
di Gladis Alicia Pereyra.
L’odio che nel 1182 spinse i greci a compiere un massacro nei quartieri latini di Costantinopoli, aveva origini lontane. Il risveglio dell’Europa era avvenuto da tempo; le sanguinose scorrerie dei popoli barbari, che l’avevano devastata per secoli, erano state fermate nella seconda metà del X secolo. Ottone I il Grande, re di Germania, aveva definitivamente sconfitto gli Ungari nella battaglia di Lechfeld -10 agosto 955- e il terribile popolo di pastori e guerrieri predatori nomadi, calato dall’Asia profonda e per mezzo secolo terrore dell’Europa, ritiratosi nella Pannonia, era diventato sedentario, aveva imparato a lavorare la terra e abbracciato il cristianesimo. Sedentari erano diventati anche i normanni e l’avanzata musulmana si esauriva nel Mediterraneo e retrocedeva nella Spagna davanti alla riconquista cristiana. Di nuovo i campi venivano coltivati; nelle città fortificate l’artigianato prosperava e la crescita demografica prendeva nuovo impulso. Il generale sviluppo toccava le punte più alte nelle repubbliche marinare italiane, dove il veloce incremento dell’economia era dovuto principalmente al perfezionamento delle tecniche di navigazione che facilitava l’interscambio mercantile con i paesi d’oltremare. L’intraprendenza dei mercanti genovesi, veneziani, pisani, amalfitani e di altre città minori della costa italiana, li portava alla ricerca di nuovi mercati sempre più lontani. La concorrenza era aspra e la lotta per il predominio scatenò guerre che si protrassero per anni, scenario delle quali spesso furono le stesse città straniere il cui mercato si tentava di monopolizzare. Basta ricordare l’attacco compiuto dai veneziani al quartiere genovese di Costantinopoli nel 1170, di cui abbiamo parlato.1 Tra i mercati più ambiti, un posto di rilievo spettava alla capitale dell’impero bizantino che non aveva mai smesso di ritenersi capitale dell’impero romano, né di chiamare romani i suoi cittadini e che mal sopportava la crescente preminenza mercantile latina. Costantinopoli era l’affascinante capitale di un impero in decadenza che sonnecchiava sulla propria passata grandezza, raffinata e corrotta e soprattutto incapace di contrastare il materialismo rampante dei rudi occidentali, i cui barbari costumi disprezzava, ma la cui travolgente intraprendenza temeva. Se non fossero state sufficienti le ragioni materiali, il clero si adoperava per aggiungere quelle spirituali, condannando come eretici i latini e chiamandoli seguaci del papa. Con il potere economico cresce il potere politico, come la storia insegna, e i privilegi concessi alle colonie latine da Manuele I Comneno ne offrono validi esempi. I rapporti di Manuele con i latini, veneziani in primo luogo, ma anche pisani, genovesi e famiglie feudali del nord d’Italia come i Monferrato, videro alterne vicende. Manuele, grande rivale del Barbarossa, non rinunciò mai al sogno di unire l’Oriente e l’Occidente sotto il suo trono e non esitò ad allearsi o a intrigare -si ricordi la cattura e prigionia di Cristiano, arcivescovo di Magonza e arcicancelliere di Federico Barbarossa, a mano di Corrado di Monferrato-2 con chi poteva aiutarlo a realizzare questo sogno. Per garantirsi le alleanze fu costretto a fare molte e grandi concessioni, ma seppe anche usare la mano dura e in modo assai gravoso: ne è prova l’arresto e la carcerazione di tutti i veneziani nel marzo del 1171, dopo il loro altezzoso rifiuto di pagare i danni arrecati con l’attacco dell’anno prima al quartiere genovese. Le ragioni del palazzo erano inaccessibili al popolino e s’ignorava il fatto che la presenza delle colonie italiane fosse un fattore positivo per