di Ornella Mariani.
L’inizio dell’avventura
Tra X e XI secolo una spinta mistico/migratoria sconvolse l’intero continente europeo, spingendo imponenti masse ai luoghi sacralizzati dal passaggio di Cristo e dei Santi.
Le destinazioni principali furono il Santo Sepolcro di Gerusalemme, le tombe di Pietro e Paolo a Roma, il sarcofago di san Giacomo Maggiore a Compostela.
L’Italia meridionale, e più in particolare la Puglia, fu teatro di tale fermento sia per i suoi porti, proiettati sulle rotte verso l’Oriente, sia per i suoi centri di culto dislocati lungo la dorsale garganica. In particolare: la grotta del santo/guerriero Michele, collegata al celebre santuario normanno di Mont-Saint-Michel.
Alla tradizione devozionale e penitenziale si saldò un primo gruppo di mercenari provenienti dalla Normandia nello stesso periodo in cui il Papato, emergendo da una lacerante crisi fra fazioni aristocratiche romane, si disponeva alla Riforma gregoriana realizzata nel corso della seconda metà del sec. XI, in coincidenza con l’inasprirsi della lotta per le investiture.
Cavalieri o Barbari?
La chiave di lettura della formula dell’Ordinatio Militis che trasformò i Normanni da razziatori in un paladini della Chiesa; della fede; della giustizia; dei deboli è fornita da un codice di scrittura beneventana del XII secolo: «Kyrie leyson. Christe leyson. Sancta dei genitrix. Exaudi domine preces nostras et hunc ensem quo iste famulus tuus se circumcingi desiderat maiestatis tue dextera benedicere dignare, quatinus proteccio adque defensio possit esse ecclesiarum viduarum adque orphanorum omniumque deo serviencium, contra seviciam paganorum, aliisque insidiantibus sit pavor, terror adque timor… Tu, cum sis futurus miles, memor esto verbi spiritus sancti: accingere gladio tuo super femur tuum potentisime. Gladius enim spiritus sancti est, quod est verbum dei. In hac ergo forma veritatem tene, ecclesiam defende, pupillos et viduas et oratore et laboratore, contra impugnatores sancte ecclesie promptus perge, ut possis coram Christo gladio veritatis et iusticie armatus coronatus apparere. Accipe ensem in nomine patris et filii et spiritus sancti. Accipe lanceam in nomine patris et filii et spiritus sancti.Accipe scutum in nomine patris et filii et spiritus sancti. Accipe calcaria in nomine patris et filii et spiritus sancti.»
A parere dello storico medievista Enrico Cuozzo, tale liturgia fu introdotta nel Regno di Sicilia dai Normanni stanziali in Campania nel 1140, dopo l’annessione di Aversa quando, nelle Assise di Ariano, attraverso il De Nova Militia, Ruggero II sancì il carattere élitario della casta cavalleresca sottraendone il reclutamento all’ arbitrio dei feudatari: «…sancimus, itaque tali proponentes edictum, ut si quicumque novam militiam arripuerit, contra regni nostri beatitudinem, atque pacem, ive integritatem, militie nomine et professione, penitus decidat, nisi forte a militari genere per successionem duxerit prosapiam… »
Disvisi in milites per nomine militiae e in milites per professione militiae, i cavalieri feudali furono sostanzialmente costituiti dai feudatari in capite de domino Rege, presentandosi alla cerimonia di
adoubement attorno ai sedici anni: a quell’età, attraverso il rito di vestizione delle armi, suscipiendum militiae cingulum, completato dalla benedizione degli speroni, dell’elmo e della spada, il giovane entrava a far parte dell’Ordo Militis secondo le formule praticate in tutta l’Europa postcarolingia.
Alcune testimonianze iconografiche reperite in chiese romaniche del XII secolo ed in quella regione ubicate, favoriscono la ricostruzione delle consuetudini e dell’abbigliamento cavalleresco. Esse sono comprese in un gruppo di due pulvini, in un capitello e in un architrave raffiguranti milites solidamente armati; servientes o scudieri; pedites o fanti e balistarii o balestrieri.
Custodito nell’abbazia di Montevergine, il primo dei pulvini presenta una scena di guerra o di torneo con due cavalieri in assalto, vestiti di corazza di maglia di ferro ed armati di lancia.
L’altro, alloggiato nel lato ovest del chiostro della chiesa di Santa Sofia di Benevento, risale all’epoca dell’ abate cistercense Giovanni IV: oltre all’immagine di due figure, munite di elmo e corazza e scudo a protezione del corpo sul lato sinistro, ritrae due scene riferite l’una alla caccia al cinghiale; l’altra alla lotta ad un drago.
L’architrave è, di fatto, lo stipite di sinistra del portale della chiesa di San Marcello di Capua. Raffigura due servientes che tengono per le briglie due cavalli imbizzarriti e due guerrieri in posizione frontale. Anch’essi sono muniti di corazze di maglia di ferro e scudi ovali mentre, i loro destrieri portano sottogola e morso, secondo una innovazione successiva al 1140.
Il capitello è custodito nella cripta del duomo di Sant’Agata dei Goti. Il lato più largo evidenzia un cavaliere che si oppone a due figure maschili nude. Egli ha l’elmo a punta e a nasale e la corazza in maglia di ferro.
Proprio l’elemento di protezione del capo ne consente la collocazione temporale in un’area compresa fra il secondo ed il terzo quarto del XII secolo, periodo in cui compare il nasale di cui l’elmo normanno era precedentemente sprovvisto.
In definitiva: cappuccio a difesa della testa, su veste di maglia di ferro o cotta lunga al ginocchio, ove assumeva forma di calzoni, con la giunzione inguinale in cuoio al fine di agevolare movimento e posizione di monta; elmo di forma conica ed appuntita, dotato di coprinaso a difesa del viso; contrariamente alla moda longobarda del tipo circolare, scudo detto a goccia e strutturato similmente ad una mandorla, con sul retro manici anch’essi in cuoio; spada lunga novanta centimetri, fissa alla cintura e collocata al fianco, con elsa netta e pomo rotondo, lama dritta e larga a fili paralleli onde servire meglio ai colpi di taglio, piuttosto che alle stoccate di punta; lancia di lunghezza superiore ai due metri, tenuta in resta e stretta al fianco col gomito per sostenere l’azione di carica.
Successivamente alle Assise di Ariano, come si deduce dal bassorilievo del timpano della facciata della chiesa di Santa Maria della Strada a Matrice, in provincia di Campobasso, e nell’ambone della chiesa di Santa Maria del Lago di Moscufo, in provincia di Pescara ed ancora nel Portale degli Otto Cavalieri di San Nicola di Bari, i milites normanni vestirono corazza di maglia di ferro senza cappuccio, con collo esposto, elmo conico, lancia pesante e scudo a mandorla. Pure i cavalli erano bardati ed armati per la guerra: gualdrappa pesante; sella a schienale altofermata da doppia cinghia di sottopancia, martingala, staffe con lunghi staffili, briglie con tiranti, sottogola e morso.
In termini di tecniche militari, i Normanni brillarono d’arguzia: finta manovra di ripiego e di ritirata in battaglia, prima di affidare l’affondo a truppe speciali d’attacco e di rincalzo; mai procedimento di assedio contro le città aggredite, ma tattica di controllo favorita dalla costruzione veloce di torri e castelli dai quali sorvegliare i rifornimenti, debitamente saccheggiati: intaccando le risorse nemiche, veniva assicurava alle truppe esterne alle mura la sopravvivenza anche per tempi lunghi.
