colosso musicale e fedelissimo della chiesa ortodossa russa, dedicò alla fede cristiana due sue opere straordinarie quali la Liturgia di San Giovanni Crisostomo [op.31] e I Vespri [op.37]. E’ stato proprio il tragico Novecento, paradossalmente, a riproporre una musica sacra, anche se spesso non liturgica, liberata dalla recente tradizione tardobarocca e ottocentesca nella quale, più che di fronte a un qualcosa di sacro, sembrava di assistere a scene d’opera lirica nel posto sbagliato. Il problema però rimaneva sempre nell’uso, appunto, delle “forme”, relativizzate dalla modernità e dalle sue immediate propaggini. Poco male: riprendiamo a lavorare. Non a caso Sua Santità Benedetto XVI, uno dei rari pontefici “musicali” della storia, sostiene con forza straordinaria la necessità e le ragioni della bellezza in quanto speciale forma di teofania; musica e architettura sono coniugi fin dalla notte dei tempi. Ecco perché abbiamo avuto anche musiche di cemento armato (le famigerate “strutture”). Ecco perché è nuovamente il tempo di riprenderci i segreti della pietra, poiché sta scritto: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam et portae inferi non prevalebunt adversus eam” (Matteo 16, 18). La pietra di un musicista cristiano è il canto gregoriano, così come esso è il solo e unico canto liturgico della Chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica.

Moretta: I goti, i bizantini, i longobardi, i franchi e i normanni sono i popoli più importanti che, nel corso del Medioevo, hanno dimorato per lungo tempo nella nostra penisola. Ciascuno con i suoi modelli organizzativi e politici della società, ciascuno con la propria cultura. A partire da quale periodo è possibile avvertire un germe di identità “nazionale” o, più semplicemente, di “costante identitaria” nel popolo peninsulare?

Bertotti: Sono sempre stato convinto che Dante stesso, nel pronunciare il nome Italia, non intendesse in alcun modo riferirsi a una identità nazionale allora presente o da raggiungere in futuro. Di più: la nostra Italia, sempre per Dante (Purgatorio VI, 105), è il “giardin del lo ‘mperio”, riferendosi al Sacro impero romano germanico post carolingio. La vittoria della Lega lombarda a Legnano contro Federico Barbarossa non aveva alcuna intenzione di iniziare a costruire una identità nazionale. Furono il passaggio bonapartista e l’assorbimento dei veleni della rivoluzione giacobina a innescare velleità di unificazione del nostro Paese. Ai tempi del Congresso di Vienna, il principe Metternich aveva sentenziato, scrivendo a Henry John Temple, visconte di Palmerston: “L’Italia non è altro che un’espressione geografica e non la troverete che sulla Carta”. Il principe austriaco aveva ragione da vendere. Personalmente ho sempre detestato il nazionalismo in qualunque sua forma, ovunque e per qualunque finalità si fosse generato. La più grande esperienza economica e politica italiana (nonché europea) rimarrà sempre quella dei Comuni e dei Regni circoscritti. L’eredità delle invasioni barbariche non è in alcun modo negabile e dimostrò, sostanzialmente, che non esistono nazioni ma soltanto popoli. Il concetto di nazione è da sempre troppo ambiguo e pericoloso: in esso i costumi e la vita stessa dei diversi popoli vengono letteralmente massacrati dalle ideologie dominanti. Proprio io mi metto a parlare marxista? Dio me ne guardi! Se si mettessero da parte le oscenità criminali e menzognere delle ideologie rivoluzionarie, per loro natura nazionaliste e internazionaliste al contempo, si capirebbe, per esempio, che le parole di Metternich non solo erano lucidissime e vere, ma sono validissime ancora oggi e non rivestono affatto una connotazione forzosamente negativa. Pensi che spasso sarebbe se oggi, proprio in nome della nostra unità nazionale, rispolverassimo tutti insieme l’inno social-garibaldino “Si scopron le tombe, si levano i morti” dove il ritornello recita: “Va’ fuori d’Italia, va’ fuori che è l’ora! Va’ fuori d’Italia, va’ fuori o stranier!”… La “sinistra” nostrana continua a definire fasciste, naturalmente, simili espressioni, salvo poi barricarsi sul concetto di “Italia una e indivisibile” seppure spalancata alla demagogica accoglienza pauperista: è proprio vero che da noi le farse, anche quelle più vergognose, non hanno mai fine. Molti moderni soloni del nazionalismo si son sempre pavoneggiati asserendo che “Uniti si conta di più”, forse intendendo che, semplicemente, ci si mette più tempo a contarsi… No, il Medioevo era molto serio e a nessuno dei nostri politici di quell’epoca sarebbe mai balenata l’insana idea di unificarci perché spinti da una presunta realtà identitaria nazionale.

Moretta: Ho letto in un saggio scritto da Costantino Felice, un valente storico abruzzese contemporaneo che, nel corso del Medioevo, la velocità e la frequenza degli scambi commerciali e culturali tra città e paesi, anche remoti, era sbalorditiva . Nonostante i mezzi di locomozione fossero a trazione animale, la vita economica dei borghi e la società in genere non erano poi così statiche come si potrebbe immaginare…

Bertotti: Costantino Felice, nel suo saggio “Il Sud tra mercati e contesto: Abruzzo e Molise dal Medioevo all’unità” (1995), ci informa con grande esattezza circa le condizioni degli scambi economici di allora: si tenga conto che il sistema viario era rimasto quello romano antico e che il nostro commercio marittimo era il più potente al mondo. Sono certi interessati storici moderni ad aver diffuso l’immagine ridicolmente falsa di una società medievale statica. Ma per l’amor di Dio! Gli stessi monasteri, da quindici secoli almeno cuori grandiosi e pulsanti della nostra civiltà, erano assai frequentati e la loro vivacità culturale e commerciale aveva qualità e ritmi impressionanti anche per un uomo d’oggi. Ripeto: ciò che è fatto seriamente rimane nel tempo, sempre e comunque, a differenza di tante altre cose di cui “non rimarrà pietra su pietra”.

Moretta: E a proposito di scambi culturali, parliamo ancora di civiltà araba. Quando pensiamo alla prima grande espansione musulmana, al permanere di queste popolazioni seguaci di Maometto in regioni come la Spagna o, in misura meno invasiva, nella nostra Sicilia, dobbiamo constatare il loro indubbio apporto di saperi e di cultura. Qual è, ad esempio, l’importanza di un filosofo come Averroè? Ce ne può fare cenno?

Bertotti: Precisiamo subito una cosa che, forse, non è ancora sufficientemente chiara. L’invasione musulmana dell’Europa del Sud, dopo la morte del profeta Muhammad, non fu un’allegra scampagnata di un’altrettanto allegra comitiva di brava gente. Fu un’orda sanguinaria di sterminio, una feroce volontà di sottomissione di cui non sappiamo quasi più nulla a forza di vergognosi lavaggi dei cervelli. Per un vero musulmano il mondo si divide da sempre in due parti: il “dar al-islam” (la terra dell’Islàm) e il “dar al-harb” (la terra della guerra). Per non dilungarmi troppo, invito i lettori interessati ad andare a ricercare cosa preveda il Corano nei confronti degli infedeli (pagani da una parte, ebrei e cristiani dall’altra): se ancora non le conoscono, scopriranno cose assai istruttive. La favola dell’Andalusia moresca come luogo assoluto di pace, serenità, tolleranza, cultura ecc. è un’altra delle vulgate per dimostrare il “protofascismo” del re Ferdinando il Cattolico e della regina Isabella di Castiglia, sua moglie e protettrice di Cristoforo Colombo. Siamo al solito strabismo scientifico: la condanna della violenza vale solo per una parte, la bontà e la civiltà vale solo per l’altra. In Sicilia la dominazione musulmana non fu per nulla meno invasiva, anzi fu totale e durissima. Faccio notare che i conquistatori musulmani non erano guidati dai califfi di Baghdad scomodatisi di persona, ma da militari determinatissimi anche dall’assoluto fanatismo della loro fede, cosa di cui anche oggi vediamo costantemente la riproposizione. Pardon! Mi ero dimenticato che i fanatici e i sanguinari siamo soltanto noi cristiani mentre tutti gli altri sono buoni e giusti. Rischio persino che qualche rappresentante degli “ulema” nostrani mi additi come istigatore all’odio razziale (?!). Ciononostante, una volta conquistato il conquistabile, i musulmani strutturarono la loro presenza in Europa attraverso i loro costumi e la comunicazione dei loro saperi. Fuori dai periodi di guerre guerreggiate con i cristiani sottomessi che non ci stavano a rimanere tali per troppo tempo, lo scambio di conoscenze e di esperienze fra le due civiltà fu intenso e profiquo ma il vecchio adagio di Orazio “Graecia capta ferum victorem cepit” non si rinnovò. Le due civiltà non si integrarono mai e, si badi bene, non solo per ragioni di fede ma per profondissime ragioni di struttura delle famiglie e della società in generale. Fra cristiani e musulmani non vi sono mai stati nella storia problemi riguardanti, per esempio, i commerci e, addirittura, anche gran parte del confronto culturale: nec plus ultra, si licet! Ma la guerra è patrimonio immutabile dell’uomo e i rapporti di forza geopolitici hanno sempre contato e sempre conteranno. Ora, il confronto con loro è a nostro apparente sfavore per la seconda volta. Ricordo, peraltro, che nessun conquistatore porta gratis qualcosa al conquistato. Una conquista è l’esatto contrario di una festa di beneficienza nei confronti di chi viene sottomesso con la forza militare o, come nel caso attuale, con un’invasione di specie demografica. Non dovremmo aver accumulato nei secoli fin troppe esperienze in tal senso? I ritratti oleografici dell’Andalusia, vaporosi, onirici, vagamente oppiacei, sono impressioni piuttosto sfaccendate di un Islàm sconfitto e ricacciato in Africa, è inutile nascondercelo. Averroè (Abu Iwalid Muhammad ibn Rushd), filosofo, medico, matematico e giureconsulto, fu una delle più straordinarie personalità musulmane nella Cordova almohade del XII secolo. Difese con tutte le sue forze le opere di Aristotele contro gli ayatollah del suo tempo: ma costoro non riuscirono a far di meglio che distruggere prima le sue opere di logica e metafisica, poi distruggere lui mandandolo a morire in esilio a Marrakesh. Sarebbe stato un cristiano piuttosto illustre, pochi decenni dopo, a recuperare le sue opere in segno di sommo rispetto, chiamandolo il “Commentatore”: quel cristiano era San Tommaso d’Aquino. Personalmente non ho mai avuto alcuna notizia di un simile trattamento a parti invertite. Usando un celebre francesismo: vorrà pur dir qualcosa, o no?

Moretta: Quali sono le coordinate spazio-temporali entro cui trova significato la vita dell’uomo medievale? Quanto risulta essere vera l’affermazione secondo la quale gli uomini medievali avrebbero generalmente avuto “una grande indifferenza al tempo”? Che cos’è la “fuga mundi”? Cosa dobbiamo intendere per “millenarismo”?

Bertotti: Proprio Jacques Le Goff scrisse il suo famoso “Tempo della chiesa e tempo del mercante”, una raccolta di quindici saggi (tra il 1956 e il 1976) in cui illustrò piuttosto bene come il Medioevo avesse ben chiaro il valore del tempo nella produzione commerciale, nell’amministrazione cittadina, nello stesso scorrere della vita monastica, nella programmazione del lavoro manuale, intellettuale e nella disciplina militare. Evidentemente anche questa “indifferenza” al tempo è un’altra delle vulgate più sciocche, al limite della più disarmante sprovvedutezza. Altra vulgata è quella che vede nella “fuga mundi”, ossia nella potente e libera scelta di uomini e donne di entrare nei monasteri per pregare e lavorare, una ritirata vergognosa dalla battaglia “mondana”, poiché un essere umano sarebbe davvero tale alla sola condizione di “vincere” nel mondo, tramite l’ausilio prezioso dell’astuzia e della violenza praticata quotidianamente. Insomma, si sarebbe nati per sposarsi, figliare, lavorare, consumare, pagare le tasse e alla fine, rimbecilliti da tanta umana grazia, tirare le cuoia e togliere il disturbo. Senza tutto questo non si sarebbe veri esseri umani ma solo dei mentecatti approfittatori, salvo poi dire (da perfetti pervertiti) che siamo tutti uguali, che la proprietà privata non deve esistere, che la vita va affrontata con senso etico verso “gli altri” et consimilibus. Devo forse commentare? Non è possibile dire in poche parole cosa sia la “fuga mundi”, poiché può essere argomento del libro di un’intera vita e, in questo caso, non c’è espressione sintetica che tenga. Invito chi ne voglia sapere di più a visitare direttamente i monasteri: lì non c’è mai verbosità gratuita; anzi, v’è la realizzazione di quanto dice il salmista nel suo “Gustate et videte quam suavis est Dominus” (Salmi 33, 9). E, diciamocelo, chi non ha nulla a che fare con simili cose, eviti di berciare contumelie, sputare falsità ecc.: ne abbiamo già sentite troppe e la misura è colma da un bel pezzo. Quanto al “millenarismo”, esso è un insieme di dottrine escatologiche all’interno del cristianesimo derivanti dal messianesimo ebraico. Secondo queste dottrine è auspicato l’avvento di un rinnovamento completo dell’umanità e l’instaurazione di uno stato definitivo di perfezione. Considero personalmente tali dottrine pericolosissime perché estremamente manipolabili e interpretabili a piacere del primo psicolabile di turno. Marx è stato oggettivamente uno dei campioni più perversi e pervertitori di simili dottrine. Prima di lui Charles Fourier aveva impazzato con la sua “Teoria dei Quattro Movimenti e dei Destini generali” (1808) seguita da tutte le sue più celebri opere di totale adorazione nei confronti della Dea Utopia (figlia prediletta della Dea Ragione). Alla base di tutte queste teorie sta il progetto di collettivizzazione violenta e criminale dell’uomo e della società: sono autori e argomenti che conosco molto bene e da gran tempo. Certo: il Figlio di Dio tornerà sulla terra come Egli stesso ha promesso ma, vivaddìo, non saremo certamente noi a decidere quando… Varie sette millenaristiche coprono tutti i venti secoli di storia cristiana: va dato atto alla Chiesa cattolica di averle sempre prudentemente soppesate e anche, a tempo debito, ostacolate e combattute. Siamo ancora lontani dal comprendere per intero i significati dell’Apocalisse di San Giovanni e, se è per quello, anche quelli del suo Vangelo.

Moretta: Lo studioso francese Jean Gimpel afferma: “i secoli XI, XII e XIII hanno creato una tecnologia sulla quale la rivoluzione industriale del secolo XVIII si è appoggiata per prendere il proprio slancio. Le scoperte del Rinascimento hanno svolto soltanto un ruolo limitato nell’espansione dell’industria in Inghilterra nei secoli XVIII e XIX”. Un esempio importante è costituito dal largo utilizzo dell’energia potenziale idraulica mediante l’impiego dei famosi mulini ad acqua. Non è così?

Bertotti: Certissimo. Sia in “Costruttori di cattedrali” (1958) che in “La révolution industrielle du Moyen-Age” (1975), Jean Gimpel s è rivelato straordinario esperto di questi argomenti. Faccio notare il titolo, assai eloquente, di una delle sue ultime fatiche: “La fin de l’avenir: la technologie et le déclin de l’Occident” (1992). Evidentemente il capolavoro di Oswald Spengler (mi riferisco a “Il tramonto dell’Occidente”, 1922) non è passato inosservato. Avremmo forse la sfrontatezza di pensare che una società che costruiva le cattedrali fosse tanto tecnologicamente arretrata o che vivesse nei tuguri o nelle caverne? Sotto il profilo spirituale, noi siamo già tornati da tempo ai tuguri e alle caverne. Speriamo di non tornarci presto anche per tutto il resto.

