di Alessandro Vanoli.
Se il clima nazionalista europeo aveva contribuito a recuperare l’idea di crociata, intesa tanto come espansione militare quanto come lotta per le idee, la Grande guerra, tra il 1914 e il 1918, ne divenne inevitabilmente la tragica cassa di risonanza: una «grande crociata» fu chiamata da Lloyd Gorge, che dal 1916 fu primo ministro dell’Inghilterra. A ben guardare, la parola così utilizzata rimandava a un suo significato più generico che ormai da quasi un secolo andava affermandosi: sempre di più infatti, per “crociata” si intendeva ora la battaglia per una buona causa, soprattutto di tipo religioso o morale, senza nessun particolare riferimento allo scontro con il mondo musulmano del Mediterraneo meridionale e orientale. Di quest’ultima accezione si finì col tenere conto però nelle campagne di Siria e Palestina nel 1917-18. Come è noto, in quel fronte orientale il generale inglese Edmund Allenby strappò ai Turchi Gerusalemme e Damasco; come forse è un po’ meno noto furono in tanti a vedere in quell’impresa l’atto definitivo di una storia secolare. Lo affermò a chiare lettere il solito belligerante primo ministro inglese «il cristianesimo aveva ripreso possesso delle sue sacre testimonianze» [1]; lo ribadirono Vivian Gilbert, veterano di quella campagna, in un libro significativamente intitolato The Romance of the Last Crusade, e H. Pirie-Gordon che vide nella presa di Gerusalemme “la continuazione definitiva di Guglielmo di Tiro”.
Era l’ultima crociata. O per meglio dire: in quell’ultimo scontro con l’impero ottomano, ricompariva la traccia, deformata e grottesca, di un’antica memoria. Lontano da qualsiasi coerenza storica, L’ultima crociata divenne pure il titolo di uno spettacolo scritto da un certo Lowell Thomas e incentrato sulla figura di T.E. Lawrence, l’avventuroso Lawrence d’Arabia, qui dipinto a esasperate – e false – tinte come l’ispiratore della rivolta araba che aveva distrutto l’impero ottomano. Lo spettacolo fu al Century Theater di New York nel marzo del 1919, poi attraversò l’Atlantico e per sei mesi rimase in cartellone a Londra, mentre negli anni seguenti avrebbe girato mezzo mondo raccogliendo un enorme successo e contribuendo non poco a creare quell’immagine avventurosa della spia inglese che nella memoria di tanti di noi ha, ormai, inevitabile, il volto ascetico e vagamente femmineo dell’attore inglese Peter O’Toole [2]. Appendice cinematografica di un destino teatrale che, come i lettori avranno notato, marchia non poco la storia dell’idea di crociata.
Torniamo un istante alla storia politica. Caduto l’impero ottomano con la fine della Prima guerra mondiale, era in un certo senso inevitabile che il termine sparisse in parte dalla scena, almeno per quanto riguardava l’idea, ad esso legata, di lotta contro il mondo musulmano. In realtà le cose sono, anche questa volta, più complicate. Da una parte, certo, prevalse, come già accennato sopra, il suo significato più generico di lotta per un nobile scopo; dall’altra, però, non venne meno la possibilità di continuare a legare – almeno in certi casi – l’idea di crociata a più articolate necessità di legittimazione politica. Cerco di spiegarmi con alcuni esempi.
