Lucia la martire

Jacobello del Fiore, Santa Lucia al sepolcro di sant’Agata, 1410

di Maria Stelladoro.

Il martirio incomincia con la visita di Lucia assieme alla madre Eutichia, al sepolcro di Agata a Catania, dove le due donne si recano in pellegrinaggio per impetrare la guarigione dalla malattia da cui era affetta la madre: un inarrestabile flusso di sangue dal quale non era riuscita a guarire neppure con le dispendiose cure mediche, alle quali si era sottoposta. Lucia ed Eutichia partecipano alla celebrazione eucaristica durante la quale ascoltano proprio la lettura evangelica sulla guarigione di un’emorroissa. Lucia, quindi, incita la madre ad avvicinarsi al sepolcro di Agata e a toccarlo con assoluta fede e cieca fiducia nella guarigione miracolosa per intercessione della potente forza dispensatrice della vergine martire. Lucia, a questo punto, è presa da un profondo sonno che la conduce ad una visione onirica nel corso della quale le appare Agata che, mentre la informa dell’avvenuta guarigione della madre le predice pure il suo futuro martirio, che sarà la gloria di Siracusa così come quello di Agata era stato la gloria di Catania. Al ritorno dal pellegrinaggio, proprio sulla via che le riconduce a Siracusa, Lucia comunica alla madre la sua decisione vocazionale: consacrarsi a Cristo! A tale fine le chiede pure di potere disporre del proprio patrimonio per devolverlo in beneficenza. Eutichia, però, non vuole concederle i beni paterni ereditati alla morte del marito, avendo avuto cura non solo di conservarli orgogliosamente intatti e integri ma di accrescerli pure in modo considerevole. Le risponde, quindi, che li avrebbe ereditati alla sua morte e che solo allora avrebbe potuto disporne a suo piacimento. Tuttavia, proprio durante tale viaggio di ritorno, Lucia riesce, con le sue insistenze, a convincere la madre, la quale finalmente le da il consenso di devolvere il patrimonio paterno in beneficenza, cosa che la vergine avvia appena arrivata a Siracusa. Però, la notizia dell’alienazione dei beni paterni arriva subito a conoscenza del promesso sposo della vergine, che se ne accerta proprio con Eutichia alla quale chiede anche i motivi di tale imprevista quanto improvvisa vendita patrimoniale. La donna gli fa credere che la decisione era legata ad un investimento alquanto redditizio, essendo la vergine in procinto di acquistare un vasto possedimento destinato ad assumere un alto valore rispetto a quello attuale al momento dell’acquisto e tale da spingerlo a collaborare alla vendita patrimoniale di Lucia. In seguito il fidanzato di Lucia, forse esacerbato dai continui rinvii del matrimonio, decide di denunciare al governatore Pascasio la scelta cristiana della promessa sposa, la quale, condotta al suo cospetto è sottoposta al processo e al conseguente interrogatorio. Durante l’agone della santa e vittoriosa martire di Cristo Lucia, emerge la sua dichiarata e orgogliosa professione di fede nonché il disprezzo della morte, che hanno la caratteristica di essere arricchiti sia di riflessioni dottrinarie sia di particolari sempre più cruenti, man mano che si accrescono i supplizi inflitti al fine di esorcizzare la v. e m. dalla possessione dello Spirito santo. Dopo un interrogatorio assai fitto di scambi di battute che la vergine riesce a contrabbattere con la forza e la sicurezza di chi è ispirato da Cristo, il governatore Pascasio le infligge la pena del postrìbolo proprio al fine di operare in Lucia una sorta di esorcismo inverso allontanandone lo Spirito santo. Mossa dalla forza di Cristo, la vergine Lucia reagisce con risposte provocatorie, che incitano Pascasio ad attuare subito il suo tristo proponimento. La vergine, infatti, energicamente gli dice che, dal momento che la sua mente non cederà alla concupiscenza della carne, quale che sia la violenza che potrà subire il suo corpo contro la sua volontà, ella resterà comunque casta, pura e incontaminata nello spirito e nella mente. A questo punto si assiste ad un prodigioso evento: la vergine diventa inamovibile e salda sicché, nessun tentativo riesce a trasportarla al lupanare, nemmeno i maghi appositamente convocati dallo spietato Pascasio. Esasperato da tale straordinario evento, il cruento governatore ordina che sia bruciata, eppure neanche il fuoco riesce a scalfirla e Lucia perisce per spada! Sicché, piegate le ginocchia, la vergine attende il colpo di grazia e, dopo avere profetizzato la caduta di Diocleziano e Massimiano, è decapitata.

Alcuni motivi agiografici comuni ricorrono in questo racconto: l’invito da parte del governatore di sacrificare agli dei pagani; il fermo rifiuto da parte della vergine; la dichiarata professione di fede; il sacrificio della sua stessa carne a Dio; l’evento miracolistico e infine la morte.

Pare che Lucia abbia patito il martirio nel 304 sotto Diocleziano ma vi sono studiosi che propendono per altre datazioni: 303, 307 e 310. Esse sono motivate dal fatto che la profezia di Lucia contiene elementi cronologici divergenti che spesso non collimano fra loro: per la pace della chiesa tale profezia si dovrebbe riferire al primo editto di tolleranza nei riguardi del cristianesimo e quindi sarebbe da ascrivere al 311, collegabile, cioè, all’editto di Costantino del 313; l’abdicazione di Diocleziano avvenne intorno al 305; la morte di Massimiano avvenne nel 310. È, invece, accettata dalla maggioranza delle fonti la data relativa al suo dies natalis: 13 dicembre. Eppure, il Martirologio Geronimiano ricorda Lucia di Siracusa in due date differenti: il 6 febbraio e il 13 dicembre. L’ultima data ricorre in tutti i successivi testi liturgici bizantini e occidentali, tranne nel calendario mozarabico, che la celebra, invece, il 12 dicembre. Nel misterioso calendario latino del Sinai il dies natalis di Lucia cade l’8 febbraio: esso fu redatto nell’Africa settentrionale e vi è presente un antico documento della liturgia locale nel complesso autonoma sia dalla Chiesa di Costantinopoli che da quella di Roma, pur rivelando fonti comuni al calendario geronimiano. Probabilmente la presenza di Agata e di Lucia nel Sinaitico risale ad una di tali fonti, forse un calendario liturgico di origine siciliana, la cui utilizzazione nel Sinaitico potrebbe essere considerata come una testimonianza delle relazioni liturgiche dirette tra le chiese locali di Sicilia e d’Africa.

Un insieme di elementi (il viaggio di Eutichia e di Lucia a Catania; il sogno di Lucia; l’insistenza della corrispondenza del culto che Lucia ha con quello già tributato ad Agata) rivela come intento dell’autore sia stato quello di riallacciarsi alla Passio di Agata, conferendo alla martire di Siracusa la stessa importanza della vergine martirizzata a Catania. Infatti, Agata, apparsa in sogno a Lucia che si era assopita in prossimità del suo sepolcro, le profetizza, già all’inizio, sia il suo martirio sia la guarigione della madre, ottenuta poi per gli stessi meriti della figlia Lucia, di cui Agata consacra la castità a Cristo. Nella parte finale Lucia ripete quasi le stesse parole di Agata, rimarcando quanto era stato detto all’inizio, cioè la connessione Agata-Lucia e quindi Catania-Siracusa. Pare anzi che, nella Passio, Lucia dipenda da Agata dal momento che quest’ultima ne garantisce e ne promuove la santità. Ma, come si spiega tale dipendenza se, per alcuni, la sede episcopale di Siracusa godeva all’epoca di un maggiore prestigio e di una maggiore autorità rispetto a quella di Catania?

Gli atti del martirio di Lucia di Siracusa sono stati rinvenuti in due antiche e diverse redazioni: l’una in lingua greca il cui testo più antico -allo stato attuale delle ricerche- risale al sec. V; l’altra, in quella latina, riconducibile alla fine del sec. V o agli inizi del sec. VI ma comunque anteriore al sec. VII e che di quella greca pare essere una traduzione.

La più antica redazione greca del martirio contiene una leggenda agiografica edificante, rielaborata da un anonimo agiografo due secoli dopo il martirio sulla tradizione orale e dalla quale è ardua impresa sceverare dati storici. Infatti, il documento letterario vetustiore che ne tramanda la memoria è proprio un racconto del quale alcuni hanno messo addirittura in discussione la sua attendibilità. Si è giunti così, a due opposti risultati: l’uno è quello di chi l’ha strenuamente difesa, rivalutando sia la storicità del martirio sia la legittimità del culto; l’altro è quello di chi l’ha del tutto biasimata, reputando la narrazione una pura escogitazione fantasiosa dell’agiografo ma non per questo mettendo in discussione la stessa esistenza storica della v. e m., come sembrano comprovare le numerose attestazioni devozionali, cultuali e culturali in suo onore.

Sia la redazione in greco sia quella in latino degli atti del martirio hanno avuto da sempre ampia e ben articolata diffusione, inoltre entrambe si possono considerare degli archetipi di due differenti ‘rami’ della tradizione: infatti, dal testo in greco sembrano derivare numerose rielaborazioni in lingua greca, quali le Passiones più tardive, gli Inni, i Menei, ecc.; da quello in latino sembrano, invece, mutuare le Passiones metriche, i Resumé contenuti nei Martirologi storici, gli Antifonari, le Epitomi comprese in più vaste opere, come ad es. nello Speculum historiale di Vincenzo da Beauvais o nella Legenda aurea di Iacopo da Varazze.