Moretta: Quando ci riferiamo al patrimonio filosofico, teologico e religioso del Medioevo pensiamo subito a due colossi della cristianità : Sant’Agostino e San Tommaso. Quest’ultimo ha dato contributi incommensurabili a una questione cruciale che ancora attraversa la nostra contemporaneità: il rapporto tra fede e ragione. Le “Confessioni” di Sant’Agostino vengono tuttora lette da vastissimo pubblico di credenti e non credenti, segno incontrovertibile di una loro pregnante attualità. Anche queste sono “voci” di un Medioevo che ancora ha molto da comunicare al cuore e alla mente dell’uomo…

Bertotti: Certissimo anche questo. Sarebbe però ancora meglio se, oltre a ricordare i grandi teologi, ci ricordassimo anche di sommi mistici come San Bernardo e Santa Ildegarda di Bingen, sua figlia spirituale. Quando si parla di religione, ho sempre trovato eccessivo il frequente riferirsi a discipline tipiche della filosofia. Non dobbiamo dimenticarci che, in quel campo, la sofistica greca ha fatto danni incalcolabili e che buona parte della cristianità medievale non è sfuggita alle trappole delle dimostrazioni a tutti i costi. L’armonia di fede e ragione ha trovato nella migliore scolastica medievale una giusta consacrazione: tuttavia nuovi pensieri sofistici, primo fra tutti il celebre neoplatonismo umanista del Quattrocento, hanno quasi finito per produrre gli stessi danni che un grandissimo del pensiero alessandrinista, Luciano di Samosata, aveva denunciato nella sua epoca. Proprio a causa di tutto questo si è arrivati a ritenere che lo studio della mistica fosse peculiarità dei fanatici della fede, senza neppure ricordarsi che gli spiriti “contemplanti” sono posti da Dante nel settimo cielo (quello di Saturno) e quindi molto in alto nella gerarchia del Paradiso. Da troppo tempo il loro pensiero è volgarmente etichettato come misterico, ermetico, incomprensibile: definizioni di puro comodo che ignorano la grande e profonda conoscenza, nonché i rapporti, che tutti i mistici cristiani hanno avuto con il “mondo”. Altro che “fuga mundi”! Non c’era evento politico importante che San Bernardo non conoscesse in modo più che approfondito o personalità politiche eminenti con cui non avesse rapporti epistolari e personali diretti. Quanto alla “attualità” dei grandi autori, preferisco parlare di “vitalità” dei medesimi: certe esperienze concrete e certe dimensioni dello spirito devono essere vissute fino a riconoscersi, a identificarsi; altrimenti parliamo di cose e persone che, al massimo, servono a farci chiacchierare del più e del meno.

Moretta: Quali sono le più importanti verità storiche da affermare e i miti da sfatare intorno alle Crociate?

Bertotti: Ancora una risposta che vale un libro… Ma che dico! Sulle Crociate ci sono intere biblioteche, anche se non sono moltissimi i libri autenticamente validi. Qui però desidero citare proprio Marco Meschini, ossia colui che io ritengo non solo il massimo giovane medievista italiano, ma anche un mio amico personale. Nell’aprile 2006, per il nono Quaderno (collana Storia) della rivista milanese “Il Timone”, Marco uscì con “Le Crociate di Terrasanta”, un agilissimo volumetto di 65 pagine a carattere divulgativo. Marco lo considera un lavoro di poco conto, quasi una specie di piccola raccolta di appunti. Certo, per rimanere in tema, si tratta di cosa ben diversa dal suo straordinario debutto con “San Bernardo e la seconda crociata” (1998), ma già dal passo introduttivo che sto per citare si può comprendere la personalità dello storico varesino: “«Crociata» e «crociato» sono sovente parole che si usano contro qualcuno, per accusarlo di intolleranza, fanatismo cieco, secondi fini e altre cosucce. Quella piccola croce di stoffa, che i nostri avi portavano con orgoglio sui vestiti e sul corpo, è divenuta abominio, strappata dal cuore di tanti. Ma infangare il nome dei crociati e delle crociate significa, in maniera indissociabile, stigmatizzare la civiltà che li ha generati. Perché il punto centrale di ogni polemica sulle crociate è questo: poiché le crociate furono uno ‘speculum’, uno «specchio» della loro epoca, accettarle o rigettarle comporta inevitabilmente accettare o rigettare il Cristianesimo che le ha partorite e quindi, in altri termini, quel Cristianesimo incarnato che fu la Cristianità medievale. Ogni discorso intorno alle crociate deve riconoscere davanti a sé questo problema, senza che ciò comporti una distorsione della verità storica in funzione polemica come, invece, si è fatto con acrimonia a partire almeno dagli illuministi Diderot e Voltaire. Al contrario, riconoscere la questione di fondo che si trova posta essenzialmente in gioco, mi sembra contribuisca alla ricchezza della storia: come insegnava [Henri] Marrou, in storia passato e presente sono intrecciati in maniera indissolubile; allo storico spetta l’alto e delicato compito di non asservire l’uno all’altro, ma anzi rispettarli alla luce della verità che la ricerca fa emergere”. Giù il cappello di fronte a una tale capacità di sintesi e, cosa non secondaria, di stupefacente umiltà. Verità storiche da affermare? Miti da sfatare? Ai conoscitori di Storia c’è poco da suggerire: se la cristianità voleva proteggere dalle violenze dei turchi selgiuchidi i pellegrini che si recavano in Terrasanta e, con l’occasione, prendersi Gerusalemme in quanto città dove Cristo morì e risorse, che male mai ci doveva essere? I musulmani l’avevano forse avuta per diritto divino? Se si voleva cominciare ad allontanare l’Islàm dall’Europa e porre basi civili e militari in Terrasanta dovevamo forse chiedere le grazie di qualcuno? L’Islàm non lo aveva certo fatto con noi al momento della sua prima espansione militare. Se l’impero bizantino era in tale inarrestabile decadenza da pretendere solo da noi vassallaggio e prebende varie, siamo sicuri che avremmo dovuto soggiacere in silenzio solo perché Costantinopoli era l’unica Roma rimasta (ma che con i musulmani patteggiava ogni giorno, pronta anche a tradire i fratelli d’occidente)? Molte sono le ragioni per le quali la cristianità in Terrasanta fu sconfitta dall’Islàm. Tra le principali vi sono le grandi strategie geopolitiche che impedirono agli europei di credere fino in fondo nella conquista: bastava la progressiva riconquista delle terre europee ai musulmani. Le spese erano grandi ma, anche tramite la rete bancaria gestita egregiamente dai Templari, non impossibili. I musulmani erano comunque ancora nel pieno della loro potenza militare e, come si suol dire, giocavano in casa loro con un numero di uomini per noi militarmente non sempre fronteggiabile. Non sono argomenti trattabili in poche righe. Ho sempre ritenuto e ritengo che la “Breve storia delle crociate” (1987) di Jonathan Riley-Smith (Cambridge University) sia uno dei resoconti storici migliori che si possano ancora leggere. Non è affatto escluso che, nei prossimi anni, escano altre pubblicazioni sempre più ricche di documenti.

Moretta: Quali sono state, in sintesi, le differenze sostanziali nella vita politica e nella cultura tra l’alto e il basso Medioevo? E’ vero che la struttura a sociale a piramide ha interessato solo una parte del Medioevo?

Bertotti: La risposta sta proprio nelle caratteristiche dell’ordine gerarchico medievale. Parlare oggi di monarchia e teocrazia non è solo politicamente scorretto ma addirittura abominevole, data la nostra moderna “dittatura delle plebi”. Si ritiene che quelle forme di costituzione politica siano espressioni di governi sanguinari, di capolavori di ingiustizia e di mille altre nefandezze. Tutto ciò è falso perché fondato sull’invidia sociale e sul progetto di sovversione delle verità storiche e dei loro significati. Il trapasso epocale dall’alto al basso Medioevo, passando per il pieno Medioevo (ossia per il periodo che, a partire dall’anno Mille, termina con la fine delle Crociate di Terrasanta), non conobbe, sotto il profilo politico, modificazioni sostanziali, fatta salva la luminosa esperienza dei Comuni non solo in Italia ma anche in varie parti d’Europa. Nell’equilibrio politico e costituzionale dei vari poteri secolari, il Medioevo cristiano consentì la nascita, in particolare dopo il Mille, della borghesia cittadina: un elemento di “mesotes”, per dirla con Aristotele, di importanza decisiva per la costruzione e la stabilizzazione della civiltà medievale. Va qui notato, in specifico, che coloro che sono abituati da troppo tempo a parlare di “classi sociali”, sono anche soliti prendere lucciole per lanterne. La società medievale, secolare e religiosa, non era affatto classista: al contrario della nostra, era del tutto aperta e disponibile ad accogliere ogni talento che ne accrescesse il potere e il prestigio; alla luce dei fatti, questa affermazione è inconfutabile. La crisi del cosiddetto Ancient Régime riguardò in specifico l’aristocrazia feudale fin dal Cinquecento, quando tale aristocrazia (appartenente al continente europeo e non, per esempio, all’Inghilterra, nuovo impero dopo quello romano) si condannò a vivere esclusivamente attraverso le rendite feudali e attraverso l’assurda distribuzione, a mo’ di prebende, di risibili titoli nobiliari a ricchi borghesi. Ciò che restava della borghesia, ossia la maggior parte, scivolò progressivamente verso un benessere economico sempre più precario. A tal proposito si può effettivamente parlare di “proletarizzazione” della borghesia, ma si tratta di fatti avvenuti dopo la fine del Medioevo. Con la società medievale nessun rivoluzionario, nessun demagogo, nessun sovvertitore dell’ordine naturale e sociale sarebbe mai stato in grado di prodursi nelle sue sciagurate imprese. E’ curioso anche un altro tipo di strabismo, ossia quello sui simboli; se si gigioneggia con la perfezione e la bellezza delle piramidi egizie va tutto bene: meravigliosi questi antichi egizi, che raffinatezza misterica, che potenza architettonica ecc. Peccato che l’ordine gerarchico medievale, parente non troppo lontano della gerarchia sociale egiziana, sia invece quasi costantemente preso da molti per ciò che non fu e spesso mistificato vergognosamente. E’ fin pleonastico sostenere che l’Età dell’oro non sia mai esistita e che essa appartenga solo ai sogni (o incubi) dei signori utopisti: anche il Medioevo ebbe i suoi vizi ma, se paragonati ai nostri, essi diventano virtù galattiche. Sotto il profilo culturale in genere, il Medioevo è straordinariamente ricco di ogni forma di espressione artistica e scientifica possibile. Lo scontro fra “sacro” e “profano” era un vero e proprio gioco dialettico, tenendo conto che sto parlando per il periodo che va dall’epoca carolingia in avanti; ma non è poi così scontato che nei secoli precedenti la situazione fosse molto diversa. Solo lo studio delle fonti storiche può aiutarci a rendere piena giustizia a una grande epoca storica verso la quale resteremo perennemente debitori.

Moretta: Ho chiesto agli alunni di una terza classe di liceo quale fosse il personaggio vissuto nel Medioevo che li avesse interessati maggiormente. La risposta è stata quasi unanime: Federico II di Svevia. Solo qualcuno ha espresso il suo favore per Dante Alighieri. Federico II è un personaggio epico che ha lasciato preziose e tangibili testimonianze della sua vita straordinaria. Il suo fascino sopravvive pressoché immutato nei secoli. Perché?

Bertotti: La responsabilità della mitizzazione di Federico II, diciamocelo senza remore, è anche di Dante stesso. Il sommo poeta fiorentino, come dovrebbe essere noto, vedeva nel Papa e nell’Imperatore le due figure umane consacrate e preposte dall’Altissimo, paritariamente, al governo delle cose spirituali e di quelle temporali. Da questo discese il mito, del tutto infondato, di Federico come sovrano mirabile e saggio, protettore instancabile degli uomini di scienza, Signore della pace e della concordia fra le genti e fra le religioni ecc. Se si avesse la buona grazia di studiare le fonti storiche dei primi decenni del Duecento, si troverebbero sorprese (mi si conceda l’allitterazione) davvero sorprendenti. Federico II fu praticamente allevato da Innocenzo III (al secolo il romano Lotario dei Conti di Segni) in vista di un perfetto connubio fra nuovo Stato della Chiesa e Sacro Impero romano germanico. Il progetto era talmente ambizioso che finì per naufragare appena si scoprì la vera indole naturale del rampollo degli Hohenstaufen. Il giovane Federico, autentico cuore di tenebra, aveva concepito un solo fine per la propria esistenza, ossia quello di diventare Imperatore di tutto l’orbe terracqueo allora conosciuto. Tutte le genti gli si sarebbero dovute sottomettere in quanto Imperatore universale, anche il pontefice. Nella vita quotidiana era un raffinato perdigiorno: caccia immancabile con il fedele falcone, la creatura da cui non si staccava mai e udienze di varie personalità della scienza, della filosofia e dell’arte di allora al solo scopo di pavoneggiarsi di fronte alla corte. Nella vita politica un solo pensiero era la sua guida: annettere al suo Impero (senza mai combattere, ma solo con la protervia e l’arroganza del despota) quante più terre gli fosse possibile per circondare lo stato pontificio in una morsa mortale. Va dato atto a Papa Gregorio IX, al suo successore Innocenzo IV e a tutti i liberi comuni della Longobardia (ossia di tutta l’Italia del Nord) di avere resistito a questo folle progetto dittatoriale fino alla vittoria. Praticamente aveva preso il peggio, non certo il meglio, dai suoi due nonni, ossia Federico I Barbarossa e Ruggero II il Normanno, sovrani dotati di ben altro valore e spessore politico-militare. Non si sa neppure quanto bene il prode Federico sapesse combattere: il fatto è che non si curò mai di dimostrarlo. Se stiamo ai documenti cristiani e musulmani relativi alla Sesta Crociata (1223-1229), Federico riportò un risultato spaventosamente umiliante (ma già per lui la Crociata era una specie di passeggiata fuori porta). Rimandò per anni la partenza con la scusa di essere infermo, abbandonando così il suo grande e sventurato futuro suocero, Jean de Brienne, a patire, per colpe non sue, le sonore sconfitte contro i musulmani (caduta di Damietta e disastro di al-Mansurah nel 1219-1221). Non contento, trattata la consegna temporanea di Gerusalemme in cambio di denaro con il nuovo sultano ayyubide al –Kamil, si autoincoronò re della Città Santa (17 marzo 1229) appena messovi piede e contro tutti i trattati che aveva sottoscritto. Ma l’episodio più vergognoso è riportato dall’ottimo storico musulmano di allora, Sibt ibn al-Giawzi: “Venuto poi il tempo della preghiera del mezzogiorno e risuonato l’appello del muezzin, si levarono tutti i suoi paggi e valletti e il suo Maestro, un siciliano con cui leggeva la Logica nei suoi vari capitoli, e fecero la preghiera canonica perché eran tutti musulmani. L’Imperatore, raccontarono sempre quegli inservienti, era di pelo rosso, calvo, miope: fosse stato uno schiavo, non sarebbe valso duecento dirham. Ed era evidente dai suoi discepoli che era un materialista e che del Cristianesimo si faceva semplice gioco”. Ma la vergogna non era finita. Quando l’Imperatore si presentò ad Acri per ripartire (1° maggio 1229), fu congedato da una folla che lo ricoprì di violenti insulti e di ortaggi andati a male: lui, con una sprezzante alzata di spalle nei confronti di quei cristiani indomiti che difendevano la città senza risparmio, se ne andava verso i suoi dolci ozi pugliesi e siciliani; senza contare il fatto che, nelle sue terre, i musulmani dimorarono tranquillamente fino agli inizi del Trecento. Federico era un ateo perfetto e amava molto i musulmani: non è un caso che da un musulmano ci sia giunto il suo più degno e inequivoco ritratto di uomo e di imperatore.

Moretta: Anche su Dante Alighieri ci sarebbe molto da dire ma forse non è il caso di dilungarci più di tanto. Volevo però con lei affrontare in questa sede alcuni aspetti riguardanti le cause che hanno determinato la lenta ma inesorabile “decadenza” diffusiva del latino e l’affermazione del volgare, dopo l’anno Mille. Quali sono stati i momenti salienti, le tappe storiche che hanno scandito questo trapasso di lingue?