Ricordavo nel contributo precedente come l’esperienza coloniale francese avesse recuperato il tema delle crociate tanto sul piano storiografico (Michaud), quanto su quello politico (il trattato di Versailles). Nel novecento la tendenza, manco a dirlo, continuò. Non vale la pena dilungarsi, ma furono in tanti gli storici che guardarono al levante come a una terra di “colonie francesi” e alle crociate come al momento della costruzione di una civiltà franco-siriana: Louis Madelin, René Grossuet, Jean Richard, per fare alcuni nomi: la crociata era divenuta per loro il momento fondatore di un improbabile mondo coloniale mediterraneo a marchio francese; non tanto diversa, in un certo senso, da quella che sarebbe diventata l’altrettanto improbabile Spagna franchista segnata, nel proprio passato, dalla civilizzatrice avanzata castigliana. La tradizione della Reconquista, infatti, aveva contaminato inevitabilmente la retorica politica già dagli inizi del Novecento e le cose non poterono che peggiorare negli anni del guerra civile (1936-39): se i membri della Brigata internazionale repubblicana si videro come combattenti di una crociata contro il fascismo, i franchisti dipinsero la loro rivolta contro il governo come una “crociata di Spagna”. E questo da subito, almeno da quando il vescovo di Salamanca Pla y Deniel pubblicò la lettera pastorale Las dos ciudades nella quale così si descriveva il colpo di stato militare del 18 luglio:
La spiegazione più chiara ce la offre il carattere dell’attuale lotta, che converte la Spagna in un spettacolo per il mondo intero. Essa riveste, sì, la forma esterna di una guerra civile, ma in realtà si tratta di una crociata (cruzada). Una sollevazione non per perturbare, bensì per ristabilire l’ordine [3].
Non si poteva essere più chiari, già a cominciare da quel titolo, Las dos ciudades: idea esplicitamente agostiniana, riadattata per le necessità presenti, dove i cristiani combattenti erano pronti al martirio in nome della Spagna racial y auténtica, lottando strenuamente contro i sin Dios y contra Dios.
Furono anni grigi, quelli, per tutto il Mediterraneo, e di crociate si parlò sin troppo, ma sempre più in questo senso generico di una lotta contro le varie forze del male; lotta che al massimo poteva rimandare – come nel caso spagnolo – a una più profonda matrice storica in cui si identificavano i combattenti, ma che non chiamava direttamente in causa il mondo musulmano. La parola, insomma, si confuse sempre di più con un significato generico di “guerra giusta”, concetto che in occidente (e non solo) ha una forte tradizione ma che non necessariamente deve essere legato all’idea di crociata intesa come scontro tra cristiani e musulmani.
Naturalmente il mondo islamico continuò comunque ad essere oggetto di molto interesse. Sono cose si troppo note ma val la pena dedicarvi qualche riga. Erano gli anni, quelli tra il ’20 e il ‘30, in cui il fascismo si si propose sempre più chiaramente come potenza mediterranea e africana, deputata a cacciare tutti gli estranei dall’antico e ritrovato Mare nostrum:
E’ destino che il Mediterraneo torni nostro. E’ destino che Roma torni a essere la città direttrice della civiltà in tutto l’Occidente d’Europa. Innalziamo la bandiera dell’impero, del nostro imperialismo che non dev’essere confuso con quello di marca prussiana o inglese [4].
Nello sforzo di reinterpretazione della nazione italiana, la guerra coloniale costituì uno degli elementi fondamentali: Addis Abeba avrebbe risarcito, secondo Mussolini la tragica sconfitta di Adua, mentre la conquista della Libia avrebbe definito ineluttabilmente la vocazione imperiale del paese. In questo senso, però, più che al medioevo crociato, si guardò a Roma e all’antico dominio mediterraneo che essa aveva saputo imporre; al più a tale modello “classico” poteva aggiungersi l’elemento provvidenziale, il segno di un’esplicita volontà divina:
Quando io penso al destino dell’Italia, quando io penso al destino di Roma, quando io penso a tutte le nostre vicende storiche, io sono ricondotto a vedere in tutto questo svolgersi di eventi la mano infallibile della Provvidenza, il segno infallibile della Divinità [5].
Queste parole il Duce le pronunciò a Tripoli l’11 aprile 1926. Non si parlava di crociata, anche perché, almeno formalmente, non era l’islam ad essere in discussione. Certo parrebbe, in queste righe, di ritrovare parecchi elementi a noi ormai ben noti. Ma la differenza, in realtà c’era: l’islam, si è detto, non era in discussione. Anzi, cominciava allora, si può dire, quella politica filomusulmana, forse un po’ disordinata ma incessante, che avrebbe portato Mussolini nel 1937 a imbracciare, con la consueta retorica, la spada dell’islam: un appariscente manufatto berbero in oro massiccio e finemente cesellato, che il duce alzò verso il cielo a siglare l’avvenuta congiunzione tra fascismo e islam.