Furono abilissimi anche nella costruzione di macchine e strumenti bellici. Tant’è: Goffredo Malaterra li definì Doctissimi Artifices nel raccontare l’attività di fanteria ed arcieri, con utilizzo della cavalleria non solo per le cariche frontali, ma per insistenti pressioni sui fianchi, nell’intento di sfilacciare la compattezza degli eserciti nemici.
Giunti in Italia alla fine del X secolo, questi tenaci e coraggiosi avventurieri ebbero un primo, forte approccio con la Sicilia. L’isola, dopo la disintegrazione dell’Impero Romano ed i disordini alimentati dalle invasioni barbare, era scivolata nell’anarchia e Siracusa era stata trasformata nel primo avamposto bizantino in Occidente. Solo alla fine del IX secolo, l’autocrazia orientale ne sarebbe stata espulsa: la cavalleria leggera araba, liquidata la cultura sociale e religiosa di Bisanzio, aveva dato il via alla grande sfida fra Islam e Cristianesimo concludendo il processo di arabizzazione del Mediterraneo in danno della Chiesa Romana, impegnata a combattere altri Stati Cristiani piuttosto che a proteggere la Comunità Greca dai Musulmani. Gli Arabi ne avevano mutato il volto, introducendo le loro istituzioni e concedendo libertà di culto a Cristiani e ad Ebrei: in meno di vent’anni, avevano reso Palermo pari a Bagdad e trasformato il territorio in un rigoglioso giardino ed in un possente motore commerciale: gelsi e bachi, coltivazioni estensive di agrumi, mandorli, canna da zucchero, semi di cotone, palma da dattero, sommacco, papiri, pistacchi, meloni, riso, ulivi e pesca del tonno connotarono l’economia isolana e fecero da cornice agli innumeri casali: rahal, unità base di insediamento.
La prosperità era durata fino alla rivalità apertasi fra Aghlabiti e Fatimiti all’inizio del XI secolo, epoca in cui la Sicilia era stata confinata nell’isolamento. E bisognò aspettare il 1030 perché in forza di un trattato siculo-bizantino, il generale Giorgio Maniace sbarcasse a Messina nel tentativo di riguadagnarla al patrimonio d’Oriente.
All’interno di quei contingenti armati provenienti da Bisanzio, v’erano circa duecento mercenari normanni al comando di Harald Hardrada: il leggendario protagonista delle saghe scandinave.
Per gli iperborei giramondo si trattò di uno straordinario impatto con le lussureggianti terre del Sud; di una premessa a quell’insediamento che avrebbe trasformato il Sud in un’oasi di pace e benessere; di un netto germoglio di quella mirabile civiltà che avrebbe esportato in tutto il mondo noto la cultura italica.
Ma il fallimento del progetto di restaurazione bizantina tentato da Maniace formalizzò lo scontro fra Islam e Cristianità; meglio: fra ellenismo orientale e cattolicesimo latino, sullo sfondo delle incursioni marinare di Pisa e Genova, la cui rivalità aveva reso il Mare Nostrum un bacino di forti tensioni.
Varie configurazioni religiose, allora, attraversavano il Mezzogiorno peninsulare: la Sicilia era dominata dal culto islamico e da nuclei latini di ispirazione cattolico-romana; la Calabria era occupata dal Cristianesimo orientale; il Catapanato bizantino di Puglia e la Campania conservavano salda l’unità del Cristianesimo romano. Tale eterogeneità confessionale aveva causato rilevanti strappi anche nel tessuto etnico, sociale e politico: l’oligarchia terriera controllava le zone calabresi; gli Emirati Arabi dominavano l’isola; i Principati Longobardi amministravano Capua, Benevento e Salerno, mentre i Ducati di Napoli, Sorrento e Gaeta manifestavano forti tendenze autonomistiche.
L’Italia meridionale era, dunque, una disomogenea regione, preda di costanti conflitti di frontiera e di disordini determinati dalla difficile coesistenza fra Musulmani, Bizantini e Longobardi. Debolezze vantaggiose, queste, per questi uomini del Nord favoriti, nella sistematica penetrazione del territorio, da fortissima coesione; lucida capacità di sfruttare l’antagonismo fra potenti; brutale ed aperta sfida all’autorità papale.
Fra il primo decennio del 1000 ed il Natale del 1130, due straordinarie famiglie: i Drengot, provenienti dal borgo francese del Quarrel, e i d’Hauteville, originari dalla penisola del Cotentin, si contesero l’egemonia nel Mezzogiorno, scrivendone le più turbolente ed appassionanti pagine di storia e rendendolo il più prestigioso Stato unitario a forma monarchica mai conosciuto, nonostante le spietate ed irriducibili rivalità non lenite dai rapporti di parentela.
La loro avventura cominciò per caso, quando un modesto manipolo di cavalieri, reduci da un pellegrinaggio in Terra Santa, anticipando quelli già venuti in Sicilia al servizio di Giorgio Maniace, soccorse la longobarda Salerno posta in stato d’assedio dai Saraceni.
Era l’anno 999.
Essi rifulsero di irriducibile coraggio nell’area campana, avviando quello straordinario ed inarrestabile processo di demografia multirazziale delle fasce costiere. Dotati di temperamento ardimentoso e di sicura fede cristiana, aggredirono i Musulmani e dettero tale prova d’audacia da indurli al terrore e alla fuga, com’è testimoniato da Amato di Montecassino : «…Prima dell’anno Mille, dopo che Cristo, nostro signore, si incarnò, generato dalla Vergine Maria, apparvero al mondo quaranta valorosi pellegrini. Provenivano dal Santo Sepolcro di Gerusalemme, dove avevano adorato Gesù Cristo. Si recarono a Salerno, che era assediata dai Saraceni e si trovava in una situazione altamente critica da essere sul punto di arrendersi … fecero visita a Guaimaro, Serenissimo Principe che governava Salerno secondo giustizia. Lo pregarono di dotarli di armi e cavalli … attaccarono i Saraceni e ne uccisero un gran numero. Molti si precipitarono nel fiume, altri fuggirono attraverso i campi. Così, vinsero i valorosi Normanni … Il Principe e tutto il popolo salernitano li ringraziarono con grandi effusioni. Fecero loro dei regali, gli promisero grandi ricompense e li supplicarono di rimanere per difendere i Cristiani. Ma i Normanni non desideravano ricompense in argento in cambio di ciò che avevano fatto per amor di Dio. E si scusarono di non poter restare…››
Tornati in Normandia e memori della prosperità delle regioni dell’estremo Sud europeo, reclutarono nuove risorse e tornarono per offrirsi al servizio di Signori pugliesi oppressi da incursioni greche e levantine.
Partirono per primi, dal borgo di Quarrel, i normanni Drengot : una turbolenta famiglia il cui capostipite, Gisilberto, era stato esiliato per omicidio dal Duca Rolf di Normandia. Malgrado essi saldassero i propri destini alla Campania ed alla Puglia; malgrado fornissero un incommensurabile contributo alla conquista del Mezzogiorno peninsulare operata dai d’Hauteville; malgrado vantassero personaggi di rilevante spessore umano e politico, furono sempre ingenerosamente ignorati dalla Storia.
In Italia, Giselberto giunse verso il 1018 con i germani Rainulfo, Asclettino, Osmondo e Ridolfo.
Forte di un contingente di trecento uomini, si pose subito alle dipendenze di Guaimaro IV di Salerno concorrendo a fondare, entro il 1039, un compatto dominio nelle regioni centrali del Sud ma, ben presto, cedendo il ruolo di capo indiscusso al carismatico Rainulfo.
