Massafra bizantina. Viaggio nella città nascosta Testo e foto di Marco Corrias (alias Marc Pevèn)
Riflesso d’orizzonti orientali: dai Balcani alla Grecia, dalle rive egee fino al golfo del Bosforo. La Puglia, che per lungo tempo aveva fatto parte del regno di Langobardia, nel biennio 1155-1156 fu rivendicata e strappata agli arabi dalle milizie bizantine inviate dall’imperatore Alessio Comneno. Presto le rocche di Bari (tò kastròn Bàreos), vecchia capitale del Catapanato d’Italia dove appena un secolo prima erano state traslate le reliquie di San Nicola di Mira, ripresero le funzioni un tempo spettanti all’esarcato di Ravenna: fu così che i dromoni, navi da guerra bizantine del piccolo e ricco regno di provincia creato a somiglianza di Costantinopoli, tornarono ad affacciarsi prepotentemente sui mari. Eppure, il predominio della cultura greca in Puglia non fu ottenuto solo con le armi, né per via della nuova ricchezza diffusa: il merito maggiore è da attribuirsi al dilagante fenomeno del monachesimo siro-palestinese, che tra X e XII secolo colonizzò la regione con l’insediamento di villaggi rupestri.
Non lontano dagli opulenti latifondi coltivati a ulivi, cereali e vigne, nelle zone più impervie della provincia di Taranto andarono presto addensandosi estese “criptopoli”: città segrete, ricavate dallo scavo plurisecolare dei fianchi di burroni tufacei detti “gravine”. Con lo stanziamento degli eremiti venuti da Oriente, questi antri furono riadattati e coperti di immagini sacre affrescate in stile bizantino, dove il contrasto tra le cromie e il medium della pietra grezza pone in massimo risalto il valore del misticismo teologico trasposto in pittura.
A testimonianza di storie di comunità monastiche di antichissime origini la regione delle Murge, da Grottaglie, Massafra, Mottola e Gravina a Matera e Altamura è punteggiata da una trentina di chiese rupestri, spesso di notevole valore storico-artistico: una vera e propria Cappadocia pugliese. All’imboccatura del Parco Regionale delle Gravine si innalza lo sperone roccioso di Massafra: la più importante città rupestre pugliese, che per via della sua millenaria vocazione eremitica é stata soprannominata “Tebaide d’Italia”.
Proprio a imitazione di sant’Antonio abate, che verso il 306 d.C. era emerso vittorioso da una volontaria reclusione espiatoria nel deserto egiziano della Tebaide, i suoi adepti usarono espiare i peccati del genere umano isolandosi, pregando e digiunando in terre ostili e disabitate. Pur essendo difficile, in carenza di scavi sistematici, offrire una cronologia precisa della fenomenologia rupestre, il periodo di massima frequentazione del sito é attestato tra X e XI secolo: la prima notizia storica attestante l’esistenza di un monaci orientali a Massafra, il cui territorio, peraltro, risulta frequentato come sito trogloditico fin dall’età della Pietra, si registra nel 971 d. C. Gli ambienti ricavati nel tufo, riabitati dall’alto Medioevo come rifugio isolato dagli assalti nemici alle grandi città, furono presto adibiti a nuovo uso.
L’insediamento tra le grotte da parte di comunità cristiane dedite all’austerità prevedeva le difficili attività di purificazione spirituale (askesis) e fuga dal mondo (anachoresis). Se un contadino si fosse fatto monaco, questi avrebbe ceduto la sua terra a una cappella da erigere; con il tempo, altri due o tre braccianti si sarebbero uniti a lui e cosi di seguito, fino alla creazione di una nuova comunità monastica.
Attualmente, a ridosso di un pianoro urbanisticamente saturo, il centro moderno di Massafra é solcato da ben due gravine costellate di grotte e villaggi ipogei.
La vistosa gravina orientale, dedicata a San Marco e occupata da un villaggio rupestre, con le chiese di santa Marina, della Candelora e san Marco incarna una preziosa testimonianza di vita ascetica; sulla faglia aperta si staglia il castello di origine normanna, munito di torri cilindriche. Vedere un villaggio trogloditico così ben inserito in un centro abitato fa del contesto massafrese un habitat unico al mondo.