E’ un’altra storia e non intendo approfondire. Ma dopo quei momenti, il destino dell’idea di crociata segue altre vie, la maggior parte delle quali, per la verità, carsiche. Alla fine del secondo conflitto il mondo coloniale europeo era in frantumi. L’islam fu sempre più – almeno in un certo senso – un problema marginale di fronte al manifestarsi del nuovo ordine mondiale dominato dalla schiacciante superiorità politica, economica e militare delle potenze statunitense e sovietica. Scomparsa o quasi dal linguaggio politico (almeno quando riferita all’islam) [6], la crociata, piuttosto, diventò tema di una matura riflessione storiografica, a partire almeno dal grande saggio di Runciman, History of the Crusades: in esso le spedizioni d’oltremare tornavano ad essere un fenomeno centrale dell’Europa medievale, allontanato nel tempo e guardato significativamente come «un lungo atto di intolleranza compiuto nel nome di Dio» [7].
Si potrebbe smettere qua, almeno se la storia avesse seguito altri percorsi. E’ sin troppo famosa l’azzardata previsione in calce a un famoso studio politologico del 1989: ormai il comunismo sovietico era morto e lo sgretolarsi del muro di Berlino altro non avrebbe portato che la fine della storia, l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale in cui i conflitti tra stati o etnie avrebbero avuto sempre più un carattere residuale [8]. Come purtroppo chiunque sa, le cose si sarebbero dimostrate drammaticamente diverse.
Il 16 settembre 2001, pochi giorni dopo l’atroce attacco terroristico alle Twin Towers, il termine “crociata” fece la sua ricomparsa in un ormai famoso discorso del presidente americano Gorge W. Bush. A onor del vero in quel contesto il presidente americano non fece tecnicamente riferimento alla lotta crociata contro l’islam, ma recuperò piuttosto un’idea già consolidata nella retorica politica della guerra fredda [9]: era, più genericamente, la lotta tra il bene e il male quella evocata da Bush; un’idea che forse rimandava più a Reagan che a Goffredo di Buglione. Dal punto di vista degli esiti, però, la cosa è in fondo meno rilevante: gli anni che sono seguiti hanno visto l’inevitabile recupero di questo termine, talvolta anche con notevole successo mediatico; e l’idea sottesa è purtroppo quella di un nuovo scontro tra cristianesimo e islam (per i più credenti) o tra occidente e civiltà islamica (per quelli che invece usano categorie a casaccio). Senza che questo suoni necessariamente come il canto del cigno della razionalità o almeno del senso storico, occorre prendere atto di questo ritorno terminologico e chiedersi quale sia la concreta portata di tale nuova idea di conflitto.
Bibliografia
Sul primo novecento, l’idea di crociata e la figura di T.E. Lawrence, si veda D. Fromkin, Una pace senza pace. La caduta dell’impero ottomano e la nascita del Medio Oriente moderno, Rizzoli, Milano 2002, in particolare pp. 347-77.
Sulla guerra civile spagnola e l’idea di crociata si veda G. Di Febo, La crociata e le rappresentazioni del nazionalsocialismo, in http://195.62.160.66/soprintendenza/SPAGNA/sez6-saggio27.htm
Per l’Italia, fondamentale rimane l’opera di A. Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale, Laterza, Roma-Bari 1976 (Vol. I); Laterza, Roma-Bari 1979 (Vol. II).
Per il fascismo e i temi qui trattati si vedano A. Del Boca – M. Legnani – M.G. Rossi (a cura di), Il regime fascista. Storia e storiografia, Laterza, Roma-Bari 1995, (in particolare il contributo di M. Isnenghi, Il mito di potenza); L. Canfora, Ideologie del classicismo, Einaudi, Torino 1980; R. De Felice, Il fascismo e l’Oriente. Arabi, Ebrei e Indiani nella politica di Mussolini, Il Mulino, Bologna 1988; P.G. Zumino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Il Mulino, Bologna 1995.