Di fatto fondatore della dinastia aversana, dopo aver partecipato alla rivolta pugliese contro le oppressioni fiscali bizantine, egli aveva legato il suo nome alla storia delle contrade campane e si era imposto nella più consolidata aristocrazia terriera locale: già alle dipendenze dei conti di Comino per aver fiancheggiato il Duca Sergio IV di Napoli nel recupero dei beni sottrattigli da Pandolfo di Capua, accettò di servire il barese Melo, insofferente dell’autorità bizantina, e ne ottenne il privilegio di fondare, sulle rovine della antica Atella, la Contea di Aversa: nodale per le comunicazioni fra Napoli e Capua.
Legittimato dall’imperatore Corrado, inoltre, in cambio di una spedizione armata contro i Bizantini ed in virtù delle nozze contratte con la sorella del Duca napoletano, Rainulfo si vide poi assegnati anche Siponto; parte del promontorio del Gargano e Gaeta di cui s’era già impadronito.
Morto nel 1045, gli successe il nipote Asclettino, cui seguì Rainulfo Trincarotte e, più avanti, Riccardo: l’eroico prosecutore della tradizione dinastica nell’aversano ed in terra capuana.
Era sorto il primo ceppo normanno/italiano stanziale, a Sud dei territori pontifici: sarebbe durato fino al 1139, nell’avvicendamento fra Roberto ed infine Rainulfo III, sposo di Metilde, figlia del Gran Conte Ruggero di Sicilia.
Sulla scorta della felice esperienza dei Drengot, dal paterno castello del Cotentin anche i figli di Tancredi Signore di Hauteville si erano intanto mossi alla volta del prodigo Sud italiano.
Erano giunti per primi i pugnaci Guglielmo Braccio di Ferro, Drogone ed Umfredo ed avevano inizialmente scelto la terra di Capitanata: in una prima fase di solide alleanze, verso il 1035, assieme a Rainulfo, incontrastato padrone della Terra di Lavoro, essi avevano preso Melfi e nel 1043, con la favorevole battaglia di Montepiloso, occupato l’intera Puglia.
«… L’avanzata normanna in Capitanata si realizzò ben presto, anche al di là delle previsioni, Contemporaneamente a quella verso altre direzioni. Nel 1045, infatti, Drogone si impadronì dell’importante piazzaforte di Bovino, prendendo l’anno dopo il posto del defunto Guglielmo quale capo dei Normanni d’Italia; nel 1048 Umfredo conquistava Troia, che era certo una delle più importanti città della Capitanata ed il fulcro del suo sistema difensivo… » (P.Corsi: Strutture ecclesiastiche ed amministrative della Capitanata in epoca normanna.)
Al tempo del loro approdo nella regione, l’assetto delle frontiere individuava il confine settentrionale sul fiume Fortore: lo aveva fissato il Catepano Calociro Delfinas dopo la sconfitta subita a Stilo dall’imperatore Ottone II. Tuttavia, benché Civitate, Dragonara, Castefiorentino e Troia fossero solidissimi elementi della linea difensiva, i d’Hauteville scomposero la compattezza del territorio con ostinata ed pressante aggressività. Offèrtisi anch’essi a Melo di Bari ed al figlio Agiro, combatterono a più riprese i Musulmani di Sicilia; poi, irritati dal rifiuto di Maniace a compensarli secondo i patti, dopo aver battuto i Greci a Montemaggiore, invasero il territorio compreso fra l’Ofanto ed il Biferno e vi posero a capo il maggiore di loro: Guglielmo, proclamato Conte di Puglia a Matera nel settembre del 1042, con tale atto dando vita alla prima espressione di Stato Normanno con capitale a Melfi.
I tre pugnaci germani, nel 1048 furono raggiunti dai temibili Roberto e Ruggero che, sottraendo la Calabria ai Bizantini ed avvantaggiandosi d’una favorevole congiuntura storica, allargarono la potenza conseguita da Guglielmo. In quel periodo, conflittualità politiche ed elementi d’insofferenza etnica avevano imposto alla Chiesa di cercare possibili sostegni per contrastare l’espansionismo arabo nel Sud dell’Italia.Inoltre, dopo due secoli, il territorio bizantino si era frantumato in rivoli di Signorie locali orientate verso l’autonomia;. Infine gli Arabi di Sicilia si erano frammentati in due enormi potentati, Occidentale ed Orientale, a discapito degli interessi ecclesiali ed i Principati Longobardi erano in fermento per l’embrione di comunalità comparso nella nodale Benevento fin dal 1015, quando i Mediani avevano strappato il potere ai Nobili.
Fu l’alsaziano Papa Leone IX a spianare la strada della conquista agli invasori. Egli, che malvedeva la costituzione di un forte Stato straniero ai confini dei territori ecclesiali, incapace di resistere da solo alla pressione normanna, scese in lega con i Greci e proclamò una guerra santa avvalendosi anche dell’adesione dell’Imperatore tedesco Enrico III. Postosi a capo della coalizione, venne a scontro campale contro le forze alleate Drengot-d’Hauteville a Dragonara, località della Capitanata, il diciotto giugno del 1053.
«… Alla gravità della situazione… tentarono di apprestare un qualche rimedio sia l’Imperatore Costantino IX Monomaco, che rinviò nel 1051 in Italia Argiro come catepano, sia il papa Leone IX, che accanto alla riforma della Chiesa perseguiva una politica assai attiva, soprattutto negli affari dell’Italia meridionale. Ispirato da Ildebrando, il futuro Gregorio VII, il papa si decise all’intervento armato solo dopo che Benevento gli si consegnò. Ora, la situazione dello Stato beneventano era divenuta assai precaria, dato che la caduta di Bovino, di Troia e di Ascoli metteva sotto il diretto controllo dei Normanni tutte le strade che attraverso l’Appennino, conducevano in Puglia. Del resto, il Papa aveva potuto di persona rendersi conto della situazione, essendosi recato nel 1049 in pellegrinaggio al santuario di S.Michele e successivamente a Siponto, per tenervi un sinodo. Constatato che i diritti della Chiesa sull’Italia meridionale non avevano alcuna probabilità di essere effettivamente riconosciuti, se non mediante l’intervento armato, Leone IX marciò nel 1053 sulla Capitanata, allo scopo di riunire le sue truppe tedesco/longobarde con quelle di Argiro, proveniente dal Sud. Poiché la strada di Benevento era chiusa dalle piazzeforti di Bovino e Troia, in mano normanna, l’unica strada aperta era quella del Biferno e poi Civitate sul Fortore… Molto è stato scritto su questa famosa battaglia, che fu davvero decisiva per le sorti dell’Italia meridionale e che i Normanni seppero vincere anche politicamente, oltre che militarmente …» (P. Corsi: Strutture ecclesiastiche ed amministrative della Capitanata in epoca normanna)
La battaglia, risoltasi con la drammatica cattura del Papa, liberato solo previo il perdono e l’investitura feudale di quelle conquiste realizzate dai d’Hauteville, si pose come pietra miliare della campagna di occupazione del Sud.
Roberto il Guiscardo, primo Duca di Puglia e Calabria, subentrando al fratello Guglielmo, aveva consacrato a Melfi il suo vassallaggio alla Chiesa, surrettiziamente impegnandosi a recuperarle le Regalia Sancti Petri esistenti nelle due regioni. La circostanza aveva ingenerato nel Pontefice, ormai consapevole di non poterli cacciare né piegare, l’esigenza di utilizzarli in duplice direzione: da una parte, nel raggiungimento di un’egemonia che condizionasse il crescente potere dell’Imperatore tedesco; dall’altra, nell’impegno a favore della diffusione del Cattolicesimo. Pertanto, il personaggio fondamentale allo sviluppo del Mezzogiorno insulare e peninsulare fu il Guiscardo.