I documenti rinvenuti sulla Vita e sul martirio sono ascrivibili al genere delle passioni epiche in quanto i dati attendibili sono costituiti solo dal luogo e dal dies natalis. Infatti, negli atti greci del martirio si riscontrano elementi che appartengono a tutta una serie di composizioni agiografiche martiriali, come ad es. l’esaltazione delle qualità sovrumane della martire e l’assenza di ogni cura per l’esattezza storica. Tuttavia, tali difetti, tipici delle passioni agiografiche, nel testo greco di Lucia sono temperate e non spinte all’eccesso né degenerate nell’abuso. Proprio questi particolari accostano gli atti greci del martirio al genere delle passioni epiche.

Ricordava Enrica Follieri che è molto probabile che la redazione più antica degli atti greci del martirio di Lucia sia stata vergata in Sicilia, forse nella stessa città di Siracusa, attestando dunque uno stadio in cui il culto di Lucia era ancora locale. Infatti, il più antico atto martiriale in greco, risalente al sec. V, presenta uno scarto cronologico di circa due secoli dal martirio. Esso, malgrado faccia riscontrare al suo interno un certo verbale del processo, tuttavia è pur sempre una testimonianza tardiva collegabile a Passiones stilate perlopiù a scopo devozionale e/o liturgico come sembrano comprovare gli elementi topici: l’arresto, l’interrogatorio, il martirio e la morte. La redazione latina pare essere anteriore al sec. VII (ultimo quarto) e, quindi di poco posteriore a quella greca a cui pare strettamente connessa, anzi le due redazioni (sia quella greca che quella latina) sembrano pure riflettere il bilinguismo della Sicilia del periodo. Ma potrebbe anche essere che la redazione latina risalga ad epoca successiva, quando, cioè, il culto della martire fu promosso dalla chiesa di Roma e si diffuse in tutta l’area occidentale.

Sul piano espositivo l’andamento è suggestivo ed avvincente, non mancando di trasmettere al lettore emozioni e resoconti agiografici inconsueti attraverso un racconto che si snoda su un tessuto narrativo piuttosto ricco di temi e motivi di particolare rilievo, che affronteremo nel presente volume e che, per amore di completezza, di seguito elenchiamo: il pellegrinaggio alla tomba di Agata (con il conseguente accostamento Agata/Lucia e Catania/Siracusa); il sogno, la visione, la profezia e il miracolo; il motivo storico; l’integrità del patrimonio familiare; la lettura del Vangelo sull’emorroissa; la vendita dei beni materiali, il Carnale mercimonium e la condanna alla prostituzione: all’integrità del patrimonio familiare è assimilato,infatti, il possesso inalienabile del proprio corpo per cui anche la condanna al postrìbolo rappresenta una legge di contrappasso sicché la giovane donna che ha dilapidato il patrimonio familiare è ora giustamente condannata a disperdere pure l’altro patrimonio materiale, rappresentato dal proprio corpo attraverso un’infamante condanna, direttamente commisurata alla colpa commessa; infine, la morte. Come si vede, è stretta la connessione tra la dissipazione del patrimonio familiare e la prostituzione, cosa che riflette una mentalità ben connotata che si riscontra già nel mondo greco, ad es. nell’accusa di Eschine a Timarco. Nuovo è, invece, il motivo della spontanea donazione del proprio patrimonio ai più bisognosi: per il suo gesto di devoluzione dei beni materiali, il fidanzato rimprovera Lucia di avere dissipato il patrimonio paterno con uomini depravati e pertanto l’accusa di essere diventata, per così dire, una meretrice. La dilapidazione del patrimonio paterno è, quindi, per Pascasio motivo d’imputazione e pertanto è non solo associata ma anche assimilata alla dissolutezza dei costumi ed è proprio tale assimilazione che prelude alla condanna al postrìbolo e poi a quella finale per spada.

Dal punto di vista stilistico non si può fare a meno di notare la linearità del tessuto narrativo degli atti greci del martirio del sec. V (BHG 995) e, per contro, l’artificiosità di quello del martirio bizantino (BHG 995d). Eppure esiste un rapporto di interdipendenza tra le due Passiones in greco, infatti, quella più tarda è caratterizzata da una lingua e da uno stile enfatico che talora sembra riecheggiare e riprodurre quello del testo più arcaico. Pertanto, pur essendo identici i fatti esposti, è tuttavia diverso il dettato in quanto nella Passio bizantina si segue il procedimento letterario dell’amplificatio retorica e lo schema tipico del panegirico, risultandone un testo molto più lungo e particolareggiato, esposto pure in un tono fabuloso, tuttavia assai gradito, e nel quale c’è un profluvio di divagazioni, citazioni e leziosaggini.

Ma, chi è Lucia di Siracusa? È esistita veramente o è la trasposizione di un simbolo? Perché questo nome e la sua commemorazione il tredici dicembre, anche se non mancano altre date celebrative? Sono solo funzionali rispetto ad un evento? Come sono nate? Quali le usanze e le tradizioni legate a lei nei vari paesi?

Assieme alla vergine e martire Agata, morta a Catania 53 anni prima ma oriunda da Palermo, Lucia, donna di eccezionale bellezza ed elevata estrazione sociale, costituisce il binomio agiografico più significativo e celebre di quelle eroine che, con il loro martirio, subìto in difesa della verginità e della fede, gloriarono la Sicilia. Eppure, a differenza di Agata, Lucia esemplifica il modello cristiano di chi nega la propria famiglia e dona tutti i propri averi alla chiesa e ai poveri, caratteristico fenomeno poi frequente tra le clarissimae feminae. Secondo la tradizione e la pia devozione popolare, Lucia patì il martirio a Siracusa mercoledì 13 dicembre del 304 sotto Diocleziano, cioè lo stesso anno in cui martedì 12 agosto a Catania era stato giustiziato il giovanissimo martire volontario Euplo/Euplio.

Assai diffusa è a tutt’oggi la celebrazione del culto di Lucia quale santa patrona degli occhi. Ciò sembra suffragato anche dalla vasta rappresentazione iconografica, che, tuttavia, è assai variegata, in quanto nel corso dei secoli e nei vari luoghi si è arricchita di nuovi simboli e di varie valenze. Ma è stato sempre così? Quando nasce in effetti questo patronato e perché? Dal Medioevo si va sempre più consolidando la taumaturgia di Lucia quale santa patrona della vista e dai secc. XIV-XV si fa largo spazio un’innovazione nell’iconografia: la raffigurazione con in mano un piattino (o una coppa) dove sono riposti i suoi stessi occhi. Come si spiega questo tema? È, forse, passato dal testo orale all’iconografia? Oppure dall’iconografia all’elaborazione orale? Quale l’origine di un tale patronato? Esso è probabilmente da ricercare nella connessione etimologica e/o paretimologica di Lucia a lux, molto diffusa soprattutto in testi agiografici bizantini e del Medioevo Occidentale. Ma, quali i limiti della documentazione e quali le cause del proliferare della tradizione relativa all’iconografia di Lucia, protettrice della vista? Si può parlare di dilatazione dell’atto di lettura nell’immaginario iconografico, così come in quello letterario? E tale dilatazione nei fenomeni religiosi è un atto di devozione e fede? È pure vero che la semantica esoterica data al nome della v. e m. di Siracusa è la caratteristica che riveste, accendendola di intensa poesia, la figura e il culto di Lucia, la quale diventa, nel corso dei secoli e nei vari luoghi una promessa di luce, sia materiale che spirituale. E proprio a tale fine l’iconografia, già a partire dal sec. XIV, si fa interprete e divulgatrice di questa leggenda, raffigurando la santa con simboli specifici e al tempo stesso connotativi: gli occhi, che Lucia tiene in mano (o su un piatto o su un vassoio), che si accompagnano sovente alla palma, alla lampada (che è anche uno dei simboli evangelici più diffuso e più bello, forse derivato dall’arte sepolcrale) e, meno frequenti, anche ad altri elementi del suo martirio, come ad es. il libro, il calice, la spada, il pugnale e le fiamme. È anche vero che le immagini religiose possono essere intese sia come ritratti che come imitazione ma non bisogna dimenticare che prima dell’età moderna sono mancati riferimenti ai suoi dati fisiognomici, per cui gli artisti erano soliti ricorrere alla letteratura agiografica il cui esempio per eccellenza è proprio la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze, che rappresenta il testo di riferimento e la fonte di gran parte dell’iconografia religiosa. In tale opera il dossier agiografico di Lucia -che si presenta come un testo di circa tre pagine di lunghezza- è preceduto da un preambolo sulle varie valenze etimologiche e semantiche relative all’accostamento Lucia/luce: Lucia è un derivato di luce esteso anche al valore simbolico via Lucis, cioè cammino di luce.