Bertotti: La lingua è qualcosa che si usa in mille modi e per mille scopi. E’ già con la fine dell’Impero romano d’Occidente che il latino inizia a essere sempre meno parlato dalle persone comuni. Una delle caratteristiche di quel periodo fu l’analfabetismo dilagante e, non per nulla, fu Carlo Magno a progettare un vasto progetto di riforma della scuola. Suo nipote Lotario, re d’Italia, seguì quel progetto, negli anni trenta del IX secolo, in modo scrupoloso e fedele. Vale la pena di richiamare qui un’importante distinzione: un chierico era una persona, di qualunque provenienza sociale, che conosceva il latino e apparteneva alle gerarchie ecclesiastiche; un laico, a pari condizioni, non conosceva il latino, non apparteneva alle gerarchie ecclesiastiche e poteva anche essere analfabeta. Molto spesso, i laici contemporanei, al contrario di quelli medievali, sono atei e, in aggiunta, sono ottimi analfabeti di ritorno. Furono le lingue dei barbari a innestarsi sulla lingua latina e tenerne vive moltissime strutture semantiche. Fu dopo il Mille, appunto, che, grazie anche agli scambi commerciali sempre più intensi, le lingue volgari si diffusero sempre di più: il latino restò tuttavia (e, io dico, resta) la lingua per eccellenza, la nostra vera e insostituibile lingua madre. Non solo per noi italiani, ma per ogni europeo che ancora sia tale. Con i lumi accecanti della Ragion francese, la lingua diplomatica divenne quella transalpina, poi toccò per i commerci a quella inglese e per quelli più tecnici (ivi compresa la filosofia), in misura minore, toccò a quella tedesca. Ma tutto parte sempre da latino e sarebbe decisamente l’ora che, per milioni di italiani e di europei, il latino non fosse più preso per una lingua di antichi popoli extraterrestri.

Moretta: Il Duecento è considerato come il secolo delle corporazioni e delle Università. Già da allora l’organizzazione che amministrava la diffusione del “sapere” cominciava ad affermare una certa autonomia. Ho sempre saputo che l’Università di Bologna è tra le più antiche d’Europa. E’ proprio cosi?

Bertotti: Fu un comitato di storici presieduto da Giosue Carducci a fissare il 1088 come data di nascita della “Alma mater studiorum” di Bologna. In realtà la prima data certa è quella del 1158 con cui la “Constitutio habita”, promulgata da Federico Barbarossa, indicò Bologna come sede di studi e di ricerca indipendente da ogni altro potere. E’ prassi comune affermare che fra la seconda metà del XII secolo e l’inizio del XIII le università nacquero in risposta alla crisi generata dalla palese inadeguatezza delle scuole affiliate alle cattedrali, ai monasteri e alle scuole ecclesiastiche in genere. Si parla dunque di inadeguatezza: a proposito di che? Si noti che, diventando le università stesse corporazioni potenti in dura lotta per una totale autonomia dal potere secolare e da quello ecclesiastico, esse annoveravano come professori, nella maggioranza dei casi, uomini appartenenti all’ordine dei “giacobini”, ossia i domenicani e dei “cordiglieri”, ossia i francescani. Praticamente, mezzo millennio di organizzazione benedettina degli studi era archiviato: iniziava qualcos’altro, spinto soprattutto dal fatto che, dopo il Mille, il reddito delle famiglie e la natalità erano aumentati di molto. Si trattava di un’Europa in espansione, cosa che consentì anche la progressiva riconquista delle nostre terre dominate dai musulmani. L’abbandono, spesso anche orgoglioso e sprezzante, dell’organizzazione di studi benedettina sarebbe stato pagato a caro prezzo fin dallo stesso Trecento. Autonomia è una parola basata sulla responsabilità personale; piuttosto diversamente, l’autodeterminazione è una parola che gronda superbia, ambiguità e una falsa concezione della libertà, anche di quella personale: sono gravi problemi che ci siamo accollati allora e che non solo non siamo più riusciti a rimuovere ma, se possibile, li abbiamo moltiplicati e aggravati.

Moretta: Come erano fatti i libri prima dell’invenzione della stampa a caratteri mobili ad opera di Johannes Gutenberg, Johannes Fust e Peter Schöffer nel 1448? Cos’erano gli “scriptoria”?

Bertotti: Gli “scriptoria” erano le aule dei monasteri in cui i monaci amanuensi si dedicavano ogni giorno alla copiatura dei libri, sia di quelli di autori antichi sia di quelli di autori viventi. I libri di epoca medievale provenivano proprio dagli “scriptoria” di tradizione benedettina: erano manoscritti su fogli di pergamena e spesso incorporavano le celebri miniature, da cui anche la denominazione di “codici miniati”. Invito tutti i lettori interessati a ricercare anche in Internet, non solo nei libri di storia dell’arte, le immagini di questi codici: assicuro che l’esperienza sensibile non si limiterà alla dimensione visiva. Gli stessi monasteri avevano sempre un laboratorio d’artigianato dove i libri erano rilegati con finiture di pregio per poi essere riposti nella biblioteca conventuale. L’organizzazione benedettina era rigorosissima e assomigliava a quella delle migliori “aziende” moderne: in tale contesto, il responsabile di ogni luogo del monastero non solo svolgeva la sua mansione con la massima cura e responsabilità, ma si presentava anche come “consulente” del tutto esperto di ciò che custodiva. Le stragrande maggioranza delle nostre attuali istituzioni pubbliche secolari sono organizzate invece secondo il principio della “res nullius”: conservano a malapena ciò che posseggono a seconda che il burocrate addetto sia più o meno capace di svolgere la propria mansione. L’importante è che tutti abbiano il “diritto” di accedere al prestito, non quello di restituire i libri in perfetto stato, checché ne scrivano i verbosi e inutili regolamenti comunali. Sono differenze cui è bene non pensare, se si ha cara la propria salute.

Moretta: Uno dei temi più inquietanti che ricorre in tutte le critiche mosse alla chiesa medievale è quello della “ Santa Inquisizione”, cioè di quel tribunale ecclesiastico nato dopo l’anno Mille, costituito in difesa dell’ortodossia corrente. Ne vuole fare cenno?

Bertotti: Non parlerei di ortodossia “corrente”: l’ortodossia è solo una e non si attaglia alle diverse “mode” del momento, con l’eccezione delle volute ambiguità dell’ultimo concilio “pastorale”. Non soltanto una è invece la Santa Inquisizione ma ve ne sono diverse. “Inquisizione” vale, sotto il profilo terminologico, la nostra moderna “istruttoria”, con o senza ciò che ne segue. Soprattutto su un tema come questo, le vulgate sono state talmente abbondanti che finalmente, seppure dopo troppo tempo, iniziano a provocare una sana crisi di rigetto. Mi limiterò a consigliare due testi recenti di estremo interesse storico generale e particolare: “Storia dell’Inquisizione” (1997) e “Fregati dalla scuola” (1997), l’autore dei quali non ha bisogno di presentazioni perché si tratta di uno degli storici commentatori più lucidi ed esperti in materia: Rino Cammilleri. Mi permetto di far notare un dettaglio che farà infuriare i progressisti di tutto il mondo schiavo: se si ricerca l’origine del nostro spesso opportunistico “garantismo” processuale, con tutti suoi i contorni giuridici e procedurali, non si ha che da riscoprirla proprio nel diritto canonico e nella Santa Inquisizione. Poi, tanto per completar l’opera, basta andarsi a rivedere le leggi secolari che hanno consentito per davvero il massacro di centinaia di milioni di essere umani nella storia: solo allora, documenti alla mano, vedremo chi avrà l’ultima parola.

Moretta: Gravi carestie e devastanti pestilenze hanno ciclicamente determinato situazioni di estrema criticità nella vita di vaste comunità sparse in tutta Europa, al punto da condizionare pesantemente i processi demografici e le dinamiche sociali; tuttavia ho letto in un testo scolastico che le avversità maggiori si sono avute nei secoli XIV e XV. Ce ne può fare cenno?

Bertotti: La famigerata Peste Nera si portò via, tra il 1347 e il 1352, un terzo della popolazione europea occidentale: una “falciata” praticamente simile alle due guerre mondiali del Novecento. Questi cicli di morte per epidemia si manifestarono fino agli inizi del Settecento. Le carestie, anch’esse temibilissime data la condizione autarchica dell’agricoltura dell’epoca, fecero anch’esse la loro parte; i nostri avi, però, non avevano sempre fra i piedi un inquisitore ambientalista che li indottrinasse sul fatto che sia proprio l’essere umano a sforzarsi in ogni modo di distruggere il pianeta Terra: essi pensavano a vivere e ad accogliere Sorella Morte come un evento normale della vita. Ciò che nel frattempo è cambiato molto, come tutti sanno, è la nostra Medicina. Molti parlano infatti, quasi con terrore, di età media molto bassa in epoca medievale: ovvio che così fosse, vista la altissima mortalità infantile, delle donne che partorivano e delle mille malattie (anche quelle per cui oggi basta una pastiglietta) cui la Medicina di allora non sapeva rimediare, ma di persone che vivessero anche fino a novant’anni non ce n’erano solo mezza dozzina in tutta Europa. I due grandi resoconti italiani di quella tragica epidemia, portata non dai ratti ma dai terribili parassiti che avevano attaccato il pelo e la pelle dei ratti, sono, com’è noto, la “Cronica” del Villani e il “Decameron” del Boccaccio. Il grande precedente era costituito dalla Peste di Atene, cui Tucidite e Lucrezio avevano dedicato pagine immortali della letteratura storica e poetica. Pare, secondo alcuni, che la Peste Nera del Trecento abbia favorito l’uso delle armi da fuoco a motivo della carenza del numero di soldati, nonché la crisi profonda della fede cristiana a causa delle troppe morti che, all’epoca, venivano anche interpretate come castigo divino per i peccati degli uomini. Che strano: anche Auschwitz sembra aver ingenerato la stessa cosa quando, al posto di chiedersi dove fosse Dio di fronte a tale scempio, ben pochi si siano chiesti, più prudentemente, dove fosse l’uomo. La risposta è sin troppo ovvia: era a favoleggiare di splendide nuove società perfette, dove una dozzina di sublimi iniziati dettava le leggi per tutti gli altri, dove tutti sarebbero stati felici di possedere ciò che quegli iniziati si sarebbero degnati di concedere loro, dove si poteva sognare di non morire mai, dove ognuno sarebbe stato protetto, garantito e soddisfatto nei propri bisogni di perfetto schiavo.

Moretta: Si possono far risalire al Medioevo, e quindi alle diverse organizzazioni politiche e sociali che si sono costituite nella nostra penisola in quei dieci secoli, le cause prime di ciò che in secoli successivi fu chiamata “questione meridionale”?

Bertotti: Per tutto il modo Antico e quasi per tutto il Medioevo, il Sud Italia non fu secondo a nessuno per produttività e floridezza economica che le dominazioni bizantine, arabe, normanne e angioine non misero mai in crisi. Molti parlano di “ritardo” a partire dalla dominazione borbonica (intesa come la gestione di un’economia principalmente latifondista) soprattutto per il fatto che il Sud non conobbe le esperienze delle Repubbliche e dei Comuni nello stesso modo in cui le avevano conosciute e vissute il Centro e il Nord del Paese. La cosa peggiore, lo sappiamo tutti, è stato fare di questo ritardo una “questione” di natura politica e non economica: si è offerta la solita “protezione” che si può offrire agli schiavi, mai vere opportunità di crescere e svilupparsi (includendo i necessari rischi d’impresa). E’ una ferita non rimarginata, un rammarico doloroso e profondo, una triste consapevolezza di non poter viaggiare tutti a mille, come si suol dire; la speranza deve rimanere sempre viva, ma la volontà di migliorare le condizioni può essere trasformata in realtà concreta solo quando ai posti giusti siano messi gli uomini più capaci di realizzare cose utili a tutti, soprattutto a sé stessi.

Moretta: Quando la società feudale in senso stretto inizia lentamente a trasformarsi in società capitalistica e borghese? Per quali ragioni storiche? E’ vero che le prime banche, con le caratteristiche che tuttora conservano, sono nate proprio nel Medioevo?

Bertotti: Tutto il mondo antico, dai Sumeri ai Romani, conosce il “banco” (o il Tempio) dove si cambiano le valute, si depositano somme di denaro e si chiedono prestiti a interesse. Il Medioevo vede la nascita, in particolare, della “lettera di credito” (ossia dei primi assegni) che liberava il cliente dalla scomodità di portare con sé il denaro fisicamente. Le Crociate accompagnarono una vera e propria “rivoluzione commerciale” che segnò indelebilmente la nostra storia. Le repubbliche marinare, Siena, Firenze e, genericamente parlando, tutti i “Lombardi”, come ci chiamavano allora negli altri paesi europei, erano i protagonisti principali nella gestione del “credito” di allora. I Templari, per assoluta competenza e imprenditorialità attiva, furono i più grandi (e perciò temutissimi dal Regno di Francia) gestori del credito in tutto il mondo cristiano di quel tempo. La prima banca “moderna” nasce invece a Genova nel 1406 con il Banco di San Giorgio, dove si passa alla gestione di debiti pubblici e non solo privati nello stretto ambito dei commerci. Va ricordato che fu un grande storico italiano dell’economia, il prof. Armando Sapori, a occuparsi di questi argomenti nel suo “Il mercante italiano nel Medioevo” (1952). Le banche sono, nel frattempo, passabilmente peggiorate: sono istituti creati per la conservazione di depositi in denaro, utilizzabili per vari fini ma da restituire immediatamente, con interessi prefissati, al cliente che li richieda. Ogni attività speculativa dell’istituto bancario è pertanto estranea al suo atto costitutivo originale. Se si desidera speculare finanziariamente ci si deve avvalere di istituti specializzati in cui il cliente sappia perfettamente ciò lo attende: ricordiamoci sempre che investire in produzione significa creare ricchezza, mentre investire sul denaro è l’attività di coloro che si illudono di poter vivere di rendita. A mio avviso non ci sono ragioni “storiche” che abbiano determinato la nascita dell’economia di capitale, del capitalismo o della borghesia e del mercato. Liberandoci una volta per tutte dall’odioso lessico marxista, nato dalla somma di molte “pesti” filosofiche; la Storia non è una Dea che determina qualcosa: è la vita vissuta, concreta e praticata da ogni creatura a determinare fatti e consuetudini. Il capitale è la base di ogni nostro agire commerciale, giammai il risultato del celebre “sfruttamento” di altri lavoratori. Per creare questo capitale iniziale, posso solo sfruttare me stesso e rischiare la mia esistenza, non quella altrui. Quando intraprendo, posso fare il padrone delle ferriere o, al contrario, distribuire opportunità di crescita e di arricchimento individuale e sociale. La confusione del mezzo con i fini è tipica di quella peste filosofica che si richiama alle utopie più diverse ma che, alla fine, mostra sempre e soltanto il suo odio più profondo per la vita, per il lavoro, per la capacità di conoscere e di realizzarsi dell’uomo. Ricordiamoci che sono sempre troppi a recitare la famosa canzoncina: “E’ colpa dei miei genitori se sono venuto in questo orribile mondo; ora qualcuno deve farsi carico di mantenermi e anche di ascoltare i miei predicozzi sulla terrena beatitudine”. Senza la borghesia, consacrata da Aristotele in primis, non sarebbe mai esistita alcuna autentica civiltà: questa è la ragione non solo dell’invidia e dell’odio antiborghese ma anche di quello anticristiano di troppi e ormai ben noti custodi della modernità.

Moretta: Il fenomeno del monachesimo attraversa tutto il Medioevo. Esso ha inizio con San Benedetto da Norcia nel V secolo oppure ci sono stati altri fondatori di ordini monastici cristiani? Perché gli storici considerano il monachesimo la culla della civiltà occidentale?