Calandosi nella gravina, il primo esempio architettonico in cui ci si imbatte é la notevole chiesa-cripta della Candelora: l’edificio a pianta basilicale, risalente alla fine del XII secolo, è una delle strutture più raffinate della scuola salentina. Il suo sistema, impostato su uno spazio di tre navate ad andamento trapezoidale appositamente ideato per favorire la diffusione della luce naturale, sorregge una cupola circolare impostata su mensole in cui é fedelmente applicata la concezione geometrica bizantina dell’ottagono inscritto in un quadrato.
La chiesa-cripta deve la sua intitolazione all’abitudine popolare di chiamare la festa cristiana della Presentazione di Gesù al Tempio col nome di “Candelora”.
Il rito cristiano delle candele, legato al lento ritorno della luce primaverile, preesisteva già presso i pagani; é il caso della festa celtica di Imbolc, dei Lupercalia romani, delle calende di Febbraio dedicate a Giunone e dei riti in onore dell’anatolica Cibele, “Grande Madre Idea”: queste ultime due figure femminili, legate ai cicli lunari, alla fertilità e al ritorno alla vita prefigurano l’immagine di Maria.
Sulle pareti sopravvive un importante ciclo di affreschi tematicamente riconducibili proprio alla liturgia d’iniziazione: nella scena della Presentazione al Tempio la Vergine, raffigurata secondo il celebre modello greco dell’ “Odeghitria” ossia di “Colei che indica la via”, mostra il Cristo bambino offerto a san Simeone quale sacrificio per la salvezza dell’umanità.
Dinnanzi al bambino si ricordano le parole del vecchio profeta: “egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, perché siano svelati i segreti di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima”. (Lc 2,25-35)
Con questa profezia sibillina il profeta preannunciava la morte dell’amato figlio e il terribile strazio di sua madre. Non a caso, lo spazio mistico della ritualità bizantino si soffermò spesso su questa dimensione: la dimensione del sacrificio reale, ma anche allegorico. Nella cripta massafrese della Candelora un’altra icona della Vergine, sulla destra, stringe per mano un Cristo infante, osservandolo con la tenerezza tipica della tipologia della “prolexis” ossia “anticipazione”: la prefigurazione simbolica della futura Passione. L’altrettanto singolare immagine del bimbo “carpoforo”, portatore di un cesto colmo di frutta come un putto dionisiaco, allude alla conversione cristiana in doni dello Spirito Santo.
Perché vivere e cercare la quiete spirituale proprio sotto terra? La cripta, dal greco “Kryptē”, ossia “luogo nascosto”, destinata in seguito custodire tombe e reliquie di santi, era originariamente il grembo della Madre Terra, regno delle divinità generatrici: in questo luogo privilegiato d’incontro tra l’uomo e il Dio reincarnato, con la mediazione della Vergine, il mondo esterno era tenuto severamente lontano.
Ebbene sì: Maria è discendente delle antiche dee della natura e dei cicli lunari. Ancora nel V secolo dopo Cristo, il teologo Isidoro da Pelusio sollevò la scottante disputa sulla distinzione tra la Madre di Dio cristiana e le misteriche divinità femminili legate al politeismo: poiché a livello popolare il problema, sentitissimo, era causa di fraintendimenti continui, i teologi optarono a favore di una maternità virginale intesa come vera e propria “gravidanza umana”.
Fu per lo stesso motivo che gli imperatori d’Oriente del VI secolo avanzato consolidarono il concetto di piena umanità di Maria supponendone la morte, benché nobilitante, attraverso l’assunzione in Cielo. Il problema del riconoscimento del culto universale della Vergine come creatura umana e al tempo stesso genitrice di Dio fu risolto dal concilio di Efeso del 435 d.C
Eppure, i residui di paganesimo sopravvissero ai secoli: a Massafra l’arredo liturgico in pietra ripropone caratteri ereditati dagli antichi templi greci. Il “naos”, antica casa del nume e del suo simulacro, diventa lo spazio adibito ad accogliere visioni dipinte: é il luogo di manifestazione, proibita ai più, della divinità rupestre; il “bema”, dove si celebravano i riti, non era altro che l’antico altare sacrificale.
Più in là, tra le grotte, le erbacce e le essenze selvatiche di malva, fichi e capperi, si cela San Marco; la chiesa-cripta che diede il nome alla faglia tufacea, con le sue due navate affiancate, separate da pilastri scolpiti e graffiti a caratteri greci e latini, testimonia la convivenza pacifica di comunità di confessione mista, abituate senza problemi a officiare in comune: una navata era dedicata ai fedeli del culto greco-ortodosso, l’altra a quelli di confessione latina e cattolica.