I genitori di Lucia, essendo cristiani, avrebbero scelto per la figlia un nome evocatore della luce, ispirandosi ai molti passi neotestamentari sulla luce. Tuttavia, il nome Lucia in sé non è prerogativa cristiana, ma è anche il femminile di un nome latino comune e ricorrente tra i pagani. Se poi Lucia significhi solo «luce» oppure più precisamente riguarda i «nati al sorger della luce (cioè all’alba)», rivelando nel contempo anche un dettaglio sull’ora di nascita della santa, è a tutt’oggi, un problema aperto. Forse la questione è destinata a restare insoluta? Il problema si complica se poi si lega il nome di Lucia non al giorno della nascita ma a quello della morte (=dies natalis): il 13 dicembre era, effettivamente, la giornata dell’anno percentualmente più buia. Per di più, intorno a quella data, il paganesimo romano festeggiava già una dea di nome Lucina. Queste situazioni hanno contribuito ad alimentare varie ipotesi riconducibili, tuttavia, a due filoni: da un lato quello dei sostenitori della teoria, secondo la quale tutte le festività cristiane sarebbero state istituite in luogo di preesistenti culti pagani, vorrebbero architettata in tale modo anche la festa di Lucia (come già quella di Agata). Per i non credenti tale discorso può anche essere suggestivo e accattivante, trovando terreno fertile. Da qui a trasformare la persona stessa di Lucia in personaggio immaginifico, mitologico, leggendario e non realmente esistito, inventato dalla Chiesa come calco cristiano di una preesistente divinità pagana, il passo è breve (persino più breve delle stesse già brevi e pallide ore di luce di dicembre!). Dall’altro lato quello dei credenti,secondo i quali, invece, antichi e accertati sono sia l’esistenza sia il culto di Lucia di Siracusa, che rappresenta così una persona storicamente esistita, morta nel giorno più corto dell’anno e che riflette altresì il modello femminile di una giovane donna cristiana, chiamata da Dio alla verginità, alla povertà e al martirio, che tenacemente affronta tra efferati supplizi.

Nel corso dei secoli Lucia è stata oggetto di parecchie e accurate indagini, che hanno identificato nel suo dossier agiografico un denso nucleo di problemi, che di seguito schematizziamo e per la cui trattazione rimandiamo agli appositi capitoli del presente studio: l’anno e la data del martirio della vergine, che variamente oscilla; la divergenza tra le due redazioni del martirio; la traslazione delle reliquie di Lucia a Venezia, ove a tutt’oggi sono conservate; l’accostamento –a partire dal sec. VII- di Lucia di Siracusa alla devozione per un’altra Lucia (fittizia?) di Roma, rivendicata come santa locale di tradizione latina; il curioso silenzio sul martirio di Lucia nelle fonti contemporanee o successive alla grande persecuzione dioclezianea.

Nel 2004 è stato proclamato a Siracusa, Venezia ed in quasi tutto il mondo l’Anno Luciano per la commemorazione del XVII Centenario del martirio della v. e m siracusana, celebrato ovunque con numerose iniziative. Ne ricordiamo alcune, tra le principali: a Venezia il 13 dicembre si è celebrato sia il centenario del glorioso martirio di s. Lucia, sia gli ottocento anni della presenza e della venerazione del glorioso corpo portatovi da Bisanzio nel 1204 dal doge Enrico Dandolo. Per l’occasione è giunto a Venezia il pellegrinaggio diocesano, annunciato dall’arcivescovo di Siracusa mons. Giuseppe Costanzo per l’Anno Luciano, di 600 fedeli con uno speciale treno organizzato dall’UNITALSI di Venezia. Ma, l’evento più importante per la pia devozione popolare è stato il ritorno, dopo 965 anni, del corpo di s. Lucia, anche se per una settimana, a Siracusa accompagnato dal vicario episcopale mons. Orlando Barbaro, dal parroco don Renzo Scarpa e dall’incaricato per le reliquie don Giuseppe Costantini. A Siracusa è stato realizzato il primo e unico film su Lucia dalla Film-Commission della Provincia regionale di Siracusa, con la collaborazione dell’Assessorato Regionale ai Beni culturali, dell’Azienda di Turismo di Siracusa e delle Diocesi di Piazza Armerina e Siracusa. Oltre al prodigioso evento cinematografico, la ricorrenza del 1700° Anniversario del Martirio della santa, è stata commemorata da un evento filatelico di rilevanza assai notevole: il 6 novembre 2004 è stato emesso un francobollo, dedicato a s. Lucia, del valore di 0,45 euro e con una tiratura di tre milioni e cinquecentomila esemplari; riproduce un particolare della pala d’altare realizzata per la chiesa fiorentina di Santa Lucia de’ Magnoli tra il 1445 ed il 1448 da Domenico Veneziano (1400-1461) ed esposta nella Galleria degli Uffizi di Firenze. Nel comune di Castrocielo, di cui Lucia è patrona, nella Parrocchia di S. Lucia, per interessamento di don Tonino Grossi, il 12 marzo del 2005 si è svolta la seconda giornata di studio: Lucia di Siracusa (304-2004). Patrona di Castrocielo. Aspetti agiografici e martirologici. Analoga iniziativa è stata celebrata a Catania e a Siracusa, dove, l’1 e il 2 ottobre 2004, è stato organizzato un Convegno di Studi a cura di Teresa Sardella e Gaetano Zito: Euplo e Lucia 304-2004. Agiografia e tradizioni cultuali in Sicilia.

Il motivo letterario della condanna al postrìbolo di una vergine è assai antico e affonda le sue radici nell’Egitto, ma lo si riscontra anche nel mondo greco e precisamente nella storiografia di Erodoto e nel romanzo ellenistico di matrice erotica, da dove poi attraverso vari canali si diffuse anche nell’agiografia fino a divenirne un topos. Si può forse pensare ad una sorta di continuità tra narrazione pagana e narrazione cristiana? A nostro avviso, il motivo letterario della condanna al postribolo di una vergine rappresenta un’evoluzione nel genere narrativo che, muovendo dal mondo pagano, o si arricchisce di nuovi elementi o rielabora e risemantizza quelli preesistenti di matrice pagana conformemente alla nuova realtà venutasi a creare con la diffusione della religione cristiana.

Il motivo della vergine, del postribolo e della condanna alla prostituzione assume nell’agiografia una letteraria forma semplice con una funzione ineguale -rispetto, cioè, a quella che aveva assunto nel romanzo greco- e che nell’agiografia è pienamente confacente ad una concezione della verginità del tutto eterogenea. Infatti, il concetto di verginità è strettamente connesso con le ideologie dei due diversi generi letterari: nel romanzo ellenistico rappresenta solo uno dei tanti ostacoli che si frappongono al riavvicinamento degli innamorati; nell’agiografia assolve ad una duplice funzione: da un lato contribuisce al rovesciamento della valenza di ostacolo, che non si interpone più al ricongiungimento con un innamorato terreno ma si inserisce per contro nella tappa del percorso che conduce la vergine al connubio con il suo sposo celeste, cioè Cristo; dall’altro, invece, si lega al motivo del suicidio della vergine e conseguentemente all’atteggiamento del pensiero cristiano nei confronti di questa arbitraria scelta martiriale che indubbiamente stabilisce norme di comportamento.

Nell’antica civiltà egiziana il tema narrativo della prostituzione forzata di una vergine si riallaccia all’episodio di due donne vittime della ragion di stato. Infatti, sia il re Rapsinito sia il re Cheope rinchiudono entrambe le figlie in un lupanare ma per motivi ben diversi: Rapsinito, che è un buon re al quale sta a cuore la prosperità e il benessere dell’Egitto, al fine di scoprire chi sia stato a rubare le proprie ricchezze e quindi la vicenda ha un felice epilogo e si conclude con il lieto evento del matrimonio della figlia con il ladro del tesoro reale; Cheope, che è invece un sovrano perfido, è mosso da un incessante e smisurato bisogno di ricchezza, tanto che il suo vituperevole comportamento, rappresenta per Erodoto l’apogeo delle sue empietà al punto che la perversa vicenda ha il triste epilogo dell’adeguamento della ragazza alla situazione tanto da chiedere ai clienti proprio un supplemento di compenso per sè stessa. Il racconto di Rapsinito è più lungo e articolato e ingloba altresì una serie di motivi del folklore egiziano mutuati dalla novellistica e ripresi dall’Oriente. Erodoto si può considerare il tramite attraverso il quale il motivo della vergine e della condanna al postrìbolo è passato dall’Egitto alla letteratura greca posteriore? Oppure l’episodio esposto in realtà è una novella autonoma inserita dallo stesso Erodoto a completamento di un racconto più intricato, la cui funzione è unicamente quella di chiosa, a prescindere dalla specificità di ciò che intende evidenzare? È certo, comunque, che questo motivo letterario ha valicato i confini del tempo e dello spazio, approdando nella letteratura di ogni età e di ogni civiltà.