l’economia della città; contava solo che gli stranieri erano troppo ricchi, troppo superbi e troppo tenuti in considerazione dal Basileus e per di più, eretici. Nel 1180, la morte sorprese Manuele e lo sorprese nel vero senso della parola: bruciato dalla febbre e prossimo alla fine, continuava a ripetere di essere tranquillo poiché gli indovini gli avevano predetto che avrebbe vissuto ancora quattordici anni e sarebbe presto potuto tornare alle sue avventure galanti che tanto amava. Lasciava l’impero al figlio undicenne Alessio e la reggenza alla moglie, Maria di Antiochia. In poco tempo Maria dimostrò di non avere la tempra del governante e compromise ancora la propria situazione e quella del figlio nominando protosebasto3 un nipote del defunto imperatore di nome Alessio Augusto, giovane prestante, con grandi doti per brillare nelle feste di palazzo e nessuna per occupare l’alta carica di cui era investito. Rapidamente la bellissima Maria si guadagnò l’avversione dello stesso popolo che al suo arrivo, vent’anni prima, aveva conquistato con la propria grazia e cominciò a essere chiamata spregiativamente “la straniera”. La sua colpa, oltre a essere discendente di crociati, era quella di cercare l’appoggio delle influenti colonie italiane residenti in città; appoggio che l’augusto marito non aveva esitato a procurarsi pagandolo con lucrosi privilegi. Nella corte correvano voci che il bel protosebasto nutrisse ambizioni di usurpare il trono sposando Maria e che lei lo assecondasse nelle sue aspirazioni. Tra i molti nemici dell’imperatrice figurava Maria Porfirogenita4, figlia di primo letto di Manuele, donna forte e audace che detestava la matrigna e insieme al giovane marito, il cesare Ranieri di Monferrato, cospirò. L’intrigo fu scoperto e Maria, Ranieri e gli altri congiurati furono costretti a rifugiarsi in Santa Sophia, ben provvisti d’armi per resistere al sicuro attacco delle forze imperiali. Attacco che non si fece attendere e che trasformò i portici della chiesa in campo di battaglia. Il patriarca Teodosio che, come il resto del clero e il popolo, appoggiava gli insorti dovette intervenire di persona per fermare i combattimenti. Il popolo reagì scandalizzato davanti al sacrilego assalto alla cattedrale. In quel clima di aperta ostilità verso il governo, l’imperizia del protosebasto lo spinse a esiliare in un monastero il patriarca, colpevole di essersi schierato a favore dei congiurati. Il popolo si recò in massa al monastero dove il patriarca era segregato e tra acclamazioni lo riportò a Santa Sofia. Il governo perfezionò la propria sconfitta graziando Maria Porfirogenita e i suoi compagni.

Manuele I aveva un cugino che in vita gli aveva arrecato non pochi grattacapi. Si chiamava Andronico e sembrava toccato dalla mano di un dio. Era bello, atletico, prode paladino e di grande carisma. Nella corte bizantina era una seducente e ingombrante figura; amato dalle donne e ammirato dai giovani che ne imitavano l’eleganza. La sua intelligenza e la sua ambizione erano pari alla sua spregiudicatezza. Diede scandalo per gli amori con donne della propria famiglia; fu accusato, forse a torto, di voler uccidere il cugino imperatore che finì per imprigionarlo. Dalla prigione tentò due volte la fuga, la seconda con successo. Ebbe parecchi incarichi nelle province, dove veniva inviato fondamentalmente per allontanarlo da Costantinopoli. La sua vita fu una successione di avventure e scandali amorosi; Manuele provava per lui un tenace affetto, i due erano stati molto vicini fin dall’infanzia, e più volte lo perdonò. Infine gli fu concesso un dorato ritiro nella città di Oianaion, luogo meraviglioso dove dimorò