Per raggiungere la gravina occidentale bisogna attraversare il disadorno centro abitato, costellato da episodi poco felici di edilizia anni ’50, dove soltanto una guida del luogo potrà indicate le vie, oggi invisibili, per nuove cripte nascoste. L’itinerario mistico, che porta ad accedere ai sotterranei di un vecchio ospedale civile, nasconde l’antichissima chiesa ipogea di Sant’Antonio (X-XI sec.)
Anche qui, come in san Marco, una cripta molto antica accoglie due chiese affiancate e distinte, con nicchie parietali affrescate risalenti a periodi distinti, databili tra il XIV e XV secolo. Il campionario iconografico, prettamente filo-bizantino, ostenta una “Déesis” (Cristo in trono, Signore del cielo, della terra e del mare, fiancheggiato dagli intercessori: la Mater Domini e Giovanni Battista), San Pietro con le lettere e le chiavi, e numerosi santi (Paolo eremita, Sant’Antonio, i santi medici Cosma e Damiano).
L’arrivo alla gravina occidentale presenta nuove sorprese: la basilica di Santa Maria della Scala, creata ad immagine della Gerusalemme celeste, le cripte affrescate di San Lorenzo, di San Simeone in Famosa, della Buona Nuova e l’Antro del Ciclope.
Il viaggio nella valle si conclude in fondo a un burrone, a 200 metri di profondità, dove sorge la “Farmacia del mago Greguro”: un’imponente struttura tufacea punteggiata di buchi e costituita al suo interno da celle comunicanti, di cui i monaci si sarebbero serviti per depositare erbe medicinali.
Insieme al nome del misterioso taumaturgo, la tradizione locale ha tramandato il ricordo di molti altri maghi e streghe vissuti nei secoli proprio in queste valli. Dalla Farmacia del mago Greguro alla Gravina della Zingara, dal Noce dei Maghi al Corno della Strega fino alla Punta del Monte Moro e al Rione degli Ostinati, la Murgia è la terra dove un tempo gli stregoni praticavano riti divinatori e preparavano filtri magici. D’altra parte quale altro luogo se non Massafra, antico centro della spiritualità medievale in Puglia, dapprima dimora di antiche divinità rupestri e poi Tebaide d’Italia, si presterebbe ad accogliere nel suo grembo di pietra i grandi misteri insondabili della teosofia altomedievale?
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Mi chiamo Marco Corrias (Milano – 1980) e sono un appassionato Specialista storico dell’Arte.
Ho frequentato il triennio in Scienze dei Beni Culturali presso l’Università Statale di Pavia e il biennio di Specializzazione in Storia dell’Arte all’Università Statale di Genova, uscendone a pieni voti con una tesi sull’architettura romanica nell’area del Verbano e del Canton Ticino tra XI e XII secolo: tipologie caratteristiche, somiglianze e differenze; maestranze itineranti, cave di pietra e litotipi utilizzati nell’area.
In seguito ho intrapreso un nuovo biennio di Scuola di Specializzazione post lauream in Beni Storico-Artistici, con una tesi relativa allo sviluppo dell’oreficeria barbarica nel bacino Carpatico-Danubiano tra Tardo Antico e alto Medioevo, incentrato sul regno dei Gepidi prima e dopo la dominazione unna, alla ricerca delle antiche officine orafe.
Abilitato come guida turistica per le Province di Milano e Pavia, svolgo saltuariamente questa attività in Lombardia con l’intenzione di ampliare il mio raggio d’azione.
Attendo con trepidazione la pubblicazione della mia ultima tesi per la casa editrice Il Cerchio e una guida storico-artistica relativa a insediamenti e castelli tra Preistoria e Rinascimento nell’area del Verbano per Macchione editore. Per quest’ultimo uscirà anche un romanzo storico con tocchi fantasy, ambientato nell’alto Medioevo (di cui verrà successivamente comunicato il titolo) e dal quale ho estrapolato racconti autonomi che mi hanno permesso di ricevere una serie di riconoscimenti letterari.
Attualmente mi sto organizzando per realizzare il desiderio di un dottorato e diventare docente in campo umanistico.
Nel frattempo, con grande soddisfazione gestisco il blog culturale “Wunderkammer – Lo spazio delle Arti”,
l’omonima community su facebook
e il gruppo “Medioevo Monumentale”
Mi potete trovare su Facebook sotto lo pseudonimo “Marc Pevèn”
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