Protervamente ambizioso, egli aveva introdotto sul territorio nuovi e brutali metodi utili al conseguimento del potere; al veloce arricchimento ed all’inserimento nelle maglie dell’aristocrazia locale: la guerra, i sequestri di persona ed i matrimoni. Dopo avere, infatti, sposato la Contessa Alberada della potente famiglia di Gherard di Buonalbergo, nel 1057, in coincidenza con la morte di Umfredo, si fece riconoscere Conte di Puglia utilizzando l’esigenza di Papa Leone IX di confidare su un alleato forte e sicuro nella lotta all’Imperatore. Nel 1058, poi, ripudiata la moglie sulla base di una pretestuosa consanguineità, convolò a nuove nozze con la Principessa longobarda di Salerno Sighelgaita, sorella di Gisulfo, così unendo in un solo ceppo stirpi franco-germanico-longobarde. Con cinica astuzia, infine, asceso al soglio pontificio Niccolò II, stipulò il trattato di Melfi del ventiquattro giugno del 1059: la nuova alleanza gli valse la ratifica del titolo di Duca di Puglia e di Calabria, col mandato ad espellere Greci e Saraceni dall’Italia ed in particolare dalla Sicilia. Per contro, egli s’impegnò a proteggere la Chiesa dalle interferenze imperiali nelle elezioni pontificie.
Sostanzialmente, però, dopo la morte di Enrico III e del suo ultimo Papa tedesco, Vittore II, il nuovo Vescovo di Roma scelse premeditatamente di scendere a patti con i Normanni: se egli, infatti, provò diffidenza per i Drengot , temendone la pressione sul confine romano, nei confronti dei d’Hauteville non mancò di mostrare allarme, fondata paura e rispetto, percependone la determinazione e la violenza.
Divenuto leader indiscusso della famiglia, con Ruggero, il Guiscardo si dette alla campagna di conquista siciliana prendendo nel 1061 Messina; nel 1071 Catania; nel 1072 Palermo e riservando a sé l’alta sovranità su quelle terre infeudate al fratello.
In sostanza, in una manciata di lustri e grazie a lungimiranti iniziative militari e diplomatiche, Roberto era diventato l’uomo più potente del Sud italiano; nel 1071 aveva espulso definitivamente i Bizantini dal continente; nel 1076 aveva liberato Salerno dagli ultimi residui longobardi; nel 1078 aveva preso Benevento; nel 1081 aveva inferto un poderoso affondo all’Impero di Bisanzio; nel 1084 aveva avviato relazioni con la Curia di Roma, difendendo il pontificato di Gregorio VII dalle aggressioni di Enrico IV .
Il Papato, tuttavia, si mantenne sempre cauto rispetto alla sua politica delle intese e fu a fortiori che Gregorio VII gli consegnò lo stendardo di San Pietro, in cambio del patto a difendere la Chiesa.
Intanto, nel 1065 i Drengot avevano proceduto alla spartizione dei loro domini: Giordano era divenuto Principe di Capua e Rainulfo II aveva assunto la guida della Contea di Alife, ereditata poi dal figlio Roberto cui, nel 1105, sarebbe succeduto Rainulfo III, sposo di Matilde, a sua volta sorella del Sovrano di Sicilia Ruggero Ii d’Hauteville.
Gli interessi fra le due dinastie sembravano non collidere, poiché gli Hauteville miravano alla più ampia area mediterranea: non a caso, il Guiscardo dette in sposa sua figlia Olimpia al giovane Costantino Porfirogenito, figlio di Michele VII Dukas. Peraltro, la caduta di Bari ed i gravi disordini esplosi a Bisanzio lo avevano indotto poi ad ingaggiare battaglia anche contro i Greci: inseguitili nel mare aperto di Otranto e sbarcato nel 1081 sulle coste dell’Epiro, Roberto aveva assediato Durazzo e sconfitto Alessio Comneno, proseguendo la sua irrefrenabile marcia su Salonicco, dopo aver piegato le popolazioni di Corfù, dell’Epiro e della Macedonia.
La spedizione era stata però interrotta proprio dalle pressioni esercitate dal Papa, minacciato da Enrico IV che, nel perdurare della violenta disputa sulle investiture, aveva aperto una pericolosa intesa col Sovrano d’Oriente, sia per vendicarsi dell’umiliazione subìta a Canossa, sia per organizzare un fronte di lotta in grado di contrastare anche i più temibili alleati della Chiesa, ovvero i Normanni.
Accorso in aiuto al Pontefice, assediato e prigioniero delle truppe tedesche in Castel Sant’Angelo; scortatolo a Salerno; messa Roma a sacco, nel 1084 il Guiscardo, col figlio Boemondo, tornò sull’altra sponda adriatica per riprendere la campagna di conquista ed occupò Ohrid, Skopje, Kastoria e Larissa infliggendo un durissimo colpo alla flotta veneziana. Tuttavia, proprio mentre si proponeva padrone incontrastato anche dell’altra costa, fu colto da febbre e morì durante l’assedio di Cefalonia nell’autunno del 1085. Nel precedente marzo, Gregorio era stato deposto, mentre a Bressanone era stato eletto Clemente III che, come primo atto del suo discusso pontificato, aveva restituito la legittimità sospesa all’imperatore Enrico.
Distintosi per aver servito e difeso la Chiesa, sostanzialmente piegandola ai suoi fini, Roberto aveva eletto erede il figlio di secondo letto Ruggero Borsa, in danno del primogenito Boemondo. La circostanza indusse le popolazioni del Sud continentale, orfane del polso forte dell’invincibile Terror Mundi, ad una tremenda insurrezione ed i due fratellastri, al fine di evitare la guerra civile, dopo anni di conflitti si spartirono lo Stato, appianando le tensioni residue con la partenza di Boemondo per la Terra Santa.
La debolezza politica e l’inefficacia temperamentale di Ruggero, ben presto, sgretolarono la consistenza amministrativa pugliese già erosa dall’indipendentismo dei vassalli e dallo strapotere di Papa Urbano II che, ricevuti in omaggio i territori di Puglia e Calabria, gliene concesse la reinvestitura solo nel 1089.
Vanificata la forte azione paterna, il fragile d’Hauteville finì con l’avvantaggiare le ambizioni dell’omonimo zio il quale, sfruttando la decadenza saracena, aveva in pugno tutta la Sicilia ove i Musulmani indipendenti dagli Arabi d’Africa avevano sviluppato un capillare sistema feudale. Confiscatine i beni; assegnatine parte alla Chiesa e concessa ai Saraceni piena libertà di culto e diritto di proprietà a condizione del riconoscimento della sua autorità, si attribuì la qualifica di Gran Conte.