con l’amante Teodora, vedova di Baldovino III di Gerusalemme e sua cugina. Con lei aveva menato una vita errabonda, ospite di diversi principi, molti dei quali musulmani. La relazione con la cugina e l’amicizia con gli infedeli gli valse la scomunica, punizione che non modificò in alcun modo il suo stile di vita. Nell’agitata capitale, il ricordo della sua personalità iniziò a colmarsi di connotati salvifici. Maria Porfirogenita gli inviò messaggi pregandolo d’intervenire; verso di lui puntavano le attese dei nobili risentiti e del popolo in cui frustrazioni e rancori si andavano tramutando in pericoloso nazionalismo. Soltanto lui, il valoroso Andronico, avrebbe potuto liberare Bisanzio dall’odioso governo della “straniera” e salvare l’impero dalla cupidigia degli occidentali. Andronico aveva sessantatre anni, ma la sua natura non era cambiata e la mai del tutto assopita ambizione di salire sul trono si risvegliò. Da uomo saggio, seppe aspettare il suo momento; lasciò che i figli partecipassero ai complotti della principessa Maria e si mostrò preoccupato per la sorte dell’erede Alessio, circondato da cattivi consiglieri, e per quella dell’impero in mano a un governo inetto e succube dello straniero. A metà del 1182, quando i tempi furono maturi, lasciò il ritiro di Oianaion e mosse verso Costantinopoli con un esercito di barbari. Al suo passaggio il popolo giubilante lo acclamava come il suo eroe e inutili erano i tentativi di arrestarlo compiuti dai governatori fedeli all’imperatrice. Non ci riuscì neppure il generale Andronico Angelo, inviato al comando delle truppe imperiali che, dopo essere stato sconfitto, passò dalla sua parte. L’inarrestabile marcia lo portò a piantare le tende di fronte a Costantinopoli, nei pressi di Calcedonia, sulla riva asiatica del Bosforo. La flotta agli ordini del megaduca Alessio, parente dell’imperatore, che avrebbe dovuto sbarrargli il passaggio dello stretto disertò e Andronico, ormai padrone della situazione, inviò dall’accampamento un ultimatum al governo. Esigeva che fosse sostituito il protosebasto, che l’imperatrice si ritirasse in un convento e che il potere passasse nelle mani del giovane Alessio. Gli insorti arrestarono il protosebasto e lo consegnarono ad Andronico che lo fece evirare e accecare. Nobili e popolani attraversavano il Bosforo soltanto per contemplare il loro eroe, impazienti di vederlo entrare in Costantinopoli. Andronico, tuttavia, temporeggiava: era pericoloso avventurarsi nella capitale dove stanziavano i varanghi5 dalle accette, pronti a difendere la reggente che contava sull’appoggio delle potenti colonie latine. Egli dando, ancora una volta, prova della sua abilità e della capacità di servirsi di ciò che il momento gli offriva, seppe sfruttare il rancore verso gli stranieri che covava in seno al popolo: fece circolare voce che i latini si preparavano a lanciarsi sui greci e, come aveva previsto, queste dicerie furono sufficienti a scatenare l’inferno. Molti latini, al corrente della congiura, fecero in tempo a imbarcarsi su quarantaquattro galee che sostavano nel porto e fuggirono; altri, insieme alle loro famiglie, fecero altrettanto su alcune navi: furono i pochi fortunati che evitarono la morte o la schiavitù. Quelli rimasti nella capitale videro piombare su di loro la furia selvaggia del popolino greco. Non furono vittime inermi, diedero mano alle armi e si difesero strenuamente, ma la superiorità numerica e la spietatezza degli avversari ebbero la meglio. La folla inferocita incendiò le case con intere famiglie dentro; la stessa sorte subirono le chiese dove tanti si erano rifugiati; chi usciva, fuggendo le fiamme, veniva fatto