Un’interessante analisi del discorso di Bush è stata recentemente proposta da A. Weatcroft, Infedeli. 638-2003: il lungo conflitto fra cristianesimo e islam, Laterza, Roma-Bari 2004 (ed. ingl. London 2004), pp. 367-74.
Note
[1] War Memoirs of David Lloyd George, Boston 1934, VI, p. 98.
[2] Qualche anno più tardi Thomas scrisse un libro basato sullo spettacolo e intitolato With Lawrence in Arabia (New York-London 1924), in cui si ricostruiva – con imbarazzanti dosi di esagerazione – la carriera di Lawrence in Arabia, presentandolo come colui che, da solo, avrebbe promosso e guidato la rivolta dello Hijaz. Il film Lawrence of Arabia, del 1962, ebbe tra le sue fonti, oltre al libro di Thomas, anche l’autobiografia di T. E. Lawrence, I Sette Pilastri della Saggezza.
[3] “La dos ciudades”, carta pastoral del obispo de Salamanca (30-IX-1936), in A. Montero Moreno, Historia de la persecución religiosa en España. 1936-1939, Madrid 1961, pp. 688-707, p. 698.
[4] Si tratta di un discorso tenuto da Mussolini il 6 febbraio 1921 al politeama Rossetti di Trieste.
[5] Cit. in Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, cit., p. 10.
[6] In usi più generici, tanto legati a una vaga idea morale quanto più legati all’originario significato religioso, il termine ricomparve, come è noto, sin troppo spesso. Si pensi, ad esempio, al peso dell’idea di crociata in occasione della Guerra di Corea.
[7] S. Runciman, Storia delle crociate, Einaudi, Torino 1966, II, p. 1093. Faccio mia a questo proposito la seguente considerazione di Tyerman (L’invenzione delle crociate, cit., p. 200): “E’ a un mondo in cui la civiltà, spinta ai limiti consentiti dall’ingegniosità dell’uomo, era arrivata quasi all’autodistruzione che Steve Runciman indirizzò la durissima conclusione della sua magnifica History of the Crusades (1951-1954): «La guerra santa stessa non fu altro che un lungo atto di intolleranza compiuto nel nome di Dio, il che costituisce un peccato contro lo Spirito Santo».
[8] F. Fukuyama, The End of History?, in P. O’Meara-H.D. Mehlinger-M. Krain (a cura di), Globalization and the Challenges of a New Century, Bloomington-Indianapolis 2000, pp. 161-62.
[9] Queste le parole esatte di Bush: “…E’ un nuovo tipo di…- un nuovo tipo di male. E noi comprendiamo. E il popolo americano comincia a capire. Questa crociata, questa guerra al terrorismo è a una svolta”.
È nato a Bologna il 18-9-1969. Si è laureato in storia della filosofia medievale presso l’Università di Bologna dove successivamente si è specializzato in storia con Valerio Marchetti. Ha studiato arabo presso la Bourguiba University di Tunisi ed ebraico a Bologna. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia sociale europea presso l’Università di Venezia sotto la guida di Giorgio Vercellin, con una tesi su Pratiche e immagini della guerra tra Cristianità e Islam nell’alto medioevo spagnolo (secoli X-XI). È attualmente docente a contratto di Politica comparata del Mediterraneo presso l’Università di Bologna (sede di Ravenna) e docente a contratto di Cultura Spagnola presso l’Università Statale di Milano.
Ha svolto ricerca presso università e centri scientifici in Germania (2000), Tunisia (1999, 2000, 2004), Argentina (2004), Spagna (1999, 2000, 2005).
Ha insegnato arabo classico dal 2000 al 2004 presso il Centro Poggeschi di Bologna.
È membro dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (ISIAO). È membro dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG). È membro del consiglio accademico della Maestría en Diversidad Cultural della Universidad Nacional de Tres Febrero di Buenos Aires (Argentina). È membro del comitato scientifico della rivista Religioni e società. È collaboratore della casa editrice Rizzoli con particolare riguardo alle pubblicazioni di ebraistica e islamistica.