Gli storici di ogni tempo ne hanno a lungo discusso la religiosità e le ragioni che lo indussero all’isola. A parere del Malaterra, le contrapposizioni etnico-confessionili avevano costituito un elemento di ampio richiamo per la sua temperamentale curiosità. Ma più che qualsiasi altra valutazione, aveva contato la sua sfrenata ambizione, coniugata ad una statura politica rivelatasi ben presto adeguata a quella del leggendario fratello Roberto: «… due cose ritenendo utili per sé, cioè all’anima e al corpo, richiamare al culto divino una terra dedita agli idoli e prendere possesso temporale dei frutti e dei redditi usurpati da una gente ingrata a Dio…». (Malaterra)
L’aspetto più notevole della sua politica consistette della pragmatica capacità di imporre un potere omogeneo ad una terra eterogenea come la Sicilia: dalla diversità etnica, culturale e confessionale, egli estrasse un valido schema organizzativo di tipo sociale, fondandolo sull’utilizzo delle migliori risorse delle genti sottomesse e sul mantenimento delle tradizioni. Tale da produrre un consistente clima di sicurezza e stabilità
Egli aveva riportato la Sicilia nell’orbita europea, con tutti i suoi complessi contenuti culturali: dalle monete coniate con iscrizioni çufiche, alla omogeneizzazione dei rapporti feudali sul concetto orientale del potere al cui interno un Sovrano non era un primus inter pares né una espressione della volontà popolare, ma una incarnazione divina. La visione cesaropapista di estrazione bizantina, lo indusse ad esercitare nei confronti della Cristianità latina la pretesa di portare l’anello, il bastone pastorale e la dalmatica, in una sintesi in sé del ruolo civile ed ecclesiale che indispose la Curia di Roma.
La frizione fu esasperata dall’incauta decisione di Urbano II di nominare Legato di Sicilia il Vescovo di Troia, senza il suo previo consenso: la durissima reazione, conclusa dall’arresto del prelato, fu colta dal Primate romano come un segnale forte circa le competenze, le prerogative e la sovranità territoriale. Il Papa dovette riconsiderare la portata della vicenda e la situazione di superiorità del Normanno sicché, nel giugno 1098, con accorta prudenza ed aspirando ad un estremo tentativo di incunearsi nell’isola, fortemente musulmana e carente di valide istituzioni ecclesiali, gli conferì uno status equivalente a quello di Legato Apostolico, formalizzandolo con la Bolla del successivo cinque luglio «…Quia propter prudentiam tuam, Supernae Majestatis dignatio te multis triumphis et honoribus exaltavit et probitas tua in saracenorum finibus Ecclesiam Dei pluribus dilatavit…»
Peraltro, onde avvalersi della sua esperienza circa le vicende politiche e religiose bizantine ed in omaggio alla sua funzione di referente di un Paese pur a forte pregnanza greca, Urbano era venuto fino a Terracina per guadagnare la sua adesione al progetto crociato e per informarlo dei propositi dell’imperatore Alessio Comneno, proclive a ricomporre lo scisma che aveva diviso decenni avanti la Chiesa latina da quella greca.
L’incontro fu deludente: Ruggero era un pragmatico. A suo avviso il coinvolgimento in una guerra santa avrebbe spezzato la solidarietà fra Turchi ed Arabi, pericolosamente incrinando la stabilità sociale conseguita in Sicilia. Per non turbare l’equilibrio raggiunto nei rapporti interetnici; per consolidare i suoi diritti su Napoli, cedutagli da Rainulfo Drengot e per recuperare la perdita di Amalfi, causata dalla defezione di Boemondo trascinato proprio nell’avventura crociata, egli accortamente ignorò le sollecitazioni papali ai Principi Cristiani.
Fissata la sua residenza a Mileto, anzi, attese con cura al consolidamento del suo potere ed alla integrazione dei suoi sudditi.
Il ventidue giugno del 1101, egli morì lasciando erede il figlio Simone sotto reggenza materna a fortiori per minorità. Si trattò di un governo di brevissima durata, poiché anche il giovane, di malferma salute, presto si spense. Una serie di disavventure colpì gli altri figli: Goffredo, affetto da lebbra fu costretto al ritiro in un convento; fra il 1092 e l’1105, mancarono anche Giordano ed un altro Simone, appena dodicenne; un altro erede, forse illegittimo, ed ancora dal nome Goffredo, nominato Conte di Ragusa, fu escluso da ogni rivendicazione ereditaria.
Era il turno di Ruggero II: l’autore del rilancio della dinastia.
Ruggero al potere
Dotato di lucida intelligenza e spiccata cultura; ottimo conoscitore dell’arabo e del greco, sull’esempio del padre che già nel 1090 aveva reso tributaria l’isola di Malta, Ruggero II nel 1116 assalì la Tunisia e pose un’ipoteca sul quel trono; nel 1125 instaurò una monarchia semidivina nella quale coinvolse Giorgio d’Antiochia col ruolo di Gran Vizir; nel 1127, sopraffece Guglielmo, figlio di Ruggero Borsa, puntando all’ unificazione del Mezzogiorno d’Italia e di fatto prendendo possesso di Salerno e delle terre di cui il crociato Boemondo II era Signore feudale della Chiesa. Tale iniziativa, che aveva urtato la suscettibilità di Onorio II, aveva stimolato l’opposizione di vari Nobili, fra cui Roberto di Capua e Rainulfo III d’Alife, sposato a Matelda o Magalda, figlia del Gran Conte .
Gli insorti si erano riuniti a Troia ed il Papa, intervenuto nella crisi dinastica, aveva anatemizzato Ruggero accingendosi a dargli battaglia. La fortuna arrise al Normanno: la morte di Guglielmo e, tre giorni più tardi, quella di Boemondo rimosse la ragione del contendere e, in sede di Trattato di Benevento nell’agosto del 1128, gli fu anche revocata la scomunica.
Deceduto anche Onorio II nel 1130, sedici cardinali elessero Innocenzo II contro altri venti che, sostenendo la nomina di Anacleto II, dettero vita ad una situazione scismatica. Ruggero II prese partito per l’antiPapa, del quale sposò la sorella ricevendone in cambio, con la Bolla del ventisei marzo 1130, il conferimento della Corona reale della quale fu sancita l’ereditarietà. Nello stesso anno, formalmente infeudato, egli confermò estrazione divina alla sua autorità, com’è testimoniato da un mosaico nel quale indossa la Corona greca ricevendola da Cristo e non dal Pontefice. Fu da quel momento che le sue ambizioni travalicarono ogni ragione familiare e travolsero i potenti signori della Campania felix, sulla quale egli aspirava a porre un’ipoteca politica. Garantita, pertanto ad Anacleto anche la fedeltà di Rainulfo, lo inviò come Legato a Roma assieme al Principe Roberto di Capua. In realtà, aveva solo attuato una manovra di allontanamento del rivale, per poterne indisturbatamente aggredire i possedimenti. Infatti, assumendo a pretesto presunti maltrattamenti in danno della propria sorella, la trasferì in Sicilia col figlioletto, di fatto facendone ostaggio e strumenti di pressione, ed invase i feudi di Riccardo, fratello di Rainulfo.
La reazione del Drengot fu comprensibilmente violenta: intenzionato a recuperare la famiglia e a riparare l’affronto subito anche dal germano, egli si rivolse a Sergio di Napoli.
Lo scontro armato si combatté a Montesarchio, ove venne catturato il figlio del Conte di Ariano, alleato del Re siciliano che di rimando cinse d’assedio Nocera, ricadente sotto il controllo dei Drengot, e distrusse il ponte sul Sarno per eliminare ogni possibile avvicinamento delle truppe avversarie. Il sabotaggio, tuttavia, non fu argine adeguato alla collera dei nobili campani che, riparata la via d’accesso alla cittadella, il 24 luglio del 1132, inflissero a Ruggero II una pesante sconfitta costringendolo ad una disonorevole ritirata.
Mentre il Sovrano reclutava nuove forze per la riscossa, Rainulfo chiese aiuto al legittimo Papa Innocenzo, all’Imperatore tedesco Lotario ed ai Pisani: il secondo affondo contro la prepotenza del d’Hauteville era ormai pronto, quando sulla vicenda intervenne un imprevedibile colpo di scena: Ruggero di Sicilia era morto!