Nel romanzo greco d’età ellenistica, invece, la storia d’amore si struttura nell’incontro di due giovani la cui passione è intralciata da una lunga serie di ostacoli e difficoltà prima di potere trionfare ed essere felicemente consumata, concludendosi con il loro ricongiungimento e con il lieto fine della loro tormentata storia d’amore. Quali i caratteri salienti del romanzo erotico greco? Nella letteratura greca Eros è connotato da castità e fedeltà prima di essere consumato. Attraverso una serie di avventure-prove, in questi romanzi, si afferma il principio stoico della fedeltà e della castità scevra da qualsivoglia forma di divinazione e che si sostanzia di valore assoluto, a differenza invece dell’etica cristiana, in cui la strenua difesa della verginità è motivata dall’idea di colpa legata al piacere dei sensi e dell’atto sessuale. Ad es. Anzia, protagonista del romanzo di Senofonte Efesio, è una donna, che, ridotta in schiavitù, è venduta ad un lenone. In preda alla disperazione, la fanciulla, per sfuggire ai numerosi uomini, disposti a pagare incenti somme di denaro per violarla, possederla e potere in tal modo soddisfare le loro procaci bramosie, ricorre ad uno stratagemma e finge di avere il morbo sacro. Con tale stratagemma la ragazza riesce a trasformare in pietà e timore della malattia le voglie morbose degli uomini depravati e impudici che la desideravano tanto che lo stesso lenone finisce per condurla a casa e curarla per poi rivenderla una volta guarita. La storia si conclude con un lieto fine: un amico del suo innamorato acquista, per caso, Anzia, aiutandola a ricongiungersi con il suo amato. In Senofonte Efesio, il motivo della vergine, del postribolo e della forzata prostituzione rappresenta uno dei tanti ostacoli, che si susseguono solo per volere del fato e che si interpongono al ricongiungimento degli innamorati con l’indubbia funzione di rimarcare la verginità, la castità e la fedeltà dei due giovani prima di consumare la loro passione amorosa: la stessa Anzia ricorre al suicidio al fine di evitare le seconde nozze e l’innamorato Abrocome subisce efferate e cruente torture pur di non tradire Anzia, cui resta fedele. Malgrado non ci sia rimasta traccia dell’effettiva esistenza di una legge della condanna al postrìbolo, tuttavia la violazione delle donne e la violenza esercitata su di loro prima della condanna a morte, è attestata già nel mondo pagano, ad es. per la figlia di Seiano da illustri scrittori come Tacito (Annales, 5, 9), Svetonio (Tib. 61) e Cassio Dione (58, 1). In particolare, Tacito è preoccupato di dare una motivazione alla violenza sulle donne prima della loro condanna a morte e non manca di fare accenno agli storici coevi, secondo i quali, dal momento che era inaudito che una vergine subisse la pena di morte, il carnefice la violentasse prima di sgozzarla, trovando proprio nell’acquisita impudicizia della non più casta donna violata una giustificazione probante alla pena capitale inflittale.

Nella letteratura agiografica il motivo della condanna al postribolo di una vergine si riscontra nel cap. 65 dell’Historia Lausiaca dove Palladio espone la storia di una casta e pia donna che all’epoca delle persecuzioni era dedita all’ascesi, e per questo forzatamente condotta in un lupanare. Sul modello del romanzo greco anche qui la fanciulla ricorre ad uno stratagemma: per sfuggire alle perverse brame dei potenziali depravati clienti, la giovane inventa una fetida ulcera in un occulto punto del suo corpo proprio al fine di suscitare ripugnanza e repulsione negli uomini che procacemente la desiderano e preservare così la sua verginità. È palese l’analogia con il romanzo di Anzia al cui morbo sacro, la vergine sostituisce un’ulcera putida in un punto nascosto ma evidente. Quando il postrìbolo rappresenta la pena inflitta alle vergini che rifiutano di sacrificare agli dei pagani, allora la condanna alla prostituzione forzata diventa un topos agiografico e ciò accade nelle Passiones, dove tale motivo si legge proprio nella sezione dedicata all’interrogatorio tra la martire e il giudice e ricorre in due varianti: nella prima la vergine invoca Cristo affinché venga in suo soccorso per cui di fatto non si concretizza quasi mai la minaccia di condurla nel lupanare proprio per il miracoloso e provvidenziale intervento di Cristo; nella seconda, ricorrente nella Passio di Agnese e di Lucia di Siracusa ha le modalità di seguito elencate: nella Passio di Agnese, che tenacemente si rifiuta di sacrificare agli dei pagani, il giudice emette la sentenza del lupanare, quindi ordina di fare denudare la vergine al cospetto di tutti. In tal modo si introduce la dicotomia anima/corpo con il conseguente rapporto proprio in riferimento alla punizione fisica. Agnese, udita la condanna, risponde senza turbamento di non avere vergogna della sua nudità in quanto l’abominevole tiranno non può ledere la nobiltà della sua anima né inficiare la purezza della sua coscienza. Agnese si affida dunque al suo unico vero Dio per salvare la propria castità e verginità e puntualmente è salvata, come tutte le eroine cristiane, da questa esecrabile ed infima punizione umana. Nella Passio di Lucia di Siracusa, il giudice Pascasio minaccia di condurre la vergine nel lupanare al fine di operare un esorcismo inverso affinché l’educazione forzata alla concupiscenza della carne possa allontanare dalla vergine la possessione dello Spirito santo. Quale il senso della condanna alla prostituzione nel martirio di Lucia? A nostro avviso, tale pena per l’accusatore assolve ad una duplice funzione:1) una punizione, commisurata e conseguente all’accusa di dissipazione dei beni materiali paterni con uomini dissoluti; 2) una funzione esorcistica inversa: liberare il corpo di Lucia, ormai contaminato dai piaceri della carne, dal possesso dello Spirito santo. Quando Pascasio la minaccia ancora di farla violare pubblicamente, la vergine sorprendentemente risponde che il proprio corpo sta dinanzi a lui pronto ad ogni supplizio pertanto lo esorta a non indugiare. Lucia non cede al suicidio ma risponde al suo accusatore in modo da evidenziare il rapporto, per altro assai complesso, tra il valore della verginità e castità da un lato e il valore della vita nella dottrina cristiana dall’altro. Condannata da Pascasio al postrìbolo, Lucia di fatto non mostra il proprio corpo agli sguardi procaci degli uomini bramosi di possederla in quanto non sta mai nuda né mai riesce ad arrivare al lupanare proprio per il miracoloso e provvidenziale intervento dello Spirito santo che le conferisce la più assoluta inamovibilità e la fa restare salda come una roccia tanto che è impossibile trascinarla. Inoltre, la ferma risposta della giovane donna dimostra una nuova concezione della verginità e del corpo e attesta altresì come il motivo del postrìbolo per la vergine santa, resa in questa condanna simile alle prostitute, si sia ormai svuotato delle sue connotazioni semantiche primordiali tanto che Lucia in punto di morte profetizza pure la fine delle persecuzioni e spira proprio come un’eroina culturale.

Il seppellimento di santa Lucia, Caravaggio

Nella cristianità assai numerose sono le testimonianze sulla prostituzione coatta delle vergini e quelle secondo cui per le vergini cristiane la violenza fisica è ritenuta peggiore della stessa morte, com’è attestato dal fatto che esse, dinanzi alla sola minaccia della prostituzione, preferiscono il suicidio, considerato come mezzo per sfuggire all’oltraggio della violazione del proprio casto corpo e come tale per nulla in contrasto con l’ideologia tutta cristiana del ripudio del suicidio come gesto estremo di rifiuto del prezioso dono della vita. Questo importante rapporto è affrontato già dagli inizi dell’era cristiana dai padri della chiesa e dagli storici ecclesiastici che favoriscono la verginità. Un esempio è Eusebio il quale ritiene che erano degne di ammirazione quelle donne che durante le persecuzioni se ‹‹trascinate al disonore preferivano dare l’anima alla morte piuttosto che il corpo alla seduzione […] incapaci persino di udire, dai governatori delle province, la minaccia di prostituzione, si sottoposero […] alla pena capitale›› e, a questo punto, cita esempi significativi: quello di una donna romana che, temendo di essere violata, ‹‹si trafisse con la spada, morendo immediatamente e […] mostrò con il suo atto […] che la virtù per i cristiani è il solo bene che né può essere conquistato, né distrutto››. Un altro episodio esposto da Eusebio è quello di una madre, che riuscì a persuadere le figlie a seguirla nel suicidio piuttosto che cedere alla condanna al postrìbolo, la qual cosa è reputata, dalla santa e ammirevole donna, peggio della morte stessa. La difesa della verginità trattata dai Padri della Chiesa nei loro scritti fu utilizzata per esporre le loro idee sulla legittimità o meno per una vergine del suicidio diretto o indiretto in difesa della propria pudicizia di fronte alla condanna al postrìbolo.