a pezzi sulle strade. Il clero incitava la marmaglia a scovare monaci e sacerdoti della Chiesa Romana che venivano in seguito uccisi tra orribili tormenti. Oltraggiosa, oltre a crudele, fu la sorte del cardinale Giovanni, inviato della Santa Sede: gli venne tagliata la testa e, legata alla coda di un cane, fu trascinata per le vie di Costantinopoli tra lo scherno della plebaglia. Le tombe furono profanate e i cadaveri trascinati per piazze e strade. La turba assalì l’ospedale di San Giovanni, trucidando senza pietà gli infermi ricoverati. Alcuni monaci e sacerdoti greci venivano pagati per stanare chi si era nascosto e che una volta scoperto veniva spietatamente ucciso, non senza che prima chi lo aveva individuato avesse riscosso la ricompensa pattuita. Sterminare totalmente le comunità latine presenti a Costantinopoli non era impresa possibile, neanche a un popolo inferocito e senza remore di misericordia; molti ebbero salva la vita, ma pagarono la salvezza con la libertà. I latini scampati al massacro, all’incirca quattromila, furono radunati e venduti come schiavi ai turchi, assicurando un buon guadagno a quei greci che si erano mostrati clementi non uccidendoli. Le comunità più colpite furono la genovese e la pisana -più tardi, i genovesi chiesero alle autorità bizantine il risarcimento per gli ingenti danni-, mentre non furono molti i veneziani che perirono perché, dopo i fatti del 1171, la loro collettività si era reintegrata in città soltanto in piccola scala. Le galee e le navi fuggite dal porto erano rimaste non lontane dalla costa; dalle coffe gli uomini assistettero impotenti al massacro e lo sdegno fu tale da spingerli ad abbandonarsi alle stesse scelleratezze inflitte ai loro conterranei. Quarantaquattro galee e numerose navi, con a bordo uomini accecati dalla rabbia e dalla sete di vendetta, costituirono la temibile armata che flagellò le coste del mar di Marmara dal Bosforo ai Dardanelli. Non ci fu città, castello o borgo che non venisse preso d’assalto; incendiarono abitazioni, chiese, cittadelle e quante costruzione trovarono; fecero scempio della popolazione senza distinzione di età o di sesso. Un accanimento particolare fu riservato ai monasteri dove i monaci greci pagarono con usura ciò che era stato fatto ai religiosi latini. I danni materiali subiti nella capitale furono lautamente compensati con i frutti del saccheggio; a fornire la preda più consistente furono i monasteri che custodivano enormi ricchezze in oro, argento, gioielli e panni pregiati, oltre a scrigni colmi d’oro che i cittadini di Costantinopoli depositavano. I profughi, proseguendo nella loro devastante marcia, raggiunsero Sefto e Abido, passarono nel Mediterraneo e continuarono, mettendo a ferro e fuoco le coste della Tessaglia. L’armata s’ingrossò con dieci galee prese a Crisopole di Macedonia che si aggiunsero alle molte conquistate nei diversi luoghi razziati; ormai la flotta era diventata di tutto rispetto e le devastazioni e le stragi aumentarono. I fuggiaschi imbarcati sulle navi con mogli e bambini, nauseati di tanto sangue, decisero di lasciare l’armata e deviarono verso la Siria; approdarono a Tiro dove raccontarono le loro sventure. L’arcivescovo Guglielmo di Tiro trascrisse nel libro vigesimo secondo della sua Historia il loro racconto, testo di cui mi sono servita per ricostruire i sanguinosi fatti. Due cronisti greci, di cui uno è Niceta Coniate, riportano nelle loro cronache notizie del massacro;
i cronisti italiani, invece, inesplicabilmente tacciono e soltanto un pisano, Bernardo Maragone, riferisce l’accaduto nei suoi Annales pisani.
The Massacre of Italic Colonies at Constantinople in 1182.