Considerato provvidenziale l’evento, Rainulfo ritenne di accampare immediatamente mire sul Sud peninsulare: con venti navi pisane armate ed un imponente contingente mercenario, si accinse ad aggredire il Regno quando, a sorpresa, il Sovrano di Sicilia sbarcò a Salerno e puntò su Aversa, distruggendola; costringendola alla resa incondizionata; imponendo al cognato l’arretramento a Napoli.
Pisa ed Innocenzo, la cui solidarietà al Drengot scaturiva dall’irritazione per le continue incursioni poste in essere arrogantemente dal d’Hauteville anche nei territori della Chiesa, si armarono e l’Imperatore Lotario, determinato a ridimensionare la protervia del d’Hauteville, si riunì ai belligeranti ed occupò l’agro aversano mentre il Papa, recuperate Capua, Avellino e la Puglia, le cedeva a Rainulfo.
L’atto fu ritenuto da Ruggero II una gravissima provocazione politica. Ma a fronte della schiacciante superiorità numerica degli avversari, egli propose una pace di facciata: una ulteriore simulazione a margine della quale attaccò pesantemente Telese ed aggredì tutta la fascia alifana, saccheggiandola; dandola alle fiamme e ricacciandone gli abitanti nelle campagne pedemontane. La corale indignazione del compatto fronte antisiciliano fu assorbita dall’improvvisa morte di Rainulfo, che segnò il lento ed inarrestabile declino dei leggendari pionieri del Sud peninsulare italiano, ormai di fatto accorpato al Regno di Sicilia: il Sovrano aveva imposto la sua supremazia anche nell’Italia continentale, con le conquiste di Capua, di Aversa e di Alife.
A Papa Innocenzo, che lo aveva scomunicato, l’indebolimento causato dal decesso del Drengot suggerì la revoca dell’anatema e la ratifica del titolo di Sovrano.
Era il ventisette luglio del 1139 quando, a Mignano, Ruggero II fu salutato «…nostro carissimo figlio, illustre e glorioso re di Sicilia, la cui elezione deve considerarsi divina. Infatti è proprio alla Sposa di Cristo, alla Chiesa Romana Nostra Madre Santa e Apostolica che bisogna elevare quanti si distinguono per la loro prudenza, la loro giustizia e i loro alti meriti, ovvero quelli che hanno realizzato grandi cose e ne faranno altre ancora più grandi…»
Ed ancora a Mignano, alla presenza dei figli, egli giurò fedeltà alla Chiesa, spegnendo ogni residuo focolaio di resistenza: la Sicilia era, adesso, una potenza economica europea. La sua floridità economica era di gran lunga migliorata con l’arte orafa e la gioielleria, fondata sulla lavorazione del corallo. Imponenti macchinari erano poi stati creati per irrigare gli sterminati frutteti e giardini dell’isola. Grande impulso era stato dato all’architettura ed all’ampliamento dei centri urbani.
Intanto erano morti anche Lotario e l’antiPapa Anacleto. Riconsolidato, Ruggero riprese riprendere la fastosa vita di Corte e le consuetudini mutuate dalla cultura araba: uso del kamelaukion, l’abito che, fin dal sesto secolo, era vestito dagli Imperatori Bizantini; ornamenti papali; sandali rossi; mitra; tunica e dalmatica che enfatizzassero la sua assoluta potenza. Egli s’era ormai trasformato in leggenda vivente: aveva fronteggiato ogni sistematico tentativo di aggressione posto in essere dall’Imperatore ed aveva osato prendere prigioniero il Papa, colpevole d’avere mirato a contrastare la sua potenza. La cattività, ancorché durata soli tre giorni, era stata sufficiente a confermargli la sovranità sul Regno di Sicilia, sul Ducato di Puglia e sul Principato di Capua, così definitivamente spazzando la locale Signoria dei Drengot, ed a riconoscergli quel diritto di Legatia Apostolica in forza del quale, nell’assise convocata ad Ariano Irpino nel settembre del 1140, affermò definitivamente la supremazia della dignità regia.
In sostanza, il sequestro del Pontefice: un atto di pirateria politica e militare di stretta osservanza normanna, aveva esaltato la sua audacia; enfatizzato il suo prestigio; ribadito il suo genio politico, consegnandolo alla Storia come il più grande Regnante del suo tempo.
Oltre ad essere un coraggioso condottiero, egli fu anche riformatore e, per primo legiferando attraverso una sintesi del Diritto Romanico e del Diritto Germanico, introdusse nel reato la distinzione del dolo dalla colpa, suddividendo le pene in pecuniarie, corporali e privative della libertà, sulla base di ampie tendenze garantiste mirate ad accertare avanti a tutto l’imparzialità del giudicante.
Fra il 1129 ed il 1140, anche per garantirsi il sistematico controllo del territorio, tenne diversi Parlamenti, Assisi e Curie Generali: a Melfi nel 1129; a Salerno nel 1130; a Palermo nel 1130; ad Ariano Irpino nel 1140; a Silva Marca nel 1142; a Messina nel 1146 (Codici Vaticani Lateranensi 8782 e Cassinese 448 )
Ma la testimonianza della sua notevole statura risiede nei quarantaquattro paragrafi delle Assise di Ariano; nella introduzione delle dogane: Diwan at- tahqiq al mà mur e nel modello di unità popolare e libertà di culto che rese la Sicilia uno Stato autenticamente cosmopolita.
Il ventisei febbraio del 1154 Ruggero, Rex Siciliae et Apuliae, dopo aver associato al trono il figlio Guglielmo, morì lasciando ad imperitura testimonianza della suo talento, oltre a vari ed autentici capolavori di architettura, una raccolta di leggi dedotte dalle tradizioni etniche dei suoi Sudditi e la profonda gratitudine di un Popolo sicuramente primo nel Mediterraneo per civiltà, cultura, importanza commerciale e prestigio economico.
Col d’Hauteville, che aveva assoggettato genti latine, greche, longobarde, ebraiche ed arabe, fondendole in un’unica stirpe, se ne andava il primo Re medievale svincolato da qualsiasi giurisdizione: un Re saggio e sganciato dalle invadenze della Chiesa; consapevole della propria autonomia fino a simboleggiarla con la scelta ricorrente del porfido o marmo porporino, tradizionalmente utilizzato solo dai Vicari di Cristo e dagli Imperatori Romani; straordinariamente colto, com’è testimoniato anche dalle traduzioni di Platone, di Euclide, dell’Almagesto di Tolomeo e dalla introduzione delle leggende del ciclo carolingio e bretone in Sicilia. In definitiva un Re che, ponendosi fra i più grandi personaggi del Medio Evo, coprì le voci di tutti i suoi potentissimi nemici: il Papa, l’Imperatore tedesco, il Basileus di Bisanzio.
Non a caso, lo storico Ibn Al Athir scrisse «…Ruggero il normanno è il re di tutti, in quanto amava e si impegnava a migliorare lo status dei suoi Sudditi e in particolare rispettava i Musulmani e intratteneva con loro eccellenti rapporti… e in pari misura i Musulmani amavano quel Sovrano…»
Gli successe il figlio di primo letto Guglielmo I il Malo.
Bello e dotato di profonda cultura, fin dall’otto aprile del 1151 era stato unto Principe di Capua e designato alla successione di un Regno potente ed enorme, ma esposto a gravi pericoli interni: quando sedette al trono, il Sud era scosso da periodiche ribellioni delle Baronie; da fermenti di città private di privilegi; dalla doppiezza del Papato che, nella persona di Adriano IV, rifiutava di riconoscergli l’autorità regia accampando diritti feudali sull’isola; dall’espansionismo dell’Imperatore d’Oriente; dall’imperialismo di Federico I di Hohenstaufen, che già due volte aveva minacciato di oltrepassare le frontiere.