Bertotti: Il monachesimo non inizia con San Benedetto, patrono d’Europa. Il desiderio cristiano di ascesi e di eremitaggio ci deriva dal Medio Oriente: uno degli esempi storici è costituito da Sant’Antonio e dai Padri del deserto nel IV secolo. Nonostante queste prime esperienze “estreme” nascessero anche in opposizione (apparente) alla “mondanizzazione” della Chiesa di Roma e di Costantinopoli, i monaci non abbracciarono mai posizioni eterodosse o eretiche in opposizione alla dottrina ecclesiastica della Fede. Dal V al VI secolo il monachesimo ebbe una formidabile espansione in tutta Europa. Prima di San Benedetto, che può essere considerato un culmine qualitativo e quantitativo di quella espansione, ci furono i successi di grandi Maestri degni della massima venerazione fra i quali, solo per citare i primi esempi che mi vengono in mente, San Girolamo a Roma, Sant’Agostino in Africa, San Martino a Tours, Cassiodoro (il ministro del re Teodorico) in Calabria. E’ curioso come i primissimi eremiti fossero descritti con orrore da Rutilio di Numanzia, il celebre autore del “De reditu”, poema in cui egli compie un viaggio da Roma verso il sud delle Gallie, deplorando le devastazioni operate dai barbari ai danni di un Impero romano ormai in macerie. Rutilio infatti dipinge i primi monaci come animali selvatici, come una sorta di consorteria stregonesca: da lì a poco, essi sarebbero diventati la spina dorsale della conservazione della maggior parte della grandiosa eredità culturale del mondo romano e, da notarsi, anche di quella strettamente politica. Tutti noi, a vario titolo, siamo loro debitori di questa indispensabile conservazione, senza la quale Roma, “gloria” del mondo civile, non sarebbe sopravvissuta alla propria decadenza e rovina. Per quanto riguarda l’ultima domanda, mi limito a segnalare, per una comprensione più generale e ampia dell’argomento, la fondamentale lettura di un grande classico di Christopher Dawson: “Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale” (1950); un libro, questo, che non mi stancherò mai di amare e di diffondere come qualcosa di preziosissimo.

Moretta: Cos’erano i movimenti eretici? La loro minaccia all’unità della Chiesa prendeva spunto da un piano dottrinale per materializzarsi in un vero e proprio affronto o avversione politica? E’ un po’ quello che accade ai nostri giorni con la Chiesa cattolica nazionalista della Repubblica Popolare Cinese?

Bertotti: L’esempio cinese è di attualità flagrante, ma non c’entra nulla con questioni ereticali del passato e del presente. Il regime comunista e quello postcomunista, avendo ben chiaro per sé che ogni religione sia un puro fatto privato (cosa che ormai sta verificandosi anche da noi), vuole un cristianesimo schiavo sotto totale controllo del nuovo Dio della modernità, ossia di ciò che si può definire lo “Stato-padrone”. In questo caso, eretica è la Chiesa cristiana e cattolica che intende rispondere al Santo Padre solo relativamente alle questioni spirituali, accettando comunque le leggi temporali di uno Stato laico. Si ripropone qui, sotto vesti analoghe, la vecchia guerra che in Europa occidentale vide vittorioso Gregorio VII contro l’imperatore germanico Enrico IV nella seconda metà del secolo XI. Era la famosa “lotta per le investiture”, ossia la lotta per stabilire se le investiture dei vescovi e degli abati spettassero al Papa o all’Imperatore. Purtroppo oggi a Pechino non c’è un Matteo Ricci e neppure una Gran Contessa Matilde, la nobile rampolla di stirpe longobarda che umiliò il superbo Enrico IV a Canossa. I venti secoli di storia della Chiesa cattolica pullulano di movimenti (o “sette”) ereticali: si tratta, come dice la parola greca ‘hairesis’, di gruppi che “scelgono per sé” ed esprimono una propria visione del Cristo e della fede che si trova in opposizione dichiarata e aperta a quella dell’ortodossia ecclesiastica (dal greco “orthòs” e “doxa”, ossia “retto pensiero”); essi, pur essendo cristianamente battezzati, traggono i propri falsi convincimenti dal ritenere per sé solo in modo strettamente parziale la dottrina ortodossa della Fede. I massimi autori della Patristica e della Apologetica, durante i primi secoli del cristianesimo, Sant’Ireneo fra i primi, condussero battaglie straordinarie e vittoriose contro questi gruppi “dissidenti”, tra cui molti di ispirazione neoplatonica, millenaristi avventurieri e interpreti sofistici della vita e degli insegnamenti del Cristo. Non è certo però questa la sede per occuparsi delle eresie, altro argomento su cui sono state scritte intere biblioteche e sulle quali, soprattutto per quanto riguarda quelle del passato, non ritengo ci sia molto altro da aggiungere. Quasi ciclicamente, le eresie più diverse (quella pauperista è una delle più ignobili e detestabili) si ripresentano nella storia della Chiesa e nel mondo in generale: l’ultima modernità, a scopo meramente strumentale, ha deciso di servirsene per dimostrare come all’eretico tocchi soltanto il ruolo della vittima innocente di fronte alla violenza del potere ufficiale. Così non è mai stato: la ferocia e la violenza, anche militare, dei vari gruppi eretici al loro interno e verso “gli altri” è assai ampiamente documentata e il caso dei catari, in particolare, ne rivela tutta la tragica portata. Si definisce ancora oggi “eretico” chi parla fuori dal coro per spirito libero o per amore della verità: è ovviamente una perversione del significato, soprattutto se la definizione viene evocata per cose che non c’entrano nulla con l’ambito religioso.

Moretta: Nei secoli che noi indichiamo come Medioevo, cosa accadeva in altri continenti come l’America o l’Africa o l’Asia? Non sono certo mancati, in quel tempo, pionieri europei che si siano avventurati in terre remote per poi raccontare aspetti inusitati di culture fino ad allora ignote: penso, per esempio, a Marco Polo.

Bertotti: Alcuni hanno ipotizzato che i Vichinghi, ossia i primi normanni, avessero già raggiunto la costa ovest del Nordamerica alla fine del X secolo e si fossero spinti anche più a Sud. Fra le opere che narrano itinerari di navigazione, spesso fantastici o allegorici, ve n’è uno di particolare rilevanza perché pare fosse assai noto al nostro Alighieri: si tratta della “Navigatio sancti Brendani abbatis” (XI secolo). Caso vuole, però, che molte recenti ricerche archeologiche, con l’ausilio di scienziati e studiosi di altre discipline, stiano dimostrando come gli antichi fossero inclini a fantasticare con assai minor frequenza di quanto noi riteniamo correntemente. In ogni caso è il commercio il primo motore di ogni viaggio di uomini dalla propria terra verso la terra di altri uomini: solo molto dopo avvengono le conquiste o le mancate conquiste militari volute, a torto o a ragione, dalla politica. Delle civiltà precolombiane penso che il Medioevo nostro non sapesse nulla; molto di più sapeva invece di ciò che accadeva in Africa o in Asia. L’Africa (Nordafrica e Africa orientale) era la colonia romana da cui proveniva Sant’Agostino e nella quale il cristianesimo si era notevolmente diffuso, come testimoniano gli esempi dell’Egitto e dell’Etiopia, passando per la regione della Nubia. L’invasione musulmana del VII secolo fece quasi tabula rasa della presenza cristiana che, pur attraverso infiniti lutti e conversioni forzate alla nuova religione, riuscì a sopravvivere in condizioni praticamente di schiavitù. Lasciamo da parte l’Asia minore (ossia l’attuale Medio Oriente) per il semplice motivo che i rapporti con l’Europa, nonostante la conquista musulmana, non furono mai compromessi, vuoi per la presenza dell’Impero bizantino, vuoi perché nel Mediterraneo chiunque poteva, con maggiore o minor rischio, navigare e commerciare. Parliamo invece della parte dell’Asia che chiamiamo Estremo Oriente. La realtà politica più straordinaria di quel tempo era costituita dalla potenza dell’Impero mongolo, l’impero più vasto che il mondo abbia potuto conoscere. I commerci attraverso la celebre “Via della Seta” erano floridissimi e il Milione di Marco Polo è, proprio per tutto ciò che descrive, un testo fondamentale per comprendere i rapporti culturali e commerciali che facevano di quella “Via” una quanto mai benedetta occasione di scambio e di conoscenza fra le genti di quel tempo. Il mercante veneziano arriva infatti a conoscere Kubilai Khan, il nipote di Genghis Khan. Ma è anche noto ciò che segue: nelle strade in cui non passano più i commerci pacifici, cominciano a passare i commerci non pacifici. Durante le Crociate di Terrasanta, segnatamente durante la Settima che vide per la prima volta protagonista Luigi IX (San Luigi), fra il 1249 e il 1250, Kubilai, in parziale accordo con i cristiani, decise di far guidare al fratello Hulagu, nel 1256, la prima grande offensiva militare che il mondo musulmano fu chiamato a fronteggiare. Erano però proprio quelli gli anni in cui l’Europa cristiana, a torto, cominciò a ritenersi piuttosto soddisfatta dei suoi nuovi equilibri geopolitici. Quando Kubilai proclamò di non avere alcuna difficoltà ad accettare il cristianesimo ma di voler essere riconosciuto anche dalla cristianità come Imperatore universale fu chiaro, soprattutto per la nostra politica secolare, che l’alleanza con i mongoli era da considerarsi una pura ipotesi fantapolitica. Alla morte di Mongka (1259), altro suo fratello, Hulagu tornò in patria per fronteggiare gravi frammentazioni dell’impero mongolo e lasciò al suo generale Kitbuga il compito di conquistare l’Egitto mamelucco. L’Islàm, ancora nel pieno della sua potenza militare, si preparò a distruggere quello che rimaneva del potentissimo esercito asiatico: con la complicità dei pochi cristiani rimasti in Palestina e sotto la guida del giovane emiro Rukn al-Din Baibars, altro guerriero abile e ferocissimo, sconfisse definitivamente Kitbuga presso Ain Jalud il 2 settembre 1260. Anche questo episodio sottolinea come la cristianità occidentale non avesse mai avuto in mente una vera riconquista della Terrasanta; semmai, come Urbano II aveva sempre predicato, il vero obiettivo era la liberazione dei Luoghi Santi a vantaggio dei pellegrini che vi si recavano. Quanto ai cristiani orientali, la loro remissiva accondiscendenza politica nei confronti delle conquiste musulmane era ormai data per scontata.

Moretta: Diversi studiosi contemporanei si sono soffermati sul concetto di santità nel Medioevo. Tutti evidenziano l’aspetto taumaturgico del loro “intervento” o più in generale del “potere”, della “forza” costantemente invocati per affermare il bene o più semplicemente per indirizzare positivamente eventi, ricorrenze e momenti importanti della vita degli uomini. Non è così?

Bertotti: Sicuramente. Premetto, a scanso di comodi equivoci, che il vero cristianesimo è nemico di ogni idolatria. Si è spesso equivocato a proposito di culto rivolto alla Santa Vergine, ai santi, alle immagini, alle reliquie e quant’altro. Nei confronti di queste persone e di queste cose è sempre auspicabile una devozione, una venerazione, ma giammai un culto, che deve invece essere riservato soltanto alla Santissima Trinità. Ho voluto specificare immediatamente tutto questo perché, fra le mille infami accuse al Medioevo, quella di “superstizione” è stata particolarmente modaiola. Nessuno ha combattuto presunte idolatrie cristiane più della Chiesa cattolica stessa: gli illuministi francesi scoprirono soltanto l’acqua fredda. Il Protestantesimo, peraltro, aveva riacceso, all’interno di tutte le sue varie farneticazioni teologiche, anche la vecchia questione iconoclastica. Se si leggono i documenti sulle persecuzioni dei cattolici nell’Impero bizantino all’inizio del IX secolo, proprio relativamente alla cosiddetta guerra degli iconoclasti, c’è da rimanere annichiliti (o quasi) di fronte alla devastante violenza terroristica anticattolica di quegli imperatori bizantini che, nella politica di ogni giorno, non trovavano di meglio che farsi consigliare dai loro famigerati eunuchi. Fu davvero una situazione che ricorda molto da vicino gran parte dell’attuale politica europea anticristiana in nome dei nuovi dioscuri chiamati Laicismo e Relativismo. D’altronde, sappiamo tutti la fine che fece, in varie tappe, l’Impero di Costantinopoli: sarebbe assai opportuno ricordarsi anche dei perché che lo condussero a quella fine. Nel Medioevo non erano solo i grandi santi ecclesiastici a essere taumaturghi prima e dopo la loro morte: lo erano anche i re o gli imperatori che, a loro volta, potevano incarnare particolari carismi religiosi (come San Luigi, tanto per fare il primo esempio). Il riferimento costante è quello a Gesù Cristo come taumaturgo (il sommo guaritore per eccellenza) e il fondamento dell’agire taumaturgico è soltanto la pura Fede, coniugata alla Potenza che essa può operare in noi. Ecco pertanto riuniti tutti i concetti espressi nella domanda. E’ del tutto ovvio, per chi sostenga che ogni cosa vivente sia frutto del puro caso, che la questione non si ponga ma, come sempre sostengo, ognuno è, grazie solo a Dio, del tutto libero di manifestare le proprie convinzioni e, ovviamente, di risponderne a titolo personale. Nelle agiografi medievali, noi moderni non smettiamo di trovare occasioni per schernire un linguaggio e dei fatti che ci sembrano astrusi, sciocchi, puerili: è così che siamo diventati cristiani e cattolici adulti… Non s’è ricercata la vita e, meno ancora, si è ricercato l’amore per Dio e per l’uomo in tutta quella letteratura: ciò che premeva era dimostrarne l’inconsistenza, l’alone superstizioso, i secondi fini propagandistici della fede confessionale e politica; insomma, bisognava giungere a dimostrarne il ridicolo patologico. Poi, però, molti hanno cominciato a ristudiare, con dotta attenzione critica, la Storia e i suoi documenti: ora, finalmente, le figure gigantesche dei grandi santi cristiani possono mostrarsi in tutto l’autentico splendore della loro funzione esemplare; essi non appartengono ad alcuna mitologia di sorta, sia ben chiaro. Se è il linguaggio agiografico ad annoiarci, dovremo costruirci i giusti strumenti di filtraggio per occhi e orecchi; basterà, infine, guardare un po’ al di là dei nostri (sempre) impellenti bisogni compulsivi di dimostrazione e potenziare adeguatamente la nostra capacità di visione di quelle cose.

Moretta: Quale era la condizione della donna nel Medioevo? E’ vero che l’immagine simbolica evocata dalla donna oscillava tra quella di un “essere malefico”, in quanto depositario della nefasta eredità di Eva, e quella di un “essere angelico”, capace di accendere i più nobili sentimenti, di elevare l’uomo verso la trascendenza e di favorirne la pienezza spirituale?

Bertotti: Non dice nulla il fatto che, per esempio, Eloisa fosse un’eccellente studentessa universitaria? Non dice nulla il fatto che badesse profondamente carismatiche fossero a capo di monasteri anche misti e non soltanto femminili? Georges Duby ha dedicato grandissima parte della sua vita di storico alla figura della donna nel Medioevo: guarda caso, emerge il ritratto di una donna tutt’altro che relegata al risibile dualismo angelo-demone, vergine-prostituta ecc., cosa che, mutatis mutandis, finirebbe per riguardare immancabilmente anche la figura maschile. Sarebbe utile chiedersi il perché di tanto insistere, da parte dei soliti noti, sul presunto dualismo della cultura medievale, ossia su una ennesima eredità del pensiero platonico. Correttezza di giudizio imporrebbe di non nutrire velleità dimostrative tali da applicare, autoreferenzialmente, metodologie deduttive a partire da presupposti falsi; a meno che, come s’è visto, non si voglia forzosamente giungere a conclusioni che interessano soltanto chi le ha prodotte. Medioevo sessuofobo, misogino, maschilista e dunque fallocratico? E’ ovvio che tali definizioni si commentino da sole e io, per parte mia, non ho certo alcuna intenzione di perdere il mio tempo a confutare o a commentare scempiaggini di tal genere. La verità è che abbiamo per troppo tempo sottovalutato i malefici dell’arte sofistica, ritenendo, con una certa supponenza, di esserne beatamente al riparo. Se c’è un’epoca storica in cui non c’è spazio per alcuna idealizzazione, quell’epoca è proprio il Medioevo, soprattutto nell’ambito della Fede, la quale è “sustanza di cose sperate / e argomento delle non parventi: / e questa pare a me sua quiditate”, come disse Dante citando San Paolo (Ebr. 11, 1) nel suo speciale esame teologico di fronte a San Pietro (Paradiso XXIV, 64-66). Normalmente, coloro che parlano di demonizzazione e di umiliazione della figura femminile nel Medioevo cristiano sono coloro che continuano a vedere nella Grecia antica e nella sua scintillante filosofia la chiave di ogni paradiso mentale. La cosa è ancora più paradossale, visto che quella visione negativa della donna appartiene davvero agli antichi greci e per nulla al cristianesimo che, proprio relativamente alla donna, rispettò i ruoli attribuiti alla medesima dalla società e dalla civiltà romana.