The hatred that in 1182 drove the Greek to carry a massacre in the Latin quarters of Constantinople had ancient origins. Europe had finally awakened; the Barbarians’ bloody raids, after hundreds of years of devastation, had at last been repressed in the second half the X century. Ottone I the Great, king of Germany, had definitely defeated the Hungarians in the battle of Lechfeld – August 10, 955 – and the terrible nomadic people of predatory shepherds and warriors coming from the depths of Asia to terrorize Europe for over half a century, had finally become permanent, learning how to cultivate land and turned to Christianity. Also the Normans had settled down and the Muslim advance limited itself to the Mediterranean Sea withdrawing from Spain because of the Christian recapture. Once again land was farmed; in the fortified cities many crafts were flourishing and demographic growth had new impulse. This general development had its highest peaks in the Italian Marine Republics, where economy quickly increased also thanks to improvement in navigation techniques, which facilitated trades with overseas countries. The initiative of merchants from Genoa, Venice, Pisa, Amalfi and other minor cities on the Italian coast, pushed the search for business to new and farther markets. The competition was fierce and the fight for prevailing lead to long wars, often fought in those very same foreign cities whose market’s monopolization was to be conquered. As an example we can mention the Venetian attack to the Genoese quarter in Constantinople in 1170. One the most desirable market was the capital of the Byzantine Empire that has always regarded itself also as the true Roman Empire’s capital and called “Roman” its own citizens and was looking with animosity at the prosperous and still growing Latin’s marine business. Constantinople was the charming capital of a declining empire, living of its past greatness, refined and corrupted and above all unable to oppose the spreading of materialism brought in by the rough western people, whose barbarian customs were despicable and whose boldness was to be feared. Apart from all practical motivations, the Church also put forward “spiritual” ones, condemning the Latin as heretic followers of the Pope. Economic power often leads to political power, as history shows, and the privileges granted to the Latin colonies by Manuele I° Comneno, are a good example of it. Manuele’s relationship with Latin, Venetians in the first place, but also with Pisanese, Genoese and feudal Families in northern Italy, like the Monferrato, were very close but complicated too. Manuele, whose great rival was Barbarossa, never gave up his dream of uniting the Eastern to the Western under his throne and never hesitated to form alliances nor to plot with whoever could help him to realize his dream – for example the catch and imprisonment, conducted by Corrado of Monferrato, of Cristiano who was Archbishop of Magonza and arch-chancellor for Barbarossa. To grant himself good alliances he was forced to make many great concessions, but nevertheless he managed to be severe and hard when needed, as he did when in March 1171 he ordered the arrest and imprisonment of all Venetians following their clean refusal to repay for the damages they had procured the year before during their attack to the Genoese quarter. Reason of State were totally obscure to the common people who ignored the fact that the presence of Italian colonies was positive for the city’s economy, while all they noticed was that the foreigners were far too rich and too arrogant, that the Basileus had too much consideration for them and finally that they were heretical too. In 1180 Manuele unexpectedly died and his death must have greatly surprised him: notwithstanding the severe illness and high fever, he kept repeating to himself and to all others around him that he was sure to recover because the prophetic had predicted him a further fourteen years of life and therefore he would soon return to his beloved gallant adventures. He left his Empire to his eleven-year-old son Alessio and the regency to his wife Mary of Antioch. Soon Mary proved unfit to govern and compromised even further her own and her son’s situation by appointing as Protosebasto an Emperor’s nephew called Alessio Augusto, a young protestant who had great skills for organizing feasts and parties, but none to honour the high role he had been invested with. Quickly the beautiful Mary was dislikes by the same people who loved her so when she first arrived 20 years before, and who now held her in contempt and called her “the stranger”. Her guilt, on top of being a descendant of Crusaders, was her seek for support amongst the influent Italian colonies in the city, the same support that her husband had obtained and paid for giving out grants and privileges. Rumours at the Court were that an attractive Protosebasto had ambitions to marry Mary to obtain the throne and that she was quite consentient. One of the many enemies of the Empress was Mary Porfirogenita, daughter of Manuele and his first wife. She was a strong and smart woman who hated her stepmother and finally conspired against her with the help of her young husband, Ranieri of Monferrato. The conspiracy was discovered before it took place and Mary Ranieri together with other plotters escaped to Santa Sophia where the Empress’ troops attacked them, turning the Cathedral’s porch into a battlefield. Patriarch Teodosio who was on the rebels’ side, had to personally intervene to stop the fighting and the town’s people reacted horrified to the sacrilegious assault at their Cathedral. The people’s feelings for the government were openly hostile and things worsened when the foolish Protosebasto exiled the Archbishop to a monastery as a punishment for taking the rebels’ side. The people marched on the monastery where the Archbishop was segregated and triumphing brought him back to Santa Sophia. At that point the government, facing its defeat, had no choice but to pardon Mary Porfirogenita and her companions.