Furono ragioni sufficienti ad indurlo ad avvalersi della collaborazione dell’ammiraglio Maione di Bari, admiratus admiratorum, personaggio assai raffinato, colto e di estrazione alto-borghese.
Sposato in prime nozze ad Elvira di Castiglia ed in seconde a Margherita di Navarra, il giovane Guglielmo si trovò presto a misurarsi anche col peso di una scomunica e con intrighi e manovre di palazzo mirate ad una congiura che, con la complicità di Tancredi, figlio del Duca di Puglia Ruggero, e di Ruggero de Aquila, Conte di Avellino, lo detronizzasse per designare il suo novenne figlio Ruggero III.
Fatto prigioniero dai cospiratori, a sorpresa un personaggio minore: tal Riccardo Mandra, di cui si ignora ogni precedente, spezzò la congiura occupando di prepotenza la ribalta politica. Si è certi che egli, sventato il tentato regicidio, godette della gratitudine di Guglielmo, dal quale fu designato custode della sua spada: una carica equivalente a ministro della guerra.
Il complotto indusse alla istituzione di un Consiglio della Corona: una triade di affidabili Familiares Regis. Indi, postosi alla testa di un imponente esercito; varcato lo stretto e determinato a ripristinarvi l’autorità, il Sovrano marciò sul continente fino al Molise ed all’Abruzzo per arginarvi la ribellione dei grandi feudatari.
Già a Brindisi ingaggiò una furiosa battaglia contro i Bizantini. Forte del successo, si accampò a Benevento ove nel 1162 costrinse Papa Adriano a cedergli l’investitura della città. Più tardi, combattuti anche i Musulmani d’Africa con avversa fortuna, fino a perdere parte delle conquiste paterne, e raggiunta un’intesa con Manuele Comneno, decise di sostenere l’elezione di Alessandro III al soglio pontificio, alleandosi con lui contro Federico I di Hohenstaufen detto il Barbarossa.
Tuttavia, nel Sud dilagò un clima di aperte ostilità alla sua politica. Amareggiato ed indebolito anche da precarie condizioni di salute, egli decise di ritirarsi nel castello della Ziza ove si spense il sette maggio del 1166 lasciando il trono al figlio tredicenne Guglielmo II il Buono, sotto la reggenza della madre Margherita di Navarra.
Ella confermò il Gabinetto di Familiares scelti dal marito, fra cui il caid Pietro, che per quanto fedele all’Islam, latinizzò il suo nome; il salernitano Matteo d’Ajello; Richard Palmer, Primate di Siracusa; Gentile d’Agrigento; Stefano Le Perche; i Conti Ruggero di Gerace, Riccardo del Molise e lo spagnolo Enrico di Montescaglioso che le era fratello; Romualdo, vescovo di Salerno; Giovanni, vescovo di Malta.
Un clima di turbolenze e di intrighi fece da cornice alla maggiore età dell’erede, incoronato nel 1171.
Guglielmo era un uomo di pace: assunta la protezione degli Arabi contro la cristianizzazione imposta da Cistercensi e Clunyacensi, avviò la Sicilia ad un rinnovato benessere e ad una sicurezza socio-economica forte di iniziative di ampia portata; fece liberare i prigionieri politici; emanò un’amnistia generale che consentisse agli esuli il rientro in patria; moderò i tributi; regolò i diritti dei feudatari e patrocinò la costruzione dell’abbazia benedettina di Monreale: un autentico capolavoro di stile orientale ed occidentale. Anche in politica estera dette prova di talento stringendo rapporti con la Corte inglese ed inserendosi come mediatore nel duro scontro fra Thomas Beckett ed Enrico il Plantageneto e favorendone il riavvicinamento col Papa. Tuttavia, l’assassinio del Beckett irrigidì Alessandro III e provocò il rinvio del progettato matrimonio fra il Re di Sicilia e Giovanna, figlia di Enrico d’Inghilterra.
Solo nel 1176 l’undicenne sposa fu condotta a Palermo e le nozze furono officiate il due febbraio del 1177. Nell’occasione, Guglielmo assegnò in dotazione a tutte le regine di Sicilia l’Honor Montis S.Angeli, comprensivo delle città di Siponto, Vieste e Montesantangelo intendendo, attraverso quella sua unione, rilanciare il ruolo ed il peso economico/politico del Regno di Sicilia in Europa e rafforzare l’alleanza col Papa e con la Lega Lombarda, onde arginare le pretese del sempre più minaccioso Federico I di Hohenstaufen contro il quale si schierarono poi anche i Veneti ed i Genovesi.
Ma un nuovo evento intervenne su tali accorte e sottili manovre diplomatiche: ritagliandosi uno spazio all’ interno dell’assise internazionale di Venezia, nel 1177, Guglielmo ottenne dal Barbarossa una tregua di quindici anni. Fu la premessa a quell’intesa nuziale che l’Imperatore ed il Re siciliano convennero per Enrico VI di Germania e Costanza d’Hauteville, figlia postuma di Ruggero II.
L’unione fu fortemente avversata con forza dal Papa, convinto d’essere il supremo signore feudale di un Regno a rischio di finire agli invisi Tedeschi, con grave pregiudizio per la sopravvivenza della Chiesa. Ma gli eventi precipitarono: occupate Durazzo e Tessalonica, l’espansionismo del Re di Sicilia, che aspirava a marciare su Costantinopoli, fu stroncato a Serre ed anche il successivo progetto di sottrarre Gerusalemme al Saladino fu vanificato dalla morte che lo colse appena trentaseienne.
La sua scomparsa rilanciava lo spinoso problema ereditario creatosi con le nozze contratte da Costanza ed Enrico: nel Regno, un partito ostile ai Tedeschi e fomentato dalle più alte gerarchie ecclesiali locali, sostenne la successione del Conte Tancredi di Lecce, figlio illegittimo del Conte Ruggero di Puglia, a sua volta figlio illegittimo di Ruggero II.
In spregio dei diritti di Costanza, nel 1190 Tancredi fu incoronato a Palermo con l’aperto avallo del Papa, della borghesia municipale e della Cancelleria Reale. L’iniziativa suscitò lo sdegno e la collera non solo d’Enrico VI, già legittimato imperatore da Celestino III, ma anche del Re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone che, quale fratello di Giovanna, Regina vedova di Guglielmo, avocando a sé il diritto di sedere al trono siculo, nel corso della sua missione di crociato occupò e saccheggiò Messina.
Grazie alla mediazione diplomatica di Filippo Augusto di Francia, Tancredi, che aveva fatto rapire Giovanna, lo liquidò con quarantamila once d’oro e la liberazione della donna. In cambio ricevette in dono l’Excalibur : la leggendaria spada di re Artù. Contemporaneamente, il tentativo di invadere il Sud da parte d’Enrico VI, intenzionato a far valere le sue ragioni conseguenti alle clausole nuziali, si risolveva in un pesante fallimento causato da un contagio di peste sviluppatosi nelle fila del suo esercito.
Nel 1192, il coriaceo Imperatore avviò il piano di recupero della dote coniugale attraverso il suo referente nel Mezzogiorno: Bertoldo di Kunsberg, che attaccò gli insurrezionisti di Mandra in Molise.
Solo nel febbraio del 1193, con la resa di Venafro, l’intera regione continentale del Sud cadde in mano tedesca.
Garantita al figlio la successione anticipata, Tancredi intanto ne progettò le nozze con Irene, figlia di Isacco Angelo per assicurarsi una solida alleanza militare che lo affrancasse dalla incombente minaccia imperiale. Poi, sequestrò Costanza, relegandola a Salerno.