Moretta: Quando osserviamo le riproduzioni delle miniature dei libri medievali, i capitelli delle colonne, le stoffe, i dipinti, ecc. troviamo un vasto bestiario di mostri, di draghi, di esseri misteriosi che sembrano provenire da orribili lande del fantastico. Da dove nascono queste strane visioni? Quali sono le radici dell’immaginario medievale? E’ un immaginario sempre demoniaco?

Bertotti: Proprio Jacques Le Goff, nonché Felice Moretti (Università di Bari) e Francesco Maspero (Università Statale di Milano) hanno dedicato alcuni scritti importanti relativi all’immaginario umano nel Medioevo, includendo ovviamente anche preziose considerazioni sul “bestiario” dell’epoca. Le solite vulgate pretendono di attribuire soltanto al Medioevo una dimensione onirica o visionaria incentrata sul “mostruoso”: noi invece la buttiamo in burletta quando ci riempiamo gli occhi con la cinematografia di genere fantascientifico e horror. Meno male! Le medesime vulgate pretendono che l’uomo medievale fosse carnefice e torturatore anche di qualsiasi creatura animale biblicamente a lui sottomessa, come se non esistesse un’imponente letteratura attestante l’esatto contrario. Si pretende inoltre che per l’uomo medievale gli animali fossero demoni rivestiti di sembianze ferine, portatori di malefiche sventure (rapaci, gatti ecc.) e quindi da cacciare o sopprimere in ogni caso. Anche questa scemenza è smentita da molti e importanti studi condotti sull’iconografia dell’epoca da cui emerge, certo, l’orrore per la ferinità minacciosa, ma anche l’incantevole curiosità dei medievali nei confronti di tutti gli animali, da quelli più comuni a quelli più esotici. A proposito del famoso concetto di “bestialità”, molti ritengono che il suo uso medievale fosse di invenzione cristiana al fine di avvalersi di chissà quali speciali armi moralistiche all’interno dello specifico universo della simbologia: se si va a ricercare meglio, rimarremo ulteriormente stupiti nel constatare come tale pensiero fosse, in realtà, tipico di certa cultura greca. Lo studio del “mostruoso” non può riguardare soltanto gli antropologi della cultura (in particolare quelli delle obsolete correnti strutturaliste); quando visitiamo una cattedrale medievale, tanto per fare un esempio in grande, proviamo a interrogarci su cosa possano significare per noi le diverse rappresentazioni scultoree del “mostruoso” medievale e scopriremo, non senza sorprenderci, che esse hanno ancora molto da dirci e da insegnarci.

Moretta: Ricordando la letteratura epica del Medioevo, penso per esempio al poema cavalleresco: si narra spesso di imprese insigni, di avventure guerresche, di duelli e di amori i cui protagonisti, i cavalieri, appunto, esercitano ancora oggi tutto il loro fascino, specie tra i giovani. Si tratta di personaggi dilatati dalla leggenda o somigliano un po’ai cavalieri realmente esistiti? Cosa si intendeva con il termine “caballarius”? Quale era il loro ruolo nella società medievale?

Bertotti: La letteratura romanza è tanto bella quanto vasta. Sicuramente quei cavalieri sono del tutto amplificati dalla leggenda, la quale è cosa comunque diversa dall’epica. Ricordiamoci, a tal proposito, del capolavoro di Miguel de Cervantes Saavedra, un vero paradigma delle cavalleria leggendaria. Se si leggono i più importanti storici delle Crociate di Terrasanta, per esempio, si ha a che fare con una vera e propria epica (anche in poesia) del fatto accaduto realmente, senza alcuna fantasticheria. Ogni grande guerra racchiude in sé l’epica: con buona pace di chi, tutto preso nella “sospensione del tragico”, ossia nella sua demenziale rimozione, vorrebbe abolire per decreto ideologico una delle fondamentali esperienze umane. La voce tardolatina “caballarius” indica colui che è addetto ai cavalli. Un cavaliere era, semplicemente, un militare di alto rango perché aveva il denaro che gli serviva per mantenere un cavallo e per dotarsi delle armi che alla cavalleria erano richieste. La maggior parte dei cavalieri era pertanto aristocratica: i monaci cavalieri (Templari e Ospedalieri in particolare) erano però i guerrieri migliori perché, come ci riferisce proprio San Bernardo nel suo “De laude novae militiae”, non avevano alcuna fastosità mondana da esibire pubblicamente, come spesso accadeva ai raffinati aristocratici franchi. La cavalleria militare ha assunto anche un alone di leggenda per il suo specifico modo di agire in battaglia, ossia di “caricare” l’esercito nemico. Gli esempi, epici ma reali, sono infiniti; sempre per citare le Crociate, due esempi straordinari sono costituiti dalla vittoria di Baldovino IV a Montgisard (25 novembre 1177) contro Saladino e da quella di Riccardo Cuor di Leone ad Arsuf (7 settembre 1191), sempre contro Saladino. Queste due battaglie, ancorché inutili “politicamente”, restano due gioielli nella storia della strategia militare. L’altra cavalleria è quella, per così dire, morale, legata i buoni costumi e allo spirito in senso lato; su questa cavalleria fiorì, già nel Medioevo, una letteratura talmente vasta da fornire materiale di studio e di lavoro a molte generazioni di studiosi e professori. Personalmente, devo confessare che, in quell’ambito, Cervantes è inarrivabile.

Moretta: Con l’ingresso di molti paesi dell’Est nell’Unione Europea, prendiamo sempre più consapevolezza delle loro comuni radici cristiane e di un apparentamento culturale con l’Europa occidentale risalente addirittura al MedioEvo. Qual è l’origine dei popoli slavi ? Perché potrebbe essere importante oggi studiare meglio la Storia di quella Europa che sta a Oriente?

Bertotti: Non possiamo negare che lo scisma definitivo fra cattolici e ortodossi bizantini (1054) sia ancora una terribile ferita aperta nel corpo della cristianità. Non possiamo neppure negare che, quando due fratelli decidono di separare le loro strade, entrambi condividano pesanti responsabilità. Quello scisma non giunse improvviso e covava, per così dire, da parecchi secoli: in quella malaugurata divisione l’Islàm, tanto per fare un esempio, ebbe gioco facile ad affondare la sua spada. Personalmente riconosco ai “greci” (come i cattolici romani chiamavano gli ortodossi nel Medioevo) uno straordinario rispetto “conservatore” della tradizione liturgica, da noi colpevolmente abbandonata in modo sciaguratamente progressivo proprio a partire dalla fine del Medioevo; non ho mai condiviso il loro ritenersi praticamente sempre subordinati al potere secolare. Un cristianesimo che accompagni con discrezione il potere secolare ha già posto le basi per la sua retrocessione a “fatto privato” concernente le semplici coscienze individuali. Gli slavi sono quel ceppo etnico da cui derivano gli attuali popoli russo, ucraino e bielorusso, ossia popoli nomadi che provenivano dalle steppe dell’Asia centrale: da questi provennero i Goti, gli Unni, gli Avari e i Bulgari, ossia gran parte dei “barbari” che accelerarono il crollo dell’Impero romano d’Occidente. La cristianizzazione dei popoli slavi avvenne in gran parte dopo la morte di Carlo Magno (814) e dopo la spartizione dell’impero carolingio (843). Questo abbandono del loro paganesimo avvenne in seguito all’opera missionaria, assolutamente straordinaria per cultura e civiltà, di monaci benedettini che furono fra i più grandi protagonisti della cosiddetta rinascita carolingia. Segnalo, a tale proposito, i resoconti contenuti nella “Histoire Ecclesiastique” dell’abate Fleury, pubblicata durante il regno di Luigi XV, mio strumento di studio e di lavoro privilegiato. Concordo con lei nel considerare importantissimo lo studio dell’Europa orientale; solo mi preme far notare che, attualmente, partiremmo per conoscere la loro storia in condizioni di quasi totale ignoranza della nostra: prima di conoscere gli altri è decisamente consigliabile conoscere sé stessi; ma noi, purtroppo, pensiamo che la nostra vera storia l’abbiano scritta gli enciclopedisti…

Moretta: Parliamo della civiltà comunale. Perché il comune ha costituito una delle più importanti novità da un punto di vista politico ed economico? E’ vero che a questa civiltà si può far risalire la struttura urbanistica di grande parte dei centri storici delle nostre città?

Bertotti: L’istituzione comunale è in sé una costituzione politica democratica: lo dico riferendomi alla storia della democrazia ateniese che va da Solone a Pericle, dunque a quel solo e particolare tipo di democrazia. Quella costituzione si prefiggeva di consentire una sempre più ampia partecipazione di “cittadini” al governo della cosa pubblica (che per gli ateniesi era costituita dai “demoi”, ossia dai loro quartieri cittadini). Anche la civiltà comunale si basò sulla fruttuosa convivenza fra aristocrazia e borghesia: sto parlando di quella borghesia non ancora squartata dalla crisi della “rinascenza”, ossia quella che, in piccola parte, divenne neoaristocratica e, in gran parte, scivolò verso la triste proletarizzazione sotto la spinta di nuove oligarchie economiche. L’età comunale dovrebbe, proprio oggi, esserci di riferimento politico assoluto contro gli scempi di civiltà prodotti dai nazionalismi e dai movimenti rivoluzionari internazionali. Purtroppo non è questa la sede per affrontare in modo approfondito un tale argomento di storia politica e, paritariamente, di storia del diritto. Tale discussione, peraltro non più rimandabile, eccederebbe lo scopo che ci siamo prefissi: l’importante è che se ne cominci a parlare smettendola di essere ciechi di fronte alle trasformazioni del mondo. E’ ben vero che l’età comunale fondò letteralmente l’impianto urbanistico delle nostre città, ma non possiamo dimenticare che il Medioevo fu, in tal senso, un continuatore della tradizione romana. Penso che solo gli ultimi due secoli abbiano “cambiato strada”, ovviamente per ciò che riguarda soprattutto gli assetti metropolitani; i disastri si son visti anche lì: ne abbiamo infatti già parlato a proposito dell’architettura religiosa. Gli uomini non sono nati per essere “massa”, non sono nati per essere messi in pollai, non sono nati per essere governati da filosofi illuminati o architetti di chissà quale umano progresso e felicità.

Moretta: Quando si parla di mondo contadino del Medio Evo mi vengono in mente i personaggi curiosi, ma anche drammatici, dei dipinti Peter Bruegel il vecchio, in cui con amaro realismo si allude alle fatiche immani e alla estrema precarietà di questa parte dell’umana famiglia che viveva nelle campagne. Cosa dicono a tal proposito gli studiosi?

Bertotti: E’ storicamente noto che il mondo contadino e quello del commercio siano stati molto spesso lamentosi: gli uni si lamentano perché il raccolto non è mai abbastanza ricco, gli altri perché non sono riusciti a vendere tutta la loro merce. In realtà, la vita dei contadini non era affatto miserevole come, nuovamente, si è voluto far credere quasi a forza. Di certo, i principali pericoli che i contadini correvano erano la probabilità di carestie, l’usura fisica per la fatica nei campi e la presenza di un signore-padrone che eccedesse nelle sue richieste legittime. Per contro, la vita rurale è illustrata in una abbondantissima letteratura documentale da cui non risulta affatto che i contadini vivessero come i prigionieri nei lager nazisti. A farsi difensore di chissà quali diritti dei contadini ci pensò, fra gli esempi illustri, Lutero: tutti sappiamo perché lo fece e tutti sappiamo come andò a finire. Nel vasto campo della demagogia, il primo furbastro che voglia intascarsi un qualche consenso non ha che da andare da chiunque si lamenti, metterne insieme un certo qual numero e organizzare una processione sotto i palazzi del potere “cattivo”. A volte, purtroppo, il gioco riesce e prima di levarsi dai guai può passare anche qualche secolo in cui l’ordine pubblico rimane in pratica abolito. Ecco perché la massificazione di una società è il progetto politico eversivo ed esclusivo di chi abbia interesse a sopprimere “sine die” l’ordine pubblico. Dopo i contadini sarebbe toccato alla celebre “classe operaia”. Che potenza e che meraviglia: “La terra ai contadini” e “Le fabbriche agli operai”. Ognuno consumerà quanto potrà produrre: perfetto! Ma non si era detto che Madonna Teoria non poteva fallire? Qualche imprudente potrebbe pensare che io non sappia nulla di contadini e operai: errore! Guarda caso, tutta la mia famiglia materna era di origine contadina prima e operaia poi. Per più di trentacinque anni ho conosciuto molto bene il Monferrato contadino; abitando a Torino, non mi è affatto ignota la realtà di chi ha lavorato in fabbrica prima e dopo il 1950. Tornando al nostro argomento, abbiamo il dovere di spendere alcune parole su una definizione di contadino che è diventata, modernamente, una vera figura retorica: il “servo della gleba”. Sarebbe opportuno sapere che, a parte casi di palesi eccessi nella Russia prima di Pietro il Grande, l’Occidente europeo realizzò la servitù della gleba come puro obbligo reciproco fra un padrone della terra e i contadini (i “colonii” latini) che la coltivavano pagandone l’affitto e le decime a fronte della garanzia di protezione giuridica e militare. Si trattava dunque di un mutuo scambio di beni e servizi: tutto qui. Ma poi avvenne qualcosa: come volevasi dimostrare, ricerche storiche documentali approfondite hanno rivelato che i contadini-servi non subivano affatto obblighi di particolare gravosità; fu l’introduzione delle teorie degli illuministi francesi a sfasciare un istituto del tutto lecito e funzionante, teorie istiganti alla ribellione e facenti leva sulla ben nota invidia sociale con i mezzi peggiori della demagogia e del terrorismo politico. Prova speciale ne fu che in Russia, quando lo zar Alessandro II abolì la servitù della gleba (1861), i contadini divennero immediatamente più indigenti, privi di ogni tutela giuridica e, soprattutto, pronti a cadere nelle mani dei bolscevichi, i degni nipoti dei giacobini francesi. La ribellione, a voler essere sinceri, non è mai forzosamente illecita: basta prendere le armi, uccidere il padrone, rubargli la proprietà e diventare i nuovi padroni di tutto. Rimane però che colui che si è ribellato possa, in modo del tutto lecito, fare la fine del suo stesso padrone: in questo caso vale il detto “ciò che è fatto è reso”. Molto spesso si è sentito dire: “Allora c’era la miseria, c’era l’ignoranza”. Magari ora ci verranno a raccontare che, se alcuni contadini odierni possono esibire lauree presso le Facoltà di Agraria o condurre prospere attività di imprenditori, tutto questo sarà dovuto alle rivoluzioni socialiste! Le verità sono ben altre, ossia che senza il capitalismo e senza il mercato tutto questo non avrebbe mai potuto accadere: se poi qualcuno vuol proprio credere agli asini che volano, padronissimo di crederci.

Moretta: Al Medioevo si fa risalire la nascita del diritto “positivo” che si contrappone al cosiddetto di diritto “naturale”. Ma anche per il diritto naturale si suol distinguere tra medievale e moderno. Ma è proprio vero che il Medioevo, specie dopo l’anno Mille, può considerarsi una età senza giuristi? Quali sono stati tuttavia i capisaldi giuridici di riferimento in quei lunghissimi mille anni che chiamiamo “età di mezzo”?