Alla fine del sec. IV, quando la dottrina cristiana affrontò il delicatissimo tema della liceità o meno del suicidio, pur di evitare la violenza sessuale, la prostituzione e la conseguente perdita della verginità, lo risolse tuttavia in termini di condanna. Infatti, le parole con cui Lucia risponde all’accusatore Pascasio rimandano al trattato Sulla verginità di Basilio di Ancira (metà sec. IV) e il suo pensiero si riscontra solo nelle redazioni greche delle Passiones agiografiche. In Occidente Agostino di Ippona esprime idee simili al vescovo di Ancira, entrambi preoccupati di delegittimare la pratica del suicidio delle vergini cristiane in caso di episodi di violenze sessuali. Sia Agostino che Basilio di Cesarea mettono a punto una concezione della verginità come peculiarità mentale e come prerogativa dello spirito e della volontà e non come mero fatto fisico. Ed è proprio in questa separazione della mente dal corpo, della volontà dalla carne che sembra perdere consistenza anche la nudità come espressione della parrhesìa. Agostino di Ippona in particolare pone una netta demarcazione tra anima e corpo, affermando che lo stupro, senza il consenso della vittima non ne compromette la santità in quanto la verginità è una virtù dello spirito e non della carne. Pertanto, facendo leva su tale netta contrapposizione, il vescovo di Ippona sottolinea come l’aggressione di un corpo maschile su uno femminile non incida minimamente sull’anima, che, pertanto, rimane inviolata, casta e vergine così come la donna, che, pur subendo la violazione del corpo contro la sua volontà, non subisce, tuttavia, quella dell’anima, che rimane sempre fedele a Dio. Nel De Civitate Dei, dopo avere sospeso, in un primo tempo, il giudizio sulle donne morte suicide durante le persecuzioni per salvare il loro casto pudore e onore, considerando il loro gesto frutto della divina volontà, ribadisce la sua condanna del suicidio e per contro afferma che, per chi si rende reo di suicidio, dopo la morte non vi è speranza di salvezza eterna e spiega, quindi, perché il suicidio non rappresenta un mezzo adeguato per evitare il peccato. Prima di Agostino di Ippona, Gerolamo aveva dimostrato di conoscere il trattato di Basilio di Ancira e ammesso il suicidio solo nel caso in cui la pudicizia, la verginità e la castità erano fortemente compromesse. Tommaso d’Aquino, seguendo le orme del pensiero di Agostino, cita proprio la Passio di Lucia e, rivalutando la condanna del suicidio, afferma che non è assolutamente tollerato il suicidio in una donna per impedire che si abusi di lei sessualmente in quanto la donna, se non è attiva né partecipe né consenziente, non può essere ritenuta colpevole di questo esecrabile misfatto, ritenendo che i corpi sono corrotti solo dal consenso dell’anima, proprio come dice Lucia al suo accusatore. Per amore di completezza ricordiamo che tale motivo lo si riscontra pure nella forma cristianizzata (secc. V-VI) del romanzo Historia Apollonii regis Tyri, la cui stesura originaria di romanzo greco risale, invece, al sec. III. Vi è esposta la vicenda di una giovane figliola, che, ritenuta morta dal padre Apollonio era stata venduta, invece, dai pirati ad un lenone. La ragazza, di nome Tarsia, riesce a conservare la sua verginità, pagando il lenone con i guadagni delle sue pubbliche esibizioni, grazie alla sua abilità nel suono della lira e alla sua dottrina. In qualità di professionista, è quindi inviata a consolare Apollonio persuadendolo ad uscire dalla stiva della nave nella quale si era volutamente rinchiuso. Ma, con questa missione, per la vergine si profila pure il rischio di compiere incesto persino con il proprio padre, che, invece, la ritiene morta. La conclusione del romanzo è a lieto fine, in quanto sull’incesto, che pure aleggia, prevale fortunatamente il riconoscimento tra padre e figlia. Come si sviluppa l’intreccio di questo motivo narrativo nel romanzo Historia Apollonii regis Tyri? Esso si snoda attraverso cinque sequenze narrative tipiche del romanzo erotico greco d’età ellenistica, il cui meccanismo è innescato non dall’amore fra due giovani ma da quello incestuoso tra padre e figlia, l’evolversi del quale è simultaneo alle vicende del protagonista e diviene altresì il filo propulsore della trama narrativa. Pertanto, Apollonio si trova a: 1) subire l’incesto in quanto l’incesto consumato dal re Antioco gli impedisce di sposarne la figlia; 2) sposare una donna di cui è esemplificato il rapporto con il padre in netta antitesi con quello incestuoso di Antioco; 3) rimanere nel contempo sia vedovo sia padre di una figlia femmina che ripudia ancora in fasce, temendone proprio l’incesto; 4) essere vicino all’incesto, che riesce a superare con la lieta conclusione della vicenda, ricongiungendosi con la propria figlia.

Apollonio appare un eroe, che, pur non riuscendo a porre fine al rapporto incestuoso tra il re Antioco e la figlia, malgrado ricorra alla saggezza racchiusa nei libri e negli oracoli, è ora in grado per sé stesso e per la saggezza acquisita, non culturalmente (e cioè non dai libri) ma soffertamente (cioè dalla sofferta esperienza del vissuto), a superare l’incesto. Quale, in questo contesto, la funzione assunta dal motivo della vergine e del lupanare? Senza dubbio quella di determinare la possibilità di fare superare all’eroe Apollonio un tipo di ostacolo ben preciso, cioè il rapporto incestuoso! Nell’Historia Apollonii regis Tyri, in quanto romanzo cristianizzato, è avvenuta una profonda trasformazione dal momento che l’eroe Apollonio, contrariamente agli antichi romanzi pagani, nel corso della narrazione non rimane sempre uguale a sé stesso ma è un protagonista in piena evoluzione subendo una crescita interiore: una volta superato l’ostacolo del rapporto incestuoso, il motivo della vergine e del lupanare diventa la necessaria tappa di un cammino evolutivo interiore e come tale contribuisce all’elevazione morale del protagonista. L’Historia Apollonii regis Tyri è la summa del romanzo ellenistico e si riveste di un’importanza fondamentale come tramite del modello narrativo del romanzo erotico greco che evolvendosi si è arricchito grazie all’apporto della biografia cristiana e che, così connotandosi, dalla Tarda Antichità al Medioevo impronta di sè tutta la produzione letteraria. Il notevole contributo dato dalla biografia cristiana a quest’opera letteraria è proprio nel suo sottile penetrare la struttura stessa del protagonista, modificandone altresì la tipologia tanto che Apollonio pare un punto di partenza di un meccanismo in continua evoluzione che ha provocato la metamorfosi dell’eroe all’interno del genere letterario del romanzo con l’introduzione del motivo della crescita interiore del protagonista.

Nel Breviario Romano Tridentino, riformato da papa Pio X (ed. 1914), che prima di salire al soglio pontificio era patriarca di Venezia, è menzionata la traslazione delle reliquie di Lucia alla fine della lettura agiografica, così come ha evidenziato Andreas Heinz nel suo recente contributo.

A Siracusa un’inveterata tradizione popolare vuole che, dopo avere esalato l’ultimo respiro, il corpo di Lucia sia stato devotamente tumulato nello stesso luogo dell martirio. Infatti, secondo la pia devozione dei suoi concittadini, il corpo della santa fu riposto in un arcosolio, cioè in una nicchia ad arco scavata nel tufo delle catacombe e usata come sepolcro. Fu così che le catacombe di Siracusa, che ricevettero le sacre spoglie della v. e m., presero da lei anche il nome e ben presto attorno al suo sepolcro si sviluppò una serie numerosa di altre tombe, perché tutti i cristiani volevano essere tumulati accanto all’amatissima Lucia. Ma, nell’878 Siracusa fu invasa dai Saraceni per cui i cittadini tolsero il suo corpo da lì e lo nascosero in un luogo segreto per sottrarlo alla furia degli invasori. Ma, fino a quando le reliquie di Lucia rimasero a Siracusa prima di essere doppiamente traslate (da Siracusa a Costantinopoli e da Costantinopoli a Venezia)? Fino al 718 o fino al 1039? È certo che a Venezia il suo culto era già attestato dal Kalendarium Venetum del sec. XI, nei Messali locali del sec. XV, nel Memoriale Franco e Barbaresco dell’inizio del 1500, dove era con­siderata festa di palazzo, cioè festività civile. Durante la crociata del 1204 i Veneziani lo trasportarono nel monastero di San Giorgio a Venezia ed elessero santa Lucia compatrona della città. In seguito le dedicarono pure una grande chiesa, dove il corpo fu conservato fino al 1863, quando questa fu demolita per la costruzione della stazione ferroviaria (che per questo si chiama Santa Lucia); il corpo fu trasferito nella chiesa dei SS. Geremia e Lucia, dove è conservato tutt’oggi.