Manuele I had a cousin who had caused him many a problem. His name was Andronicus and he seemed to be ‘touched by the hand of God’. He was handsome, athletic and brave and had a great charm. He was a fascinating and imposing presence at the Byzantine Court, loved by women and admired by young men who tried to imitate his elegance. His cleverness and ambition were as strong as his open views on life. He raised many scandals for his love-affairs with women belonging to his own family; he was even accused, maybe wrongly, and imprisoned for conspiracy against his cousin the Emperor. He twice tried escaping from prison and the second time he was successful. He had many assignments in the provinces, where he was sent mainly to keep him out of Constantinople. His life was studded with adventures and love scandals; Manuele loved him dearly: the two of them had been very close since their childhood and many a time he forgave him. At one point Andronicus retired in the city of Oianaion, a beautiful place, living with his cousin and lover Theodora, the window of Baldovino III of Jerusalem. With her he had had a vagabond life, hosted by various princes, many of which were Muslim. This love affair with his cousin along with his friendship with the infidel lead to his excommunication, but nevertheless the punishment didn’t make him change his behaviour. In the troubled Capital his personality became cult and he was considered as some sort of saver. Maria Porfirogenita sent him messages asking for help; the nobles counted on him and so did the people whose frustration and grudge were quickly turning to a dangerous nationalism. Only the brave Andronicus could have set Bisanzio free from the hateful “stranger” and save the Empire from the Western’s greed. Andronicus was 63 years old, but his nature hadn’t changed and so his old ambition to ascend the throne was renewed. He was wise enough to wait for his moment; he didn’t interfere with Princess Maria’s plots and showed his concern for young Alessio who was surrounded by bad advisors, also showing his worry for the Empire in the hand of such a bad government dominated by foreigners. In the middle of year 1182, when the time was right, he left his retreat in Oianaion and marched towards Constantinople at the head of a Barbarian army. As he moved along the territory, jubilant crowds welcomed him as a hero and only vane were all the attempts to arrest him made Governors still faithful to the Empress. Even General Andronicus Angelo, commanding the Imperial troops, was defeated and eventually he joined the opposite side. At last Andronicus arrived close to Constantinople, nearby Chalcedon on the Bosporus’ Asiatic shore. The navy fleet at the head of Archduke Alessio, an Emperor’s relative, deserted instead of barring the way through the Straits and Andronicus, at last master of the situation, from his encampment sent an ultimatum to the Government. He demanded the substitution of the Protosebasto, the Empress’ retirement in a convent and that all powers were given to young Alessio. The rebels arrested the Protosebasto and took him to Andronicus who had him blinded and castrated. Nobles and common people crossed the Bosporus just to see their hero, eager to see him entering Constantinople. Nevertheless, Andronicus was taking his time: it was dangerous to venture in the Capital where “Varaghi with Axes” were quartered and ready to defend the Empress who could also count on the powerful Latin colonies’ support. Andronicus once again gave proof of his ability in exploiting the situation and used the people’s grudge against foreigners: he spread rumours that the Latin were about to attack the Greek and the reaction to these mere rumours was enough to stir up a riot. Many Latin, aware of the plot, made it in time to escape on board of 44 galleys that were temporarily anchored in the port; others, together with their families, managed to sail with other ships. Those were the few lucky ones to avoid death or slavery. All those who remained in the Capital had the fury of the Greek people upon them. The Latin in the city didn’t act as helpless victims, instead they fought and bravely defended themselves, but the enemy was far more superior in quantity and at last they were won. The furious crowd burnt houses with entire families