Bertotti: Avevo iniziato la mia risposta ad alcune domande precedenti asserendo che, per rispondere ad esse, ci sarebbe voluto un libro intero: figuriamoci quanti libri ci vorrebbero per rispondere a questa! Mi piacerebbe molto, in tale frangente, avere la competenza professionale di un Bruno Leoni o di un Gioele Solari ma, purtroppo, ne sono sprovvisto. Diciamo, innanzitutto, che esistono leggi divine e leggi umane che, a seconda dei periodi storici, possono rifarsi a quelle, oppure no. Si ritiene comunemente, per esempio, che le leggi “naturali” siano quelle derivanti dalle fedi religiose, ammettendo esplicitamente che Dio sia la stessa cosa della natura. Nelle religioni monoteiste è palese che questa equiparazione non sia in alcun modo accettabile in quanto Dio è creatore di ogni cosa e non può essere “compreso” nella cosa creata; quindi partiamo già male. Il diritto positivo, che io mi diverto (si fa per dire) a chiamare “impositivo”, è qualcosa di meramente umano e, come qualcuno voleva spiegarci generosamente, esplicita precise volontà di asservimento di soggetti terzi da parte della “cultura dominante” o della “classe” in quel momento al potere. Mi sbaglio? E’ infatti dalla fine dell’Ottocento che i fautori del positivismo giuridico cancellano con la massima violenza ogni eventuale accenno all’esistenza e alla validità del diritto naturale. In tal modo, milioni di studenti di Giurisprudenza sono stati indottrinati a ritenere il diritto positivo come unico diritto possibile e accettabile. Dunque siamo al: “Non esiste alcuna legge sopra di me se non quella che posso farmi io stesso o che posso fare insieme ai miei complici”. Ancora una volta, l’uomo si consacra Dio di sé stesso e, soprattutto, degli altri suoi simili. Con la pratica rivoluzionaria Dio è cancellato per sempre dalla mente degli uomini (ma non dai loro cuori, sarebbe assai prudente aggiungere): tanto vale imporre leggi meramente umane spacciandole per infallibili, giuste, eque, buone, educative e lungimiranti nei confronti del bene della collettività. Può bastare? Vorrei però ancora ricordare, per analogia, le celebri battute della “Salome” di Oscar Wilde in cui Erode ed Erodiade, riferendosi a Giovanni il Battista prigioniero, si dicono: (Erodiade) “Io non credo nei presagi. Parla come un ubriaco.” – (Erode) “Può darsi che sia ubriaco del vino di Dio!” – Erodiade “Che vino è il vino di Dio? Da quali vigne proviene? In quale spremitoio si fabbrica?”. Da secoli si dice anche che il diritto esista al puro scopo di impedire che chiunque possa uccidere chiunque: obiettivo raggiunto? La storia umana dice ben altro. Se siamo soltanto esseri fallibili, per nostra fortuna, evitiamo almeno di crederci nuove divinità, per nostra somma vergogna. Il giuristi medievali erano in gran parte glossatori e commentatori del Diritto Romano codificato dal grande Giustiniano nel “Corpus iuris civilis”: beati loro! E i giuristi ecclesiastici che codificarono il “Corpus Iuris Canonicis”, ossia il Diritto Canonico, erano forse giuristi “figli di un Dio minore”? Mi sembra proprio il contrario… Ben prima del celebre Decreto “Concordia discordantium canonum”, redatto tra il 1140 e il 1142 da Giovanni Graziano, monaco benedettino camaldolese, la Chiesa cattolica ha sempre dimostrato di essere l’unica vera e compiuta erede dell’Impero romano, non solo nell’ambito del diritto che la riguardava. Per perpetuare una civiltà non c’è affatto bisogno di molti insigni giuristi, a volte può bastarne uno. Per il resto, già Marco Tullio Cicerone si era espresso in modo straordinario con il suo “Summum ius summa iniuria” (De officiis I, 33) che però, con tutta probabilità, aveva preso da Terenzio (Heautontimorumenos IV, 5): “Ius summum saepe summa est malitia”. Loro sapevano cos’era il diritto: la modernità può dire altrettanto?

Moretta: Chi erano i barbari? Come hanno cambiato il corso della storia nei primi secoli della cristianità, contribuendo al lento e inesorabile declino dell’impero romano? Perché continuiamo ad usare spesso il termine “barbaro” per indicare una persona primitiva e poco civilizzata?

Bertotti: Ricordiamo che “barbaro”, per i greci che affrontarono e sconfissero l’invasione persiana, era colui che parlava una lingua incomprensibile a loro, oltre a mostrare costumi differenti. Gioverà altrettanto ricordare che, per quegli stessi greci, vigeva la netta contrapposizione fra la loro “libertà” e la “schiavitù” dei “barbari” che obbedivano ciecamente ai loro padroni satrapi mediorientali. In tal modo, la vittoria militare riportata in storiche battaglie quali, per esempio, Maratona, Salamina e Platea, significava la vittoria dei “liberi” sugli “schiavi” e, in specifico, su gente definita senza mezzi termini come “inferiore” per civiltà. Questo sia detto al fine di chiarire definitivamente le idee ai soliti noti che, ancora oggi, possiedono dei greci una visione decisamente mitologica di somma e ineguagliabile civiltà. Ai giorni nostri, una delegazione dei persiani all’ONU accuserebbe immediatamente i greci di razzismo discriminatorio in quanto, per puro diritto ideologico, non possono assolutamente esistere civiltà superiori alle altre. Abbiamo già parlato della provenienza di alcune delle popolazioni barbare che contribuirono alla caduta dell’Impero romano. Roma considerava le varie popolazioni barbare, prime fra i quali i Galli e i Germani, non come genti razzialmente “inferiori” ma come semplici nemici da sottomettere all’Impero. Le cause del crollo di un impero sono sempre tantissime: moltissimi filosofi e storici, depositari dei crimini intellettuali degli ultimi tre secoli, hanno costantemente divulgato e sostenuto la menzogna secondo la quale fu nientemeno che il cristianesimo a indebolire le strutture dell’impero, a renderlo decadente e ad affrettarne, in tal modo, la rovina; tali congetture non hanno neppure bisogno di commento. Fra le cause principali v’era anche quella legata alla difficoltà di controllare militarmente un territorio molto vasto, sapendo, fra l’altro, che l’esercito era ormai sempre più formato da soldati di origine gallica e germanica: tale esercito, pur potente, non poteva condividere le stesse motivazioni che avevano animato coloro che avevano combattuto i cartaginesi o le terribili guerre civili prima del regno di Augusto. Ricordiamoci anche che la dissoluzione di un impero o di una civiltà non avviene mai in modo repentino e che il crollo è sempre preceduto da una lunghissima scia di segnali. Reputo che oggi il termine “barbaro” sia usato fortemente a sproposito: esso indicava molto tempo fa una persona primitiva e non civilizzata; significava anche “crudele”, “selvaggio”, “ateo”, “infedele” ecc. Poi sono già sei i decenni in cui si parla di “barbarie nazifascista”, come se non si sapesse a sufficienza che il nazionalsocialismo (al pari di tutti i suoi parenti più o meno stretti) rappresentò invece un apice grandiosamente nero di una lunghissima decadenza, ossia quella che noi iniziammo proprio con la fine del Medioevo. L’aggettivo “barbaro”, in realtà, andrebbe rivalutato: si tratta infatti di riferirsi anche a persone che odiano l’opulente ricchezza di una civiltà morente, a persone che sono disposte anche a distruggerne ciò che ancora rimane; tuttavia ogni “barbaro”, partendo da una generica condizione di povertà e di bisogno, cerca il suo nemico, dopo le razzie distruttrici, per costruire qualcosa insieme, anche riconoscendo la vecchia “superiorità” del nemico e traendo da essa gli spunti per fondare qualcosa di buono e innovativo. In questo senso, noi avremmo grande bisogno di “barbari” nelle nostre prossimità. Invece, colmo della sventura, veniamo distrutti ogni giorno dai peggiori decadenti fra i quali, impossibile non saperlo, v’è l’Islàm più retrivo e decaduto di sempre. Ancora una volta la Fede cristiana farà il miracolo: ma dobbiamo muoverci.

Moretta: E’ vero che conoscendo bene la vita e le imprese di Carlo Magno si riesce a cogliere meglio il delicato passaggio tra la civiltà classica e quella che oggi chiamiamo “occidentale”? Chi era Carlo Magno, il più importante e “mitico” re dei franchi?

Bertotti: Occorrerebbe che un grandissimo re e imperatore come Carlo Magno, che in vita si definiva l’ultimo dei Cesari, perdesse quell’alone mitico e leggendario che troppa cultura posteriore gli ha attribuito. Al di là delle maniere del suo tempo, la biografia di Einhard (Eginardo), grande erudito laico della corte imperiale di Aquisgrana e intimo dell’imperatore, ci illustra un uomo vero, non un personaggio idealizzato. Alessandro Barbero (Università del Piemonte orientale, Vercelli), con il suo “Carlo Magno. Un padre dell’Europa” (2000), ci ha dato un’opera di grandissimo spessore scientifico in cui vengono esplicitate anche tutte le dinamiche geopolitiche che portarono Carlo Magno a fondare un Impero che, purtroppo, durò solo per poco più di mezzo secolo, a iniziare una prima “reconquista” nei confronti dei musulmani invasori e a creare una cultura degna erede e continuatrice della tradizione romana. Tanto per denigrarlo, i soliti noti storici progressisti puntarono il dito moralista nei confronti della sua lunga, spietata ma vittoriosa guerra contro i sassoni, tribù germanica pagana che, forse, voleva ancora rinnovare i fasti del tragico eccidio di Teutoburgo (9 d.C.) in cui furono sterminate le legioni romane di Publio Quintilio Varo. Giova ricordare, tra l’altro, che alcuni dei primi sostenitori del germanesimo nazionalsocialista avevano pensato di imporre un nuovo calendario in cui tutto iniziasse proprio dall’anno della strage di Teutoburgo. Per tornare a Carlo Magno, che non ebbe vita facile a far convivere franchi occidentali (di origine gallica e futuri francesi) e franchi orientali (di origine germanica e futuri tedeschi), si preoccupò di diffondere maggiormente il rituale sacro romano nelle terre dell’impero d’Occidente. Lavorò con grande tenacia alla fondazione di scuole laiche che costituissero un degno e valido complemento a quelle ecclesiastiche. Intuì lo scontro fra i Longobardi e la Chiesa: offertosi in auto di Papa Adriano I, approfittò dei conflitti fra i duchi longobardi per batterli e farsi incoronare, a sua volta, “Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum”, mantenendo le loro leggi ma imponendo la nuova struttura del potere e dell’amministrazione franca. Ma, soprattutto, Carlo Magno fu politico e militare straordinario al tempo stesso, cosa che capitò a pochissimi grandi uomini nella Storia. Bonaparte, per esempio, che dell’imperatore franco si credeva un erede, fu un grande militare ma fu un politico del tutto disastroso. Ai tempi di Carlo Magno, inoltre, non erano ancora comparse le odiose eresie pauperiste e millenariste che avrebbero afflitto il Pieno Medioevo; il cristianesimo di allora poteva vantare in tutta Europa una cultura monastica benedettina di livello altissimo: persino la cristianizzata Sassonia, nei monasteri di Corbie e di Fulda, aveva trovato nell’abate Wala una dei suoi protagonisti carismatici più straordinari. A chi, non solo da oggi, sta imponendo nelle scuole uno studio della Storia lavato da ogni conoscenza della storia militare, di quella politica e di quella economico-produttiva, dobbiamo opporre, con tutta la nostra forza, la consapevolezza che la Storia umana sia fatta dagli individui, in particolare dai più dotati, nel bene come nel male. La funzione esemplare di tali uomini spingerà sempre ciascuno a confrontarsi con sé stesso e con il mondo. Quanto ai manuali sull’uomo nuovo, sulla società pacificata e perfetta, sullo scontro dialettico delle classi sociali, sulla nuova chiesa e via dicendo, è ora chiudere la partita: abbiamo già dato ben oltre il lecito.

Moretta: Vivo in Abruzzo dove sono sopravvissute significative tracce toponomastiche del periodo aragonese. Nella storia del Mezzogiorno d’Italia, la presenza degli spagnoli prima e dei francesi successivamente costituisce un momento rilevante di transizione. Perché, anche a livello europeo, le guerre del Cinquecento sono così importanti?

Bertotti: Lo sono in negativo per noi poiché segnano la fine dell’età comunale: soltanto la repubblica di Venezia riuscì a resistere fino al vergognoso trattato di Campoformido del 1797, atto con cui Bonaparte cedeva Venezia in pegno di pace all’Imperatore d’Austria Francesco II d’Asburgo. Nel Medioevo si erano alternati, per ricordare solo i maggiori esempi, Bizantini e Longobardi, poi Franchi e Germanici; Francesi e Spagnoli si spartirono il nostro tardo Medioevo e ciò che ne seguì sino ai frutti della rivoluzione francese; poi toccò agli austriaci e, pessimo finale, ai piemontesi. Aveva ragione il principe Metternich o no? Eppure, a prescindere da chi comandi al momento, i popoli continuano a vivere, persino nonostante i genocidi: le nazioni sono invece pura astrazione. Quelle stesse guerre furono devastanti anche per tutta l’Europa: le potenze in crescita erano ormai Spagna e Inghilterra, senza dimenticare le varie “guerre di religione” scatenate proprio dai vari riformatori protestanti, guerre feroci e sanguinosissime. Il Medioevo era proprio finito e, ancor peggio, rinnegato.

Moretta: Che ne era del popolo ebraico nel Medioevo? Era già allora oggetto di discriminazioni e persecuzioni? E’ vero che il primo ghetto, come dimora coatta, fu istituito a Venezia durante il Rinascimento?