La duplice traslazione delle reliquie di Lucia è attestata da due differenti tradizioni, che, tuttavia, contrastano e divergono in molti punti. Tutto si svolge all’interno di una consuetudine agiografica assai ambigua e pericolosa in quanto se da un lato è attestazione di una devozione popolare encomiabile e pia dall’altro invece lo è di un furto deprecabile e biasimevole. Sono entrambe storicamente ineccepibili? Fino a quando le spoglie di Lucia rimasero nel sepolcro di Siracusa? Ecco cosa sarebbe successo:

La prima tradizione risale al sec. X ed è costituita da una relazione, coeva ai fatti, che Sigeberto di Gembloux († 1112) inserì nella biografia di Teodorico, vescovo di Metz. Tale relazione tramanda che il vescovo Teodorico, giungendo in Italia insieme all’imperatore Ottone II, abbia trafugato molte reliquie di santi –fra cui anche quella della nostra Lucia- che allora erano nell’Abruzzo e precisamente a Péntima (già Corfinium). La traslazione a Metz delle reliquie di Lucia pare suffragata dagli Annali della città dell’anno 970 d.C. Ma alcuni dubbi sembrano non avere risposte attendibili: Come e perché Faroaldo ripose le reliquie o le spoglie di Lucia a Corfinium? Furono traslate le reliquie o tutto il corpo della martire? Il vescovo locale si prestò ad un inganno (pio e devoto?) o diceva il vero? Se è ravvisabile un fondo di verità nel racconto del vescovo, allora si potrebbe desumere che le reliquie o il corpo della martire furono traslate da Siracusa nel 718 (quindi fino al 718 sarebbero rimaste a Siracusa?). Cosa succedeva allora nella città siciliana? Sergio, governatore della Sicilia, si era ribellato all’imperatore Leone III l’Isaurico e pertanto era stato costretto a fuggire da Siracusa e a rifugiarsi da Romualdo II, duca longobardo di Benevento. Se questa tradizione è attendibile, si può forse pensare che il vescovo di Corfinium (o piuttosto Sigeberto? Oppure altresì la sua fonte?) abbia confuso Romualdo (che proprio in quel periodo era duca di Spoleto e che, come tale, godeva di una fama maggiore) con Faroaldo? E ancora, lo stesso Sigeberto di Gembloux riferisce che Teoderico nel 972 abbia innalzato un altare in onore di Lucia e che nel 1042 un braccio della v. e m. sia stato donato al monastero di Luitbourg. Quindi, antichi documenti attestano che di fatto vi fu una traslazione delle reliquie di Lucia dall’Italia centrale a Metz, sulla frontiera linguistica romano-germanica, nella provincia di Treviri. Situata fra Germania e Francia, questa regione è anche il paese d’origine della dinastia carolingia. È una casualità? Come andarono effettivamente le cose? Secondo Sigeberto di Gembloux l’imperatore Ottone II sostò in Italia nel 970, avendo tra la sua scorta il vescovo Teodorico di Metz, il quale, durante il suo soggiorno, acquistava preziose reliquie, allo scopo di accrescere la fama della sua città vescovile. Pare che uno dei suoi preti, di nome Wigerich, che era anche cantore nella cattedrale di Metz, abbia rinvenuto le reliquie di Lucia di Siracusa, a Corfinium, poi identificata con Péntima in Abruzzo. Si dice che tali reliquie erano state prelevate dai Longobardi e trasportate da Siracusa al ducato di Spoleto. Ma perché questo spostamento? In un primo tempo le reliquie di Lucia, dopo essere state acquistate dal vescovo Teodorico di Metz, il quale aveva portato dall’Italia anche il corpo del martire Vincenzo, furono tumulate assieme alle reliquie di quest’ultimo al quale il vescovo aveva fatto erigere un’abbazia sull’isola della Mosella, dove nel 972 uno dei due altari della chiesa dell’abbazia, fu dedicato proprio a Lucia, come patrona. Sigeberto ricorda pure che Teodorico di Metz, in presenza di due vescovi di Treviri e precisamente di Gerard di Toul e di Winofid di Verdun, abbia dedicato a Lucia un oratorio nello stesso anno. Non solo, ma tanta e tale era dunque la devozione di Teodorico di Metz per la v. e m. di Siracusa che fece tumulare il conte Everardo, suo giovane nipote, prematuramente scomparso alla tenera età di soli dieci anni, proprio innanzi all’altare di Lucia. Per tutto il tempo in cui le spoglie di Lucia rimasero nella chiesa dell’abbazia di S. Vincenzo nella Mosella, la v. e m. di Siracusa fu implorata durante i giorni delle Regazioni, con una grande processione della cittadinanza di Metz che si fermò proprio nell’abbazia di S. Vincenzo. Così Metz divenne il fulcro da cui si irradiò ben presto il culto di Lucia tanto che già nel 1042 l’imperatore Enrico III reclamò alcune reliquie della v. e m. di Siracusa per il convento nuovamente fatto erigere dalla sua famiglia nella diocesi di Speyer e precisamente a Lindeburch/Limburg.

Francesco del Cossa, Santa Lucia (1472-1473)
Francesco del Cossa, Santa Lucia (1472-1473)

La seconda tradizione è, invece, tramandata da Leone Marsicano e dal cronista Andrea Dandolo di Venezia. Leone Marsicano racconta che nel 1038 il corpo di Lucia, vegine e martire, fu trafugato da Giorgio Maniace e traslato a Costantinopoli in una teca d’argento. Andrea Dandolo, esponendo la conquista di Costantinopoli del 1204 da parte dei Crociati, tra i quali militava anche Enrico Dandolo, un suo illustre antenato e doge di Venezia, informa che i corpi di Lucia e Agata erano stati traslati dalla Sicilia a Costantinopoli ma che quello di Lucia fu poi nuovamente traslato da Costantinopoli a Venezia, dove pare che di fatto giunse il 18 gennaio 1205. Quindi, la traslazione delle reliquie di Lucia a Venezia da Costantinopoli sembra legata agli eventi della Quarta Crociata (quella riconducibile al periodo che va dal 1202 al 1204), quando i cavalieri dell’Occidente latino, piuttosto che liberare la Terrasanta, spogliarono la metropoli dell’Oriente cristiano. Infatti, nel 1204, in seguito alla profanazione e al saccheggio dei crociati nelle basiliche di Bisanzio, neanche la chiesa in cui riposava il corpo di Lucia fu risparmiata da questa oltraggiosa strage tanto che furono pure rimosse le sue spoglie e contese le sue reliquie, molto venerate nell’Oriente ortodosso. Pare che, proprio in tale occasione Venezia, che aveva condotto la Quarta Crociata presso il Santo Sepolcro, si impadronì delle reliquie di Lucia, che giunsero, come si diceva, sulla laguna – nella chiesa di S. Giorgio Maggiore- il 18 gennaio 1205 e cioè ancora prima della costruzione della basilica del Palladio e dell’attuale Palazzo Ducale. Il corpo di Lucia fu riposto nel monastero benedettino, dove aveva soggiornato il monaco Gerardo (o Sagredo?). Sembra che il tragico evento del 13 dicembre del 1279 (cioè una bufera scatenatasi all’improvviso, che provocò molte vittime) sia stato la causa di una nuova traslazione del corpo di Lucia dalla chiesa di S. Giorgio Maggiore a Venezia (eccetto, pare, un pollice -non un braccio, come vuole la communis opinio- che sarebbe rimasto in San Giorgio). Dopo tale tragedia, infatti, le autorità decisero di traslare il corpo di Lucia in città, ponendolo in una chiesa parrocchiale a lei intitolata e ciò allo scopo di agevolare a piedi il pellegrinaggio alle sue sacre spoglie in terraferma senza dovere ricorrere ad imbarcazioni. Quindi, nel mese seguente alla sciagura e precisamente il 18 gennaio del 1280 (lo stesso giorno della memoria dell’arrivo delle sacre spoglie di Lucia da Costantinopoli), il suo corpo fu traslato nella chiesa dedicatale, che si trovava nello stesso luogo in cui era ubicata la stazione ferroviaria che, ancora oggi ne conserva la memoria nel nome e precisamente sulle fondamenta prospicienti il Canal Grande e cioè all’inizio del sestiere di Cannareggio. Tale chiesa fu poi riedificata nel 1313 e fu assegnata dal papa Eugenio IV nel 1444 in commenda alle suore domenicane, che avevano aperto il loro convento intitolato al Corpus Domini, un cinquantennio prima sempre a Cannareggio. Nel 1476, dopo circa un trentennio di contese, si raggiunse un accordo tra le monache domenicane del convento del Corpus Domini e quelle agostiniane del monastero dell’Annunziata proprio per il possesso del corpo di Lucia: papa Sisto IV nel 1478 stabilì, con un solenne diploma, che il corpo della santa rimanesse nella chiesa a lei intestata sotto la giurisdizione delle agostiniane del monastero dell’Annunziata (che da allora prese il nome di monastero di S. Lucia), le quali ogni anno avrebbero offerto la somma di 50 ducati alle monache domenicane del convento del Corpus Domini. Nel 1579 passando per il Dominio veneto l’im­peratrice Maria d’Austria, il Senato volle farle omag­gio di una reliquia di s. Lucia pertanto, con l’assistenza del patriarca Giovanni Trevisan fu asportata una piccola porzione di carne dal lato sinistro del corpo della v. e m. Il 28 luglio del 1806 per decreto vicereale il monastero di Santa Lucia fu soppresso e le monache agostiniane costrette a trasferirsi al di là del Canal Grande e precisamente nel monastero di S. Andrea della Girada, dove portarono pure il corpo di Lucia. Nel 1807 il governo vicereale concesse alle agostiniane di S. Lucia di far ritorno nel loro antico convento, che, tuttavia, trovarono occupato dalle agostiniane di Santa Maria Maddalena, le quali si fusero con quelle di S. Lucia, assumendone anche il titolo. Nel 1810 Napoleone Bonaparte decretò la chiusura di tutti i monasteri e conventi, compreso quello di S. Lucia, le cui monache furono pure obbligate a deporre l’abito monastico e a rientrare nella propria famiglia di appartenenza. Il corpo di Lucia rimase nella sua chiesa, che fu così inserita nella circoscrizione della parrocchia di S. Geremia. Nel 1813 il convento di S. Lucia era donato dall’imperatore d’Austria alla b. Maddalena di Ca­nossa, che vi abitò fino al 1846, quando iniziarono i lavori per la stazione ferroviaria e per la demolizione del convento. Fra il 1844 e il 1860 il governo austriaco realizzò la costruzione del ponte ferroviario, che doveva giungere fino alle fondamenta di Cannareggio e cioè proprio là dove da secoli allogavano i monasteri delle domenicane del Corpus Domini e delle agostiniane di Santa Lucia, poi abbattuti. Il corpo di Lucia l’11 luglio 1860 subì, quindi, una nuova traslazione nella parrocchia di S. Geremia, per volere del patriarca Angelo Ramazzotti: il sacro corpo rimase sette giorni sull’altar maggiore, poi fu posto su un altare laterale in attesa di costruire la nuova cappella. Tre anni dopo, l’11 luglio 1863, fu inauguata: essa era stata costruita con il materiale del presbiterio della demolita chiesa di S. Lucia su gusti palladiani. Per la genero­sità di mons. Sambo, parroco di quella Chiesa (che nel frattempo assunse la denominazione SS. Geremia e Lucia) su disegno dell’arch. Gaetano Rossi fu allestito un altare più de­gno in broccatello di Verona con fregi di bronzo dorato. Quindi, dal 1860 Pio IX l’avrebbe fatto trasferire nella chiesa dei Santi Geremia e Lucia, dove si venera a tutt’oggi. Qui, la cappella del corpo di santa Lucia è assai bella e artistica proprio come tutte le chiese di Venezia, adorna di marmi e di bronzi, ed è sempre stata oggetto di particolari cure ed elevata devozione di fedeli sempre più numerosi. Il sacro corpo, elevato sopra l’altare, è conservato in una elegante urna di marmi preziosi, superbamente abbellita da pregiate decorazio­ni e sormontata dalla stupenda statua della v. e m. Sulla parete di sfondo si leggono due iscrizioni, che raccontano le vicende della traslazione e delle principali so­lenni festività. Il 15 giugno del 1930 il patriarca Pietro La Fontaine lo consacrava e collocava il corpo incor­rotto di Lucia nella nuova urna in marmo giallo ambrato. Nel 1955 il patriarca Angelo Roncalli -divenuto poi papa con il nome di Giovanni XXIII- volendo che fosse conferita più importanza alle sacre reliquie di Lucia, sug­gerì che le sacre spoglie fossero ricoperte di una maschera d’argento, cu­rata dal parroco Aldo Da Villa. Nel 1968, per iniziativa del parroco Aldo Fiorin fu portato a compimento un completo restauro della Cappella e dell’Urna della v. e m. Ancor oggi le sacre reliquie riposano nel tempio di Venezia e nella bianca curva absidale si legge un inciso propiziatorio: Vergine di Siracusa martire di Cristo in questo tempio riposa all’Italia al mondo implori luce e pace. Ma, il 4 aprile 1867 le spoglie di Lucia furono disgraziatamente profanate dai ladri (subito arrestati), che furtivamente si erano introdotti nella chiesa di S. Geremia, per impadronirsi degli ornamenti votivi. Da allora seguirono altre profanazioni e spoliazioni: nel 1949, quando alla martire fu sottratta la corona (anche in questo caso il ladro fu arrestato) e nel 1969, quando due ladri infransero il cristallo dell’urna. Nel 1975 papa Giovanni Paolo I concesse che il corpo della martire fosse portato ed esposto alla venerazione dei fedeli nella diocesi di Pesaro per una settimana. Il 7 novembre 1981 due aggressori spezzarono l’urna della martire estraend
ovi il corpo e lasciandovi il capo e la maschera argentea. Anche questa volta il corpo fu recuperato proprio il 12 dicembre del 1981, giorno della vigilia della commemorazione della santa.