still inside; the same happened to churches where many people sought for shelter; those who ran out of the burning houses were killed in the streets. The Clergy incited the mob to find monks and priests of the Roman Church and kill them with no hesitation. Outrageous and cruel was Cardinal John’s fate, sent to Constantinople by the Pope himself: he had his head cut off and, tied to a dog’s tail, the head was dragged across the streets. Tombs were profaned and corpses thrown in the middle of the streets. The mob assaulted Saint John’s Hospital and the invalids were killed with no pity. Greek monks and priests got paid to reveal hide-away places of Latin who had trusted them and asked for help. Nevertheless it was impossible to totally exterminate the Latin colonies in the city and those who weren’t killed paid their life with their freedom. The Latin who survived the massacre, about four thousand people, were gathered and sold as slaves to the Turks, with a good gain for those Greeks who had spared them their lives. The Genoese and the Pisa communities had the worst and later on the Genoese asked the authorities compensation for damages. Not many Venetians died because after the happenings in 1171 their presence in the city was quite small. The galleys and ships that had sailed from the port had remained close to the coast and from the decks the fugitive bore powerless witness of the massacre; their terrible anger later brought them to seek for revenge acting in the same way as their enemies did. In fact 44 galleys and many ships, carrying furious men, was the dreadful army that fell upon the coats of the Marmara Sea from the Bosporus to the Dardanelles. No city nor village or castle was spared; they burnt down houses, churches and any construction they came across, killing people of any age and sex. Monasteries were treated with particular cruelty and the Greek monks largely paid for what had been done to Latin monks. And of course all material damages were paid off by sacks, especially in monasteries and churches where great quantities of riches in silver, gold and jewels were kept. The refugees, carrying on their devastating march came to Sefto and Abido, went through the Mediterranean Sea and on, sacking the Tessaglia’s coast. The fleet was increased by 10 more galleys taken from Crispole of Macedon plus many other ships conquered in the many raids. The terrible army was by now totally devastating any place they approached. Some of those on board, who had sailed with their families and children, soon became sick of the bloodshed and violence and decided to move away towards Syria. They finally landed in Tyro and told William, the Archbishop of Tyro, about their terrible adventures. He registered their narrations in the 22nd volume of his “Historia”. The Archbishop’s writings have been useful to reconstruct the bloody facts. Two Greek chroniclers, one of which is Niceta Coniate, also gave news of the massacre. Funnily enough Italian reporters of the time make no mention of it, apart from Bernardo Maragone from Pisa who wrote about these facts in his Pisa Annals.
Sono nata a Cruz del Eje, una cittadina della provincia di Cordoba in Argentina. Mia madre era figlia di italiani; mio padre, un giornalista argentino di ascendenza basca, morì prima del mio secondo compleanno. Sono cresciuta a Cordoba in una famiglia di sole donne: mia madre, due sorelle molto più anziane di me e mia nonna materna: fu lei a insegnarmi ad amare l’Italia. Era nata a Sartirana Lomellina in provincia di Pavia e i ricordi del paese dell’infanzia che mi raccontava come fossero delle fiabe, destarono in me il desiderio di “ritornare” nella terra di origine. Finito il liceo, per colpa di effimeri entusiasmi giovanili, mi dedicai a studiare arte drammatica e più tardi regia cinematografica, tralasciando la scrittura che insieme alla lettura e all’interesse per la storia erano state fino ad allora – e oggi continuano a essere – realtà costanti nella mia vita.
Dopo alcune esperienze teatrali a Buenos Aires, realizzai il progetto maturato nell’infanzia e a lungo rimandato di “ritornare” in Italia. Di ritornare – senza virgolette – sentono, come me, molti figli o nipoti di emigrati, cresciuti lontani dall’Italia ma in un ambiente che ha mantenuto vive tradizioni e cultura italiane.