Bertotti: Le offro una sintesi. Thomas Madden, professore associato e preside del Dipartimento di Storia presso la Saint Louis University, così argomenta nel suo articolo “La Chiesa e gli ebrei nel Medioevo” (pubblicato sulla rivista “Crisis”, vol.21 nr.1 del gennaio 2003): “[…] In un mondo moderno, post-illuministico, la credenza religiosa è semplicemente una preferenza personale, come il colore preferito. Ma nella maggior parte delle civiltà premoderne la religione è l’aspetto centrale, se non predominante, di un’identità personale e collettiva. Cercare di corrompere o denigrare la religione di una cultura sarà quindi equivalente al tradimento dell’età moderna. In entrambi i casi si penserà che i crimini siano sufficientemente gravi da giustificare la pena di morte. Tutto questo solo per dire che prima del XIX secolo la tolleranza religiosa non era una virtù. Nessuno dubitava che eretici, bestemmiatori, pagani e infedeli dovessero essere affrontati prontamente per impedire loro di corrompere la fede, sviando altri e attirando la collera divina. Questo era l’atteggiamento degli ebrei nei periodi biblici e anche di cristiani e musulmani nel Medioevo, sebbene le intenzioni e i metodi fossero differenti per ogni religione. Non è troppo sorprendente, allora, che i principali rivali del cristianesimo siano scomparsi dopo essere stato questo, nel quarto secolo, dichiarato religione ufficiale dell’Impero romano. Ciò che è sorprendente è che uno di quei rivali, l’ebraismo, sia stato oggetto della tolleranza e della protezione da parte della Chiesa. Di conseguenza gli antichi culti di Iside, Mitra e Diana scomparvero senza lasciare traccia, mentre l’ebraismo sopravvive ancora. […] Gli ebrei consideravano il cristianesimo come una bestemmia contro Dio e una perversione della loro fede. Nei testi rabbinici del terzo secolo Gesù veniva descritto come un mago in combutta con Satana, Maria come una prostituta e gli apostoli come criminali che meritavano la morte. Le preghiere quotidiane ebraiche includevano spesso una supplica affinché Dio distruggesse i ‘settari’, il termine utilizzato per descrivere i cristiani”. Molti continuano a ignorare che, nel IV e nel V secolo, furono moltissimi i cristiani perseguitati o uccisi dagli ebrei presenti in forte maggioranza in alcune città dell’impero; ai cristiani che meditavano vendetta, si oppose con decisa intransigenza proprio Sant’Agostino. All’inizio del Medioevo, Papa Gregorio Magno pose gli ebrei nell’alveo del Diritto Romano alla luce di San Paolo e di Sant’Agostino: il potere secolare, invece, difficilmente perdeva occasione di recare violenza agli ebrei, per i motivi più disparati e ingiustificabili. Un’altro grandissimo ecclesiastico, Sant’Agobardo, vescovo di Lione durante il dissolvimento dell’impero carolingio, aveva strettissimi rapporti con gli ebrei tanto da conoscere bene il “Toledot Yeshu”, una raccolta di storie ebraiche su Gesù che, oltre a ripetere vecchie diffamazioni, ne aggiungeva di nuove al limite del ridicolo. L’antisemitismo, però, covava come fuoco sotto la cenere. Torniamo ancora a Madden: “Proprio a partire dalle crociate la Chiesa operò una netta distinzione tra musulmani ed ebrei. In una lettera ai vescovi di Spagna Papa Alessandro II proibiva specificamente a chiunque di equiparare le guerre sante contro i musulmani alla violenza contro gli ebrei. Scriveva: ‘La questione degli ebrei è affatto differente da quella dei musulmani: gli ultimi si impegnano attivamente nella guerra contro i cristiani; i primi ovunque sono disposti a rimanere in pace’. Ciò nondimeno, molti ebrei furono uccisi durante le crociate. Nel corso della Prima, della Seconda e della Terza Crociata ci furono attacchi forviati, disinformati o cinici verso gli ebrei; la Chiesa si oppose attivamente a questi attacchi e il clero locale intervenne spesso in difesa degli ebrei nelle loro comunità. San Bernardo di Clairvaux, nel predicare la Seconda Crociata disse ai soldati di Cristo: ‘Gli ebrei non devono essere perseguitati, uccisi o anche solo messi in fuga’. Quando un confratello monaco cistercense iniziò ad esortare i tedeschi a distruggere gli ebrei prima di muovere guerra ai musulmani, San Bernardo si recò personalmente per porvi fine. Come scriveva il rabbino Efraim di Bonn: Bernardo disse loro [ai crociati]: É bene che voi andiate contro gli ismaeliti [i musulmani]. Ma chiunque colpisca un ebreo per prendere la sua vita, è come uno che danneggia Cristo stesso… “. Quando i nostri nemici udirono le sue parole, molti di loro cessarono di congiurare per ucciderci… Non fosse stato per la misericordia del nostro creatore nel mandarci il summenzionato abate [Bernardo] e le sue ultime lettere, di Israele non sarebbe rimasto alcun resto o vestigia. Benedetto sia il redentore e salvatore, benedetto sia il suo nome. Le crociate furono una rovina per gli ebrei d’Europa poiché l’entusiasmo religioso che generavano comportava spesso attacchi popolari agli ‘infedeli’ in casa. Ma lo scopo delle crociate non fu mai quello di uccidere gli ebrei”. Il Duecento fu un secolo piuttosto travagliato per i rapporti tra i cristiani e gli ebrei. Il Concilio Laterano IV (1215) escluse gli ebrei da diverse cariche pubbliche nel puro rispetto del Diritto Romano; la richiesta che gli ebrei portassero segni distintivi ha portato inevitabilmente molti a ritenere che quel Concilio fosse già stato organizzato dagli eterni spiriti di Himmler e Goebbels. Invece, il portare segni distintivi fu ugualmente richiesto, nello stesso Concilio, a tutti i sacerdoti cristiani: chiunque doveva sapere chi si trovasse di fronte. Ancora Madden: “Per lo stesso motivo, le insegne degli ebrei erano pensate per avvertire i cristiani che inconsapevolmente potessero in qualche modo diventare intimamente familiari con un ebreo, cosa anch’essa proibita dal Diritto Romano”. Ci furono poi i problemi legati alla scoperta cristiana del Talmud, sorta di strana evoluzione dell’Antico Testamento. Leggiamo ancora lo studioso statunitense: “Il Talmud venne portato all’attenzione del papato nel 1239 in modo estremamente vigoroso, quando un ex ebreo, Nicholas Donin, informò Papa Gregorio IX di come esso fosse colmo di errori, bestemmie e eresie. Gregorio spedì una lettera ordinando ai sovrani secolari di confiscare la letteratura ebraica e consegnarla alle autorità ecclesiastiche affinché fosse studiata. L’anno successivo S. Luigi IX di Francia convocò presso la sua corte un concilio di rabbini per difendere il Talmud. Essi non riuscirono a convincere gli studiosi della Chiesa, i quali conclusero che il Talmud aveva soppiantato la Torah, conducendo il popolo ebraico ad abbandonare la Legge mosaica. Luigi ordinò la confisca delle copie del Talmud a Parigi. Alcuni anni dopo Papa Innocenzo IV, agendo in risposta ai reclami degli ebrei, ordinò una nuova indagine del Talmud. Ma la nuova commissione giunse alla medesima conclusione. Il Talmud era pieno di bestemmie contro Dio e contro la fede cristiana. A causa di queste conclusioni Innocenzo IV conservò nella legislazione canonica il diritto dei papi di agire per preservare l’ebraismo dall’eresia. All’apparenza ciò può sembrare assurdo, ma era del tutto coerente con la difesa di lunga durata degli ebrei da parte della Chiesa. S. Paolo e S. Agostino concordavano che gli ebrei dovessero essere rispettati, non per qualche anacronistico apprezzamento della diversità religiosa, ma perché erano una testimonianza verso la verità dell’Antico Testamento e il popolo eletto che un giorno sarebbe giunto alla salvezza attraverso Cristo: il Talmud colpiva il cuore di queste due giustificazioni. D’ora in avanti per i papi difendere gli ebrei non significò solo difendere i diritti degli ebrei e le persone, ma anche la purezza della fede degli ebrei. In pratica, comunque, le confische del Talmud sostenute dalla Chiesa furono rare”. Un punto dolente dei rapporti fra ebrei e inquisizione medievale riguardò problematiche di apostasia generate dai battesimi o dalle conversioni forzate che la Chiesa cattolica considerav
a nulle rispetto a quelle accettate in piena consapevolezza. Non a caso, i luoghi più sicuri per gli ebrei erano tutti nello Stato Pontificio: in molti altri stati, la durezza dei principi secolari nei loro confronti era notevole. Madden così conclude: “Potremmo certo desiderare che il rapporto tra la Chiesa cattolica medievale e gli ebrei fosse stato migliore, più amichevole, più moderno. Ma non era moderno, né dovevamo attenderci che lo fosse. E’ stato comunque un rapporto segnato dal rispetto reciproco e da un considerevole grado di tolleranza in un’epoca che conosceva poco di entrambi”. Venezia istituì, il 29 marzo 1516, il primo ghetto ebraico d’Europa. Dopo questa lunga sintesi, concludo a mia volta e ricordo a tutti coloro che oggi pensano a una Chiesa cattolica (o a un cristianesimo) con la svastica, che non solo Voltaire e Marx erano due agguerritissimi antisemiti, ma che inneggiare oggi al nuovissimo Jihad musulmano è solo l’ultima moda antisemita e, di conseguenza, anticristiana.

Moretta: Quali differenze ci sono tra le “teocrazie” del Medioevo e le “teocrazie” a noi contemporanee, verosimilmente individuabili in alcuni paesi islamici i cui capi di governo sono anche importanti autorità religiose?

Bertotti: Iniziamo col dire che “teocrazia” non è la stessa cosa di “ierocrazia”, ossia il “governo di Dio” non è il “governo dei sacerdoti”. Già nell’Egitto antico il potere assoluto era anche teocratico, nel senso che il Faraone era anche capo religioso così come il Basileus dell’Impero bizantino. Anche in Europa vi sono stati e vi sono esempi di re e imperatori che riuniscono in sé anche le supreme funzioni di capi religiosi: basterà citare il caso degli imperatori del Sacro Impero romano germanico e, buon ultimo, il re d’Inghilterra che è anche capo della chiesa anglicana. Il Papa, a sua volta, è “vicario” di Cristo ed è “regnante”. Al di là delle questioni relative al potere temporale della Chiesa, proprio Hegel, nelle sue “Lezioni sulla filosofia della storia” e “Lezioni sulla filosofia della religione” all’Università di Berlino, aveva individuato un momento di “sintesi” fra teocrazia e democrazia. Era la sua una sorta di nobilitazione del vecchio adagio “Vox populi vox Dei”, visto che, se la democrazia è il “governo del popolo” e la teocrazia è il “governo di Dio”, si può materializzare una speciale teofania perché il popolo sarebbe, in tal modo, un Dio reale. Tutto questo autentico “sofisma” hegeliano era tratto dal suo famoso assunto identitario, secondo cui tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale. Ma Hegel, non contento, andò anche oltre. Siccome nel Vangelo di Matteo (18, 20) è scritto: “Ubi enim sunt duo vel tres congregati in nomine meo ibi sum in medio eorum”, la riunione di uomini nel nome di Cristo renderebbe reale la Chiesa di Cristo stesso, dando pertanto origine alla realizzazione del “popolo di Dio” e quindi, per estensione del concetto, a uno Stato dove governa Dio stesso. Hegel, così come la maggior parte dei greci, era un autentico virtuoso del sofisma: com’è possibile che alla sua mente, così illuminata e onnipotente, sia potuto sfuggire il fatto che chi si riunisce in nome di Cristo non si tramuta per nulla in Cristo stesso? Non che Kant, nel suo scritto “La religione entro i soli limiti della ragione” (1793), avesse espresso tanto di meglio, visto che liquidò la Chiesa come puro ente dogmatizzante le forme di culto e liquidò Cristo come il latore di un messaggio del tutto uguale alla legge morale presente nell’uomo. Questo scritto ebbe enorme influenza sul giovane Hegel il quale, a partire da “Religione popolare e cristianesimo” (1794), iniziò una interminabile sequenza di aberrazioni e di deliri logico-storico-filosofici relativi all’argomento, assunti immediatamente a solari capisaldi del nuovo pensiero religioso moderno. La sofistica è l’unica effettiva misura della decadenza di una civiltà e noi, come la Grecia di allora, non abbiamo saputo eliminarla per tempo, pur conoscendo assai bene tutto il marcio di cui essa è sempre foriera. Questo excursus in ambiente illuministico non era evitabile poiché spiega, un’ennesima volta, come si può arrivare a pervertire il linguaggio, i concetti, i significati e i significanti, come direbbero i semiologi che oggi vedono la propria popolarità in grande calo. Ho la vaga sensazione che affidare la Storia a un filosofo sia come affidare la Fede a un biblista: e qui mi fermo. Discorso molto serio è invece quello inerente la celebre “dottrina delle due spade” di papa Gelasio (492-496 d.C.) in cui si parte da San Paolo e dal suo “Spiritalis autem (homo) iudicat omnia et ipse a nemine iudicatur” (I Cor. 2, 15). In tal caso, il potere temporale può essere esercitato solo sotto l’ègida di quello spirituale; il che non significa affatto “governo dei sacerdoti”, bensì un governo laico che abbia una legge sopra di sé, ossia la legge di Dio, oltre a una legge accanto a sé, ossia il Diritto naturale associato indissolubilmente a quello comune. In tal modo ogni individuo può essere libero fino in fondo allo stesso modo in cui una comunità lo può essere. Il resto è odioso individualismo e collettivismo. Gregorio VII spezzò con quella dottrina l’arroganza dell’imperatore Enrico IV; a Bonifacio VIII andò peggio perché fu un monarca terrorista come Filippo il Bello a spezzare quella stessa dottrina inaugurando, a suo modo, la nostra modernità. Per quanto ne possano dire i demagoghi degli ultimi tre secoli, il cristianesimo non fu mai neppure lontanissimo parente dell’integralismo musulmano, cementato invece dall’unione fra potere spirituale e potere temporale; se costoro hanno potuto diffondere i propri idolatrici vaneggiamenti politici, lo devono proprio a ciò che essi stessi odiano e tentano di distruggere fin dalle fondamenta: il loro ridicolo tentativo di equiparare Islàm e Cristianesimo quanto a fanatismo “ideologico”, non può che commentarsi da solo, se non altro per il fatto che essi ignorano totalmente e colpevolmente la storia propria e quella altrui. Il loro odio anticristiano è abominevole quanto il loro untuoso e laido vezzeggiamento nei confronti degli ebrei e dei musulmani, attuato per puri fini demagogici, salvo poi sostenere che Israele dovrebbe seguire il loro esempio, suicidandosi di fronte all’Islàm.

Moretta: Al Medioevo risalgono i lunghi, talvolta cruenti, contrasti tra L’Europa cristiana e il Medio Oriente musulmano animato da ricorrenti mire espansionistiche. Viene spontaneo chiedersi: vi è stato in detta età un vero scontro di civiltà? Ai nostri giorni gli attriti tra mondo occidentale e l’attuale Islàm non sono disgiunti dalle feroci diatribe legate al petrolio, eppure c’è chi parla di scontro di civiltà. Le chiedo: quel che sta accadendo oggi ha attinenza con quel passato medievale?

Bertotti: “Scontro di civiltà” è, a mio avviso, una forzatura concettuale. Sembra formulata appositamente da quei signori la cui unica occupazione è quella di stare alla finestra per vedere ciò che succede per strada sotto casa loro, credendosi, al tempo stesso, in un altro luogo. Mi permetta di anteporre, in questo caso, l’attualità al passato. Nessuno meglio di Carlo Panella, nel suo articolo “Il laicismo non sa e non vuole capire il terrorismo utopico”, pubblicato su “Tempi” il 27 settembre 2006, ha meglio illustrato “l’essenza escatologica, la dinamica rivoluzionaria, di massa, che segnano il cammino millenarista della rivoluzione iraniana e dei salafiti sunniti”. Si può infatti dire che, nei momenti in cui sciiti (ora Iran) e sunniti (ora Arabia Saudita) si sono trovati d’accordo, un attacco al Cristianesimo e, genericamente, all’Occidente è sempre stato inevitabile. Ripeto quanto ho detto: l’Islàm è nostro nemico perché, a tutti gli effetti, esso ci ha considerati suoi nemici giurati (assieme agli ebrei) fin dalla sua nascita, con buona pace di chi sostiene la non esistenza dei nemici, affermando in tal modo anche la non esistenza degli amici. Se i musulmani fossero tutti come Magdi Allam tutto sarebbe un Paradiso, ma così non è. Stanno persino nascendo comunità di ex musulmani, in varie parti del mondo, che, sopportando minacce e sofferenze inaudite, si sono lasciati alle spalle il Corano. Al contrario di alcuni dei nostri i quali, ben pasciuti e comodi, si sono convertiti all’Islàm per fare dispetto al Cristianesimo che, a loro dire, gli andava sempre stretto. Tornando invece al passato, non ripeterò quanto già detto quando abbiamo parlato delle Crociate di Terrasanta. Non vedo particolare attinenza con quel passato: vi fosse! Almeno potremmo dire di essere ancora una civiltà e potremmo dirlo altrettanto di loro; infatti essi furono una civiltà, pur nostra nemica giurata e mortale: avevano arti, scienza, potenza economica, militare e politica. Ora hanno il petrolio, la bomba atomica demografica, gli “shahid” che saltano in aria e il progetto trionfale della “purezza” della propria “razza”. Se Jussuf Salah ad-Din ibn Ayyub, meglio noto come il Saladino, li vedesse ora, possiamo scommettere o giurare che fuggirebbe via inorridito! Nondimeno, un Riccardo Cuor di Leone, visti noi, ci prenderebbe a frustate come si fa con i peggiori schiavi e, manco a dirlo, con ogni santa ragione. Milioni di musulmani continuano ancora oggi a ricordare, in vari luoghi pubblici, le gesta vittoriose dei loro guerrieri medievali contro i nostri Crociati: noi invece, meravigliosamente illuminati ed evoluti, berciamo in giro di come la nostra civiltà sia stata capace a produrre soltanto luoghi di sterminio; già solo per questo meritiamo la più spietata condanna da parte dei nostri avi. Vorrei precisare che è falso che i nostri attuali attriti con il mondo islamico siano legati al petrolio: agli Stati Uniti, in particolare, non interessa il petrolio in sé, bensì il potere di stabilirne prezzo sui mercati internazionali per non farsi scavalcare dall’Estremo Oriente; credo sia noto che alcuni paesi musulmani, piccoli e ricchi, collaborino in perfetta pace e sintonia con molti paesi occidentali. Gli errori degli Stati Uniti in Medio Oriente, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, sono stati macroscopici, dal momento che, fra l’altro, fu falciata una borghesia che stava ponendo basi piuttosto serie per un ammodernamento sociale complessivo: io mi chiedo però, più che legittimamente, se questi errori siano stati sufficienti a provocare quanto oggi ci sta investendo. La mia risposta è no: non sono stati sufficienti. Se poi si vuole continuare a non conoscere la geopolitica, scienza fondamentale, prendiamocela pure chi continua a non voler vedere e a non voler conoscere la realtà. Da tempo si sostiene, con leggerezza irresponsabile, che ogni azione umana dipenda soltanto da rapporti di forza economici: invece di studiare la geopolitica, troppi continuano a fare i pigmei moralisti con parole quali “colonialismo” e “imperialismo”, parole senza alcun senso e tipiche soprattutto della vecchia propaganda marxista-leninista.