Esiste una variante sulla traslazione del corpo di Lucia a Venezia, do­cumentata da un codice del Seicento, o Cronaca Veniera, conservato nella Biblioteca Marciana di Venezia (It. VII, 10 = 8607, f. 15 v.): esso sarebbe stato portato a Venezia, assieme a quello di S. Agata, nel 1026, sotto il dogado di Pietro Centranico. Non conosciamo l’ori­gine della notizia nè se derivi da una fonte anteriore. E’ diffuso, invece, il fondato sospetto di un errore meccanico di amanuense, che avrebbe letto 1026 invece di 1206, cioè gli anni dell’effettiva translatio. E nella Cronaca Veniera lo si accettò, legando il fatto al doge dell’epoca. La presenza del corpo di Lucia a Venezia sin dal 1026 è una notizia che va accolta con prudenza? Tra il 1167 e il 1182 a Ve­nezia esisteva già una chiesa dedicata alla martire, come attestato da docu­menti locali.

Una delle più antiche tradizioni veronesi racconta che le spoglie della santa siracusana passarono da Verona durante il loro viaggio verso la Germania intorno al sec. X, fatto che spiegherebbe anche la diffusione del culto della santa sia a Verona che nel nord Europa. Secondo un’altra tradizione, il culto di santa Lucia a Verona risalirebbe al periodo di dominio della Serenissima su Verona. Secondo la communis opinio, Venezia infatti, già nel 1204, avrebbe trasportato le spoglie della santa nella città lagunare.

Gaetano Golino ha cercato di ricostruire il volto di Lucia, dopo essersi documentato sulle ricognizioni del suo corpo, soprattutto sulle ultime tre, rispettivamente del 1860, del 1904 e del 17 dicembre 1981: il corpo risultava di m. 1,43 e in buon stato di conservazione, presentava nel capo residui di capelli color marrone e rivelava l’età di un soggetto adulto ventenne. Per elaborare il volto fu utilizzato un computer Olivetti CP 486.

Una curiosa notizia tramandata da una pia leggenda popolare di probabile matrice locale riguarda le reliquie di Lucia a Belpasso, un paese in provincia di Catania, di cui la v. e m. è patrona dalla prima metà del Seicento, invocata sia come protettrice degli occhi che dei terremoti: prima dell’eruzione del 1669, furono ottenuti, con il patrocinio della Curia, due frammenti ossei incastonati, in seguito, in un prezioso reliquiario argenteo dalla caratteristica forma a braccio. La tradizione popolare, però, ricorda un’altra reliquia portata, pare, furtivamente da un frate (un Frate Minore?), il quale recatosi a Venezia per rendere devoto omaggio a Lucia e baciandone le sacre spoglie, avrebbe asportato un osso dal mignolo, conservato ora, in un prezioso scrigno d’argento del Settecento, ov’è pure riposta un’altra reliquia, donata nel 1981 dal parroco della Chiesa Madre di Venezia al parroco di quella di Belpasso e consistente in un piccolo lembo della veste, che ricopriva il corpo della vergine. Ma, sulla reliquia relativa al dito di Lucia, esistono altre tradizioni: una, tramandata da documenti conservati nel già Archivio Bufali di Belpasso, la riconduce a una tal Catarinella, moglie di un capitano di fregata di Venezia, ritiratasi a Belpasso dopo la morte del marito. Un’altra, tramandata, invece, da documenti conservati nell’Archivio della Chiesa Madre di Belpasso, la riporta ad una monaca del convento di clausura di Santa Caterina di Catania, suor Vittoria Rossi, figlia adottiva del conte Francesco di Castro da Tivoli, il quale aveva ricevuto la reliquia proprio a Venezia, dove si trovava in qualità di ambasciatore. Unica erede del predetto conte, suor Vittoria il 17 luglio del 1657 ne faceva prezioso dono al canonico della Cattedrale di Catania, don Francesco Strano, che in seguito la trasmise a sua volta ai rettori della Chiesa Madre di Belpasso. A queste reliquie si aggiunge quella del metacarpo, donata alla Chiesa Madre di Belpasso l’8 dicembre 1989 da mons. Luigi Bommarito, arcivescovo emerito di Catania.

Analoga vicenda la tradizione ricorda per il comune di Acicatena, dove a tutt’oggi a S. Lucia è dedicato un quartiere, che la commemora il 12 dicembre, invece nel predetto paese, la solennità ricorre il 13 dicembre. Qui, a conclusione del novenario, dopo la celebrazione eucaristica i fedeli, per inveterata consuetudine, sono soliti andare a prelevare il braccio reliquiario dalla chiesa Madre. Tale consolidata tradizione è legata, pare, all’arrivo della preziosa reliquia del dito della santa, per dono del già ricordato can. Francesco Strano. Apprezzato confessore presso il convento delle clarisse di Santa Caterina in Catania, l’avrebbe ricevuta dalla badessa, suor Vittoria Rossi, in segno di gratitudine. Infatti, essendo a conoscenza della devozione del canonico per la v. e m. siracusana, alla quale aveva fatto realizzare il nuovo simulacro, suor Vittoria Rossi decise di donargli una reliquia, in suo possesso. Così, il 12 dicembre 1666 una solenne processione, partita dalla Chiesa Madre di Acicatena, raggiungeva la chiesa dedicata a Santa Lucia.

A Carlentini, nel simulacro in argento, conservato nella Chiesa Madre, nella cappella di Santa Lucia, è custodita una reliquia e un’altra è posta nel reliquiario a forma di braccio.

Pare che l’incremento del culto di Lucia a Civitella Alfedena sia legato al duca Faroaldo di Spoleto, che, avrebbe trasportato le sacre spoglie di Lucia in Abruzzo nell’antica città di Corfinium, transitando per Civitella Alfedena, dove la v. e m. di Siracusa già godeva della massima venerazione.