Contrariamente a ciò che avrebbe potuto desiderare mia nonna, non ho scelto per vivere Pavia o Milano, ma Roma. In questa città, carica di tempo e di storia, mi sento nel mio ambiente naturale.
Qualche mese dopo il mio arrivo, una borsa di studio mi permise di frequentare un corso di regia televisiva presso la RAI di Firenze. In seguito ho lavorato come assistente volontaria alla regia in un film di Franco Rossi e come fotografa per un’agenzia; nel contempo tenevo lezioni private di spagnolo. Furono anni felici ma difficili: finite le risorse portate dall’Argentina, dovevo trovare, o inventare, un lavoro che mi permettesse una certa stabilità economica. La ricerca mi condusse a scoprire la ceramica. I primi risultati furono piuttosto incoraggianti e in un tempo relativamente breve fui in grado di eseguire pezzi unici che venivano apprezzati e soprattutto si vendevano. La ceramica mi insegnò qualcosa di me che non avevo ancora capito: mi piace lavorare, creare in solitudine. Rinunciai al cinema e alla fotografia e ripresi a scrivere, in spagnolo; subito mi accorsi, però, dell’impossibilità di vivere e pensare in una lingua e scrivere nella sua sorella: se avessi scritto in tedesco, forse, la difficoltà non sarebbe esistita. Avevo iniziato a studiare italiano da adolescente, lo parlavo e lo leggevo perfettamente e, se non fosse stato per le doppie spesso e volentieri messe a sproposito, avrei anche potuto ritenere di saper scrivere, ma fare letteratura, naturalmente, era tutta un’altra storia. M’impegnai a perfezionare l’italiano: se mia sentivo questa terra dove non ero nata, mia doveva essere la sua lingua. Fu un periodo molto intenso, di lunghe e diversificate letture: letteratura, storia, antropologia, psicologia, storia delle religioni. Seguii un corso di latino presso l’Università Gregoriana di Roma e di francese presso l’Alliance Francaise. Mi preparavo, ma dubitavo di avere capacità sufficiente per affrontare con serietà la scrittura. Diventare scrittrice mi appariva un traguardo troppo in alto per le mie forze. Un Natale ricevetti in regalo I miti di creazione di Marie Louise Von Franz, quel libro mi diede la spinta, il coraggio che mi mancava e nacque il mio primo romanzo: I quattro lati del cerchio che, una volta finito, giudicai troppo sperimentale e saggiamente lasciai nel cassetto. Cominciai a lavorare a Il cammino e il pellegrino e per cinque anni frugai tra le pieghe della storia fiorentina della fine del XIII secolo per costruire la quotidianità dei miei personaggi. Il nuovo romanzo ebbe lettori di eccezione come Pietro Citati e Daniel Chavarria che lo apprezzarono e mi incoraggiarono. Fece parte della cinquina del Premio all’inedito Palazzo al Bosco e Giovanna Querci Favini, promotrice del premio, tentò senza successo di farlo pubblicare. Finito il libro, gli studi sul medioevo italiano continuarono. Intanto con alcuni amici ho fondato l’Associazione Culturale Clara Maffei di cui sono presidente. A settembre del 2009 ho finito il mio terzo romanzo: I panni del saracino. All’edizione di quell’anno di Più libri più liberi ho contattato Anna Grazia D’Oria presso lo stand della Pietro Manni editore. Era la prima volta che mi rivolgevo a una casa editrice indipendente; la mia intenzione era chiedere di visionare l’ultimo romanzo. Sul momento, tuttavia, ho cambiato idea e le ho parlato di Il cammino e il pellegrino; è stato uno slancio di puro istinto. A giugno mi è arrivata la proposta di contratto che ho accettato. I panni del saracino attende fiducioso il suo turno; intanto lavoro a un nuovo romanzo e pubblico articoli e piccoli saggi di storia medievale sul sito dell’Associazione Clara Maffei.
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