Moretta: Mi conceda una domanda non proprio di Storia ma su “chi” si occupa di questo importante “sapere” ovvero su chi la studia, la scrive e la commenta. Mi sembra di aver intuito, da alcune sue riflessioni, che gli studiosi contemporanei che si occupano di Medioevo si trovino d’accordo sulla necessità di rimuovere i noti pregiudizi che anche in questa intervista abbiamo richiamato; tuttavia, sembrano esistere alcune divergenze tra gli addetti ai lavori: potrebbe illustrarle brevemente?

Bertotti: Le Crociate di Terrasanta fanno ancora una volta al caso nostro e costituiscono, per così dire, un paradigma. A volte gli accademici ragionano e interpretano pensando di essere al di sopra di tutto e tutti, ma mai (e lo dico intenzionalmente) al di sopra di sé stessi. Si pensa di dover essere per forza giudici inappuntabili, quasi salomonici; si pensa anche che una religione valga un’altra e che, in fin dei conti, tutto sia un bel calderone in cui mettere a bollire di tutto. Le faccio un esempio storico: Carlo Magno era in ottimi rapporti con i califfi abbasidi, ma non si sarebbe mai sognato di non combatterli. Nel suo “L’invenzione del nemico” (2006), Franco Cardini si produce in acrobazie che, in verità, non gli riescono troppo bene. Il libro sostiene che, in realtà, non ci sia mai stato uno scontro tra Cristianesimo e Islàm, fra Occidente e Oriente (ma già qui si confondono le carte…). Ci fu solo una serie di scambi fecondi, una “sostanziale parentela” in cui le Crociate furono solo un “fenomeno di superficie” o, addirittura, il pretesto per un incontro… Devo commentare? Insomma, tutto sarebbe leggenda, fantapolitica, con il Papato, sotto sotto, sempre responsabile della nostra aggressività (tesi dichiarata di Le Goff). Le Crociate sarebbero anch’esse, tutto sommato, un “epifenomeno”, un qualcosa da non prendere troppo sul serio. Torti di qua, torti di là: tutti a casa e chi s’è visto s’è visto. Queste posizioni sono false e denunciano anche quella che era la tesi fuorviante di Steven Runciman, il quale sosteneva che noi avremmo dovuto metterci tutti sotto la tutela del Basileus di Costantinopoli, attendendo così che i musulmani ci attaccassero e ci conquistassero definitivamente: tutto ciò è assolutamente inaccettabile anche solo per scherzo. Su quella Storia, fatta anche dal vivo sacrificio di migliaia di uomini grandissimi, non è permesso recitare commedie o avere sempre la posizione pilatesca del pur grande Ruggero II il Normanno. Le Goff, tra l’altro, sembra offendere anche la memoria e l’opera di tutti i più grandi storici francesi di inizio Settecento e di metà Ottocento che ci hanno consegnato intatte, con il lavoro di una vita, le fonti originali della storia medievale franca. Cardini non ha mai recato particolari offese: s’è però mostrato salomonico, spesso anche scettico. Sia chiaro: posizione rispettabilissima ma che rispecchia una falsa prudenza che mi ha sempre lasciato estremamente perplesso.

Moretta: Con la fine del Medioevo si apre una età nuova detta “Moderna”. Il telaio da stampa, la rivoluzione di Copernico, la scoperta dell’America, l’avvio del pensiero scientifico, ecc., sono solo alcuni degli eventi che segnano per l’uomo l’avvento di un nuovo modo di rapportarsi con la natura e con i propri simili. Per l’uomo si apre una grande stagione di conquiste, ma qualcuna lo è solo in modo apparente. Cosa perde l’uomo con scomparsa dei valori che aveva consolidato nel Medioevo?

Bertotti: L’uomo che perde Dio perde totalmente sé stesso. La modernità, ovviamente, non è solo illustrata da luoghi di sterminio. Cercherò di essere il più sintetico possibile: qualsiasi conquista, qualsiasi guadagno, qualsiasi progresso è assolutamente nullo se sopra di me non ho una legge, altra da me, ma che mi attraversi e mi renda vivo. Quei luoghi dell’obbrobrio, che spesso ho citato, sono stati resi possibili solo e soltanto da uomini fattisi dei da sé stessi e dalle folle che li hanno idolatrati, incorrendo nella loro medesima dannazione. Non bisogna mai provocare il Male; quando il povero Dietrich Bonhöffer, ottimo poeta, giocherellava con il suo vivere “etsi Deus non daretur”, mal gliene incolse. Ma che significherà mai la “maggiore età” dell’uomo, del cristiano? Ma che significherà mai quello squallido vezzo sofistico accademico di baloccarsi in dibattiti tra “dittatura del relativismo” e “nuove libertà democratiche”, così cari ai professori di fede neomarxista? Fino a quando potremo tollerare la presenza di questi sofisti, i loro predicozzi saccenti, i loro infingimenti intellettualoidi inesorabilmente vuoti? Di più: fino a quando tollereremo che essi siano pagati forzosamente con i nostri soldi? Qualcosa però sta cambiando: essi l’hanno avvertito e già strepitano e si agitano come morsi dalla tarantola. Anche loro sanno che ogni Carnevale, prima o poi, finisce. Tornando e concludendo: Dietrich Bonhöffer morì a Flossenburg; Maximilian Kolbe morì ad Auschwitz. Kolbe però non visse “etsi Deus non daretur”, rimase “minorenne”: anche nella morte, e soprattutto in essa, gli uomini, per l’ennesima volta, non sono uguali.

Moretta: Abbiamo esaminato molteplici aspetti della vita sociale, economica e culturale dell’uomo medievale. Le differenze rispetto all’uomo della nostra età storica, detta post-modernità, non sono poche; una volta ripristinate alcune verità storiche, ritiene sia possibile un utile confronto tra questi due lontani (ma non troppo) sistemi spazio-temporali? Esulando parzialmente dalla dimensione “storica” e investendo parzialmente quella “etica” le chiedo: è pensabile una qualche forma di integrazione, di recupero ex-post di tutto ciò che di “buono” ci lasciato il Medioevo?

Bertotti: Nulla è mai perduto per sempre. Essendo radicalmente convinto che dal Medioevo possiamo soltanto imparare, figurarsi se non auspico di tutto cuore il confronto di cui lei parla! Mi piace anche molto la sua locuzione relativa ai “sistemi spazio-temporali”. Io, in realtà, sono a tutti gli effetti un “peregrinus”, un viaggiatore che ha sempre travalicato agevolmente le barriere spazio-temporali: non si tratta assolutamente di un merito, ma di un dono che desidero costantemente onorare anche attraverso la mia personale testimonianza. In questo, però, non c’è nulla di “virtuale”, non c’è alcun compiacimento: è un piacere concreto, gioioso e a volte anche amaro. L’essere musicista e libero artista ha giocato un ruolo non secondario in tutto questo. A esser veritieri, questo dono non è affatto elitario, tutt’altro: gran parte degli esseri umani si dimentica semplicemente di averlo dentro di sé e preferisce inseguire chimere idealistiche congegnate da altri e caratterizzate da un enorme potere distruttivo; quanto alla dimensione etica cui lei si riferisce, le confesso che l’ho sempre percepita come un campo minato e non solo per la comparsa dei moderni e famigerati “Stati etici”. Potrebbe ritenersi “etico” un recupero ex-post delle migliori tradizioni medievali? In un ambito civile che conoscesse come le sue tasche Aristotele o San Tommaso d’Aquino se ne potrebbe anche parlare, ma sappiamo che non è questa la nostra attuale condizione. L’etica è considerata una branchia della filosofia e come tale è stata anche terreno di caccia dei sofisti di ogni tempo. C’è anche la cosiddetta filosofia morale, c’è l’etica “descrittiva”, “normativa”, “soggettiva”, “oggettiva” e mille altre che non è neppure il caso di menzionare. Un fatto però è certo: quando si legge l’Etica Nicomachea si respira profondamente; leggendo altro, molte persone sane si sentono troppo spesso soffocare e percepiscono molto bene una sensazione di perdita di tempo. Gettata la religione alle ortiche, viviamo ormai per distinguere e per sofisticare su ogni cosa, non intuendo che una simile condotta sarà pagata a carissimo prezzo domani, non in un futuro remoto.

Moretta: Da alcune sue riposte in questa lunga intervista appare evidente che quando lei accenna all’idea di “oscurantismo” lo fa soprattutto pensando all’Età Moderna, rovesciando il più trito dei luoghi comuni inerenti il Medioevo. Credo che non si tratti semplicemente un gioco linguistico, né una provocazione ideologica in senso lato, ma di qualcosa di più serio. Sbaglio?

Bertotti: Non sbaglia affatto. Se il Cinquecento già non brillava, il Settecento fu il secolo delle tenebre: solo il Novecento gli avrebbe tolto quel poco invidiabile primato. Sto parlando sempre e soprattutto di tenebre dello spirito. L’ho già ricordato: se si vuole conoscere il Settecento bisogna leggere tutte le opere di Sade; non c’è rimedio né perdono. Sade è stato il grande veggente: è stato colui che ha quasi “inventato” il Novecento e ogni suo orrore. E’ stato un grande Lucifero della letteratura, uno che sapeva di non essere un “filosofo” ma, in realtà, di esserlo più di ogni altro suo compatriota. Nessuno ha saputo raccontare meglio di lui alcune dinamiche del crollo dell’Ancient Régime, le orgie sanguinarie della Rivoluzione, la distruzione sistematica dell’aristocrazia, l’elevazione della Ragione a nuova massima Dea, assieme al trionfo dell’ateismo. Lo sapeva bene Jean-Jacques Pauvert, il suo massimo biografo ed editore a partire dal 1946. Alexis de Tocqueville, per sua e nostra fortuna, non fu un “filosofo” della risma di Rousseau, tanto per fare il primo illustre esempio: il suo “L’Ancient Régime et la Révolution” (1856) è ancora oggi un’opera insostituibile per capire a chi giovò lo snodo cruciale del 1789 e come se ne servì. Ma io non ho alcuna nostalgia di quella aristocrazia decaduta per mille sue colpe; non sono nostalgico di nulla, né posso sottrarmi sic et simpliciter al tempo in cui sono nato e di cui, a mio modo e non solo, devo essere testimone.

Moretta: E’ stato davvero un piacere attraversare con lei, grazie alla forma dialogata consentita dal mezzo informatico, ben mille anni di storia. Ho rivisitato, con occhio più attento, rispetto a tanti anni fa, le nozioni imparate a scuola (e studiate, ahimè, con impegno alterno). Ho avuto così l’opportunità di inquadrare molti aspetti riguardanti il Medioevo in maniera più aggiornata e convincente, in maniera cioè da capire quanti stupidi pregiudizi meritino ancora definitiva rimozione. Nel renderle omaggio per le cose belle e originali che detto, non le pongo una domanda, bensì la invito a trarre qualche breve conclusione.

Bertotti: Come una sorta di cerchio che si chiude, desidero ricordare la grande storica francese Régine Pernoud, citando un episodio emblematico tratto dalla prefazione del suo insostituibile “Medioevo. Un secolare pregiudizio” (1977). Régine, allora direttrice del Musée de l’Histoire de France di Parigi, era stata contattata da una brillante documentarista delle televisione transalpina; costei, pur essendo addetta alla documentaristica storica, le domandò: “Mi dicono che avete lì delle diapositive: ne avete che rappresentino il Medioevo?”. Régine rimase interdetta e la scanzonata interlocutrice proseguì: “Ma sì, che diano l’idea del Medioevo in generale; sa, le uccisioni, i massacri, le scene di violenza, le carestie, le epidemie…”. Régine scoppiò a ridere ma fu subito ferita nel profondo dell’anima, tanto da ribellarsi dicendo lapidariamente a sé stessa (e a tutti noi): “[…] ciò era ingiusto”. La documentarista aveva tratteggiato il Settecento o il Novecento, non certo il Medioevo. La quarta nota alla fine della prefazione riportava: “Esecuzioni di una ferocia quasi medievale”, frase di un giornalista di allora. Régine commentava: “Assaporiamo questo: quasi. Certo, nel secolo dei campi di concentramento, dei forni crematori, del Gulag, come non restare inorriditi davanti alla ferocia dei tempi in cui si scolpiva il portale di Reims o quello di Amiens!”. Ma quel povero giornalista demente, nonché tutti coloro che ancora oggi continuano a diffamare i Secoli della Luce, senza mai pagare di persona per questi loro crimini ideologici, quale scuola hanno frequentato? Chi ha insegnato loro la Storia della civiltà d’Occidente? Chi ha insegnato loro cosa siano Verità e Bellezza? Qualcuno avrà anche solo accennato loro che cosa sia la Fede in Cristo, la Potenza dell’atto creativo, l’arte della costruzione? A queste mie domande può rispondere ormai tranquillamente il lettore che ci ha seguiti fin qui: io ho già risposto. Mi permetta in conclusione di rivolgerle il mio più caloroso ringraziamento, poiché questo colloquio, nato da una sua ben precisa proposta, ha permesso di dimostrare come iniziative del genere siano ormai indispensabili persino in altri campi: in ogni caso, l’iniziativa individuale è forse l’unica a potersi definire autenticamente libera. Auguro agli studenti di ogni ordine e grado di coltivare sempre lo studio della Storia, soprattutto di quella che la scuola odierna non vorrà far loro conoscere o, se lo vorrà, la offrirà loro come un cibo avariato. Spero che in loro il desiderio di ricerca e la sete di verità siano tanto potenti da spingerli a considerare il passato che li circonda come qualcosa di assolutamente vivo: essi non devono diventarne i “medici legali” di domani. Non devono, nel modo più assoluto, giudicare il passato pensando di essere giunti su chissà quali vette assolate, bensì avvertendo di essere sprofondati in luoghi non molto salubri. Non dimentichiamoci, però, i doveri dei docenti; nella scuola moderna, per quanto riguarda lo studio del nostro passato, essi sono stati, in molti casi, l’incarnazione del seguente paradigma: imparare, giudicare e insegnare. Non si può dare errore peggiore; mi permetto pertanto di consigliare, a voce alta, un paradigma ben diverso: conoscere, amare e trasmettere. Auguro infine a tutti coloro che ci leggeranno di percepire dentro di sé l’importanza di quanto abbiamo loro offerto, se non altro in termini di confronto e di ulteriore purificazione della memoria: il Medioevo ne ha davvero pieno e sacrosanto diritto.

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