Ad Erchie nella chiesa di S. Lucia nel 1733 in una teca nel petto della statua lignea erano custodite delle reliquie di s. Lucia consistenti in alcune ossa del braccio. Di tali reliquie –di cui si hanno notizie in documenti parrocchiali legati a visite pastorali- però non é rimasto niente o perchè andarono disperse o perché trafugate. Oggi invece troviamo una reliquia composta da un brandello di pelle di cm 3 x 2.

Nel Duomo di Milano sono custodite alcuni fili di capelli.

A Napoli nelle due chiese di S. Lucia a Monte e S. Lucia a Mare si conservano due denti della martire, uno per ogni chiesa; nella chiesa di S. Giovanni Maggiore di Napoli si venerano gli occhi della v. e m.

A Padova, nella chiesa di S. Nicolò, in un reliquiario d’argento risalente al sec. XVIII, sono custoditi le seguenti preziose reliquie: un pezzetto di carne, un frammento di costola, una ciocca di capelli.

A Pesaro, nella chiesa dei padri Azomini è conservato un dito della v. e m.

A Siracusa si trovano alcune reliquie della santa in parte recatevi il primo di novembre del 1556 da Eleonora Vega, moglie del re Giovanni Vega, che le ottenne a Roma dall’ambasciatore di Venezia. Nel simulacro d’argento sono conservati, in una preziosa teca d’oro, tre frammenti di costole donate da Carlo d’Angiò alla basilica di Bari e che il 30 gennaio del 1605 Bartolomeo Petracci, predicatore gesuita, offrì a Siracusa. Alcuni frammenti di braccio sinistro, nel 1656 furono portati da Venezia, dal cappuccino Innocenzo da Caltagirone. In una cassettina d’argento sono conservati alcuni frammenti di vesti di s. Lucia: un leggero velo di seta bianca, una tunica rossa di seta adornata da foglie e fiori, un paio di scarpette di pelle sottile foderate di raso purpureo. Due atti notarili del 1518 danno notizia di tali reliquie e attestano che esse erano già custodite a Siracusa nel 1294. La reliquia più pre­ziosa è indubbiamente il suo sepolcro, molto vene­rato dai Siracusani. Nella Cripta del sepolcro di santa Lucia a Siracusa, si legge una frase, tratta da un’antifona liturgica luciana che esprime tutta la devozione dei suoi concittadini: Lucia, Sponsa Christi, omnis plebs Te expectat (=Lucia, Sposa di Cristo, tutto il popolo ti attende). Numerosi sono stati gli appelli –alcuni dei quali di seguito riportiamo- rivolti dai cittadini di Siracusa alla Serenissima affinché restituisse loro le sacre spoglie di Lucia. Risale al 1855 l’appello-petizione al patriarca Pietro Aurelio Mutti. Nel 1904 in occasione del XVI centenario del martirio fu inoltrata richiesa a Pio X, che, il 26 aprile del 1904 rispose a mons. Carlo Lipari di Siracusa per il tramite del cardinale Raffaele Merry del Val, segretario di stato, lasciando libertà di decidere a Venezia e a Siracusa. Luigi Bignami, arcivescovo di Siracusa, chiese e ottenne da Pio X la sostituzione nella sua diocesi di due strofe (rievocanti la traslazione del corpo di Lucia a Venezia e la devozione del popolo veneziano) dell’inno matutino nell’ufficio proprio della santa. Nel 1935 fu reiterata la richiesta delle reliquie di Lucia e nel 1937 fu pure inoltrato un appello a Benito Mussolini che nell’agosto dello stesso anno inviò a Venezia il padre P. Tacchi Venturi per discuterne con il patriarca A. G. Piazza, il quale non si mostrò favorevole alla restituzione del corpo di Lucia ai siracusani. Altre richieste furono rinnovate nel 1940, nel 1949 al papa Pio XII, nel 1950 alla prefettura della Congregazione dei Riti, e altre ancora si susseguono ai nostri giorni. L’evento tanto atteso dai cittadini di Siracusa si è verificato il 15 dicembre del 2004, durante i solenni festeggiamenti per il XVII Centenario del martirio di santa Lucia, quando, dopo 965 anni da quel fatidico 1039 (come vuole la memoria dei cittadini di Siracusa, che crede che le reliquie di Lucia furono trasportate da Giorgio Maniace a Costantinopoli), il corpo della v. e m. è ritornato, seppure per una settimana, nella sua città natìa.

A Verona, nella chiesa di S. Lucia si venerano un pezzetto di stoffa intrisa del sangue della v. e m. di Siracusa e alcuni frammenti ossei.

Altre reliquie ancora sono gelosamente conservate a Roma (nella Basilica di S. Paolo e nelle chiese dedicate a S. Lucia), Montegalda di Vi-cenza e a Venezia stessa, nelle chiese di S. Giorgio Maggiore, dei SS. Apostoli, dei Gesuiti, dei Carmini.

All’estero sono documentate reliquie ricevute da Venezia: in Algeria (a La Calle è conservato un pezzo di stoffa delle vesti della v. e m. di Siracusa), a Lisbona nel 1587. Nel 1667 la chiesa di S. Lucia nella diocesi di Nantes, in Francia, ricevette in dono dal convento di S. Lucia a Venezia un pezzetto di velo (disgraziatamente disperso durante la Rivoluzione Francese) e un frammento di cuffia (gelosamente conservato in un reliquiario –sostenuto dalla statuetta della santa- d’argento dalla caratteristica forma rotonda) che rivestivano il capo della v. e m. quando il suo corpo fu traslato da Costantinopoli a Venezia. Nel 1728 una parte dell’urna fu staccata, per ordine del Senato da quella custodita nella chiesa di S. Giorgio Maggiore e donata al papa Benedet­to XIII, che l’aveva richiesta. Nel 1851 fu donato a papa Pio IX il radio asportato dal braccio sinistro. Nel 1882, Domenico Agostini, patriarca di Venezia, possedeva un dito della mano di Lucia. Altre sono conservate a Metz, in Lorena, fatto che spiega la diffusione del culto nei paesi nordici; due piccole reliquie si trovano dal 2002 nella chiesa di Santa Lucia eretta presso il Centro Ragazzi Ciechi Kekeli Neva di Togoville in Togo per generosa donazione del patriarca di Venezia. Il giornalista Tajani informa che già nel 1400 esistevano sia in Svezia sia in Danimarca delle reliquie di Lucia precisamente nei monasteri dei frati minori di Copenhagen e di Roskilde oltre che nella cattedrale di Lund, città universitaria della Scania, all’estremità meridionale della Svezia. In chiese del Belgio si conservano alcune reliquie di Lucia di Siracusa. La tradizione vuole che intorno alla metà del sec. XVII senatori di Venezia donarono una parte della mascella inferiore della v. e m. a Fabio Chigi (salito sul soglio pontificio con il nome di Alessandro VII), che, essendo Nunzio Apostolico nei territori del Reno, ne fece prezioso dono al vescovo di Adrianopoli, cioè a Walemburg Adrien. In seguito, nel 1676 le reliquie passarono al vescovo di Anversa, cioè ad Ambrogio Cappello e alcuni frammenti furono anche distribuiti in altre chiese del Belgio.

Dal 1948 i sigilli apposti all’urna di Lucia non furono più infranti: in quell’anno, essendo stato profanata l’urna della v. e m., fu eseguita da mons. Francesco Petich e dal sacerdote Bruno Valentini (che appose i sigilli all’urna ma non si procedette a stendere apposito verbale) una nuova ricognizione delle sue sacre spoglie: furono distribuiti numerosi frammenti della pelle di Lucia.

Maria Stelladoro

Maria Stelladoro è docente ordinario di lettere classiche e specialista in paleografia e codicologia greca presso la Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatistica e Archivistica. Ha pure conseguito un perfezionamento in Studi Patristici e Tardo Antichi presso l’Istituto Patristico Augustiniano della Pontificia Università Lateranense e due perfezionamenti in Paleografia e Codicologia Greca e titolo equipollente al dottorato di ricerca.

Ha pubblicato saggi di agiografica siciliana greco-latina e di paleografia greco-latina su riviste specializzate (Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata, Analecta Bollandiana di Bruxelles, Codices Manuscripti di Vienna, Hagiographica del SISMEL, Studi sull’Oriente Cristiano) e ha partecipato a Convegni Internazionali i cui Atti sono stati pubblicati in Studia Ephemeridis Augustinianum di Roma) e a progetti di ricerche pubblicate in Raccolta di Studi Internazionali su Pecia Resourcess en Médiévistiques a Saint-Denis.

Socio ordinario dell’Associazione Italiana per lo Studio dei Santi, dei Culti e dell’Agiografia promossa dal Dipartimento di Studi Storici, Geografici e Antropologici della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma Tre.

Di recente ha pubblicato la monografia Agata. La martire. Dalla tradizione greca manoscritta, Milano, Jaka Book, 2005. Euplo/Euplio martire. Dalla tradizione greca manoscritta, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2006. Lucia la martire, Jaca Book, 2010.

CATEGORIE
CONDIVIDI SU
Facebook
Twitter
LinkedIn
Pinterest
WhatsApp
Email
Stampa
My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.