Ma un altro fronte di guerra s’era aperto nel Regno: l’odio dei Cristiani di Palermo contro i Musulmani.
La tirannide di Enrico VI
Furono mesi terribili: alla carneficina si sottrassero quanti, riusciti a sfuggire alla Multa Strage, trovarono riparo ad montana, ovvero verso la qila del territorio di Monreale. E la situazione era stata esasperata proprio dalla elezione di Tancredi: i Gesta Regis Henrici e Ruggero di Hoveden sottolineano come l’arretramento dei Saraceni verso le montagne fosse stato causato dall’ostinato rifiuto a servire regi Tancredo, malgrado la fedeltà successivamente manifestata alla regina Sibilla.
Tensioni ed incertezze permasero nell’isola fino al 1194, anno in cui il contestato Sovrano morì, lasciando erede il figlio treenne Guglielmo III.
La Sicilia era, allora, squassata dal conflitto apertosi fra Matteo d’Ajello, che aveva contrastato le nozze di Costanza ed Enrico, e l’Offamilio che n’era stato il fautore. La vicenda aveva coinvolto sostenitori degli Svevi, Cristiani e Musulmani, con complessivo indebolimento del governo amministrato dalla reggente.
«… sin da quando re Guglielmo dié la Principessa Costanza in moglie ad Arrigo VI di Svevia, dichiarò che in estinzione della real famiglia normanna dovesse succedere al Regno di Sicilia la imperial casa di Svevia… dal Parlamento del 1189 fu eletto re di Sicilia Tancredi, in pregiudizio dei diritti di Costanza, figliuola del re Ruggero… tale fu il governo stabilito dal fondatore della monarchia e tale si mantenne nei regni di Guglielmo I il malo e di Guglielmo II il buono, di Tancredi e dé pochi giorni che ebbe nome di re il piccolo e sventurato Guglielmo III…» (S. Bonamici, 1847)
All’epoca, i rapporti fra la Curia di Celestino III e Costanza d’Altavilla erano tesissimi, com’è provato dalla lettera del tre ottobre del 1195 nella quale ella elevava una formale protesta a fronte dell’arbitraria nomina dell’ abate di S.Giovanni degli Eremiti a Palermo.
L’Imperatrice vi tratteggiava il sacerdote come un blasfemo traditore del Re ed avocava a sé il diritto di revoca, poiché quel monastero era stato fondato da suo padre. L’episodio veniva ad appesantire la più generale tensione: Enrico VI, figlio del Barbarossa e di Beatrice di Borgogna; Re dei Romani dal 1168; sposo dell’erede al trono di Sicilia ed incoronato Imperatore da Papa Celestino III, si era già avviato verso il Sud peninsulare, pronto a rivendicare i suoi titoli con la forza delle armi.
Per nulla condizionato dalla coalizione formata da Tancredi, Riccardo d’Inghilterra, Ottone di Brunswick e le truppe clavisegnate di Urbano II, egli aveva invaso lo Stato Pontificio facendo sapere che si sarebbe ritirato solo quando e se la Curia di Roma gli avesse riconosciuto la titolarità del Regno. Nel frattempo, aveva atteso alla ridistribuzione degli incarichi di potere e, dichiarato decaduto Ruggero Mandra nella regione cerniera del Molise, lo sostituì con Corrado di Lutzinhart, coniugato a Clarice, figlia di Ugo II e di Clemenza, a sua volta titolare del feudo di Sepino e Campobasso.
La improvvisa morte di Corrado, però, fece spazio al siniscalco Markward Von Anweiler, nuovo responsabile dell’area. Costui avrebbe offerto lealtà armata ad Enrico, cui la fortuna aveva d’improvviso arriso attraverso la morte di Tancredi ed attraverso la cattura di Riccardo d’Inghilterra, tratto prigioniero da Leopoldo d’Austria; deportato nella prigione di Trifels e riscattato dalla madre, Eleonora d’Aquitania, previo il pagamento di centomila marchi.
Invasa la Puglia e la Sicilia, col forte favore dei Baroni ribelli al Papa, l’Imperatore marciò su Palermo, deciso ad esigere la Corona ed ogni altro diritto dinastico. Affermata la sua autorità nell’isola, raggiunse un’intesa con la vedova reggente: pacificamente rinunciando ad ogni eventuale pretesa sul trono spettante a Costanza ed impegnandosi a giurare fedeltà al Sovrano tedesco, Guglielmo III, figlio ed erede di Tancredi, avrebbe mantenuto la Signoria della paterna Contea di Lecce e del Principato di Taranto.
L’accordo finalmente consentì all’Hohenstaufen di essere incoronato Re di Sicilia nel duomo palermitano e di emanare, nella stessa settimana natalizia, un duro provvedimento di confisca dei beni dei Cistercensi a vantaggio dei Cavalieri Teutonici. Ma gli eventi precipitarono drammaticamente il ventisei dicembre quando, in coincidenza con la nascita ad Jesi del suo primogenito Federico II, il Sovrano, surrettiziamente accusando Sibilla d’aver ordito una congiura antiimperiale, la fece arrestare e deportare in Alsazia col figlioletto accecato ed evirato.
Con questo inspiegabile atto cominciò la sanguinaria tirannide di Enrico VI detto il Crudele, il cui governo fu di breve durata poiché la morte lo colse trentaduenne, ponendo al trono Costanza in reggenza di quel figlio che avrebbe concluso la dinastia normanna di Sicilia, instaurandovi quella sveva.
Il pur limitato governo dell’Imperatore era stato dannoso quanto un fulmine poiché, dopo avere umiliato il Papato ed Riccardo Cuor di Leone, aveva travolto in un turbine di orrori la terra dei Normanni d’Italia, inconsapevolmente immoti, ora, nell’attesa de…l’ultima possanza…
L’esiguità di documenti storici impedisce una ricostruzione completa e attendibile del carattere e della personalità di Costanza d’Hauteville. Si sa con certezza che, allevata presso la Corte Palermitana nel rispetto delle consuetudini locali, ella era stata costretta ad un fidanzamento politico il ventinove ottobre del 1184; che aveva alle spalle una consuetudine familiare di governi femminili cui attingere per regnare da sola ed energicamente: dalla regina Adelasia e dalla regina Margherita aveva tratto la competenza di quella tradizione di reggenza che l’avrebbe in seguito impegnata quale tutrice del figlio Federico II; che fosse dotata di temperamento forte, se è vero che nel 1188, nella causa di successione della Contea di Namur, contro la volontà del coniuge avesse sostenuto ad oltranza le ragioni del suo parente: il Conte Baldovino di Hainault. Pari fermezza, aveva manifestato nella scelta del nome del figlio chiamato, in memoria della grandezza del nonno svevo e della leggendarietà del nonno normanno, Federico Ruggero: in Auspicium Cumulandae Probitatis. Orgoglio e determinazione aveva manifestato anche nella dura polemica con Celestino III.
Ma, al di là delle generiche rivisitazioni del suo impianto esistenziale e politico, resta il dubbio: davvero, il suo solido senso della giustizia la coinvolse nella mortale congiura tramata contro Enrico, un uomo che, se avesse potuto, non avrebbe mai sposato?
Certamente tre coraggiose iniziative ne evidenziano la tempra: l’espulsione degli stranieri dal Regno, a ridosso del decesso del marito; la ferma deposizione del vescovo Gualtiero di Pagliara e l’indifferenza all’indicazione che i Principi Elettori Tedeschi avevano espresso in direzione del suo figlioletto, dsignandolo alla successione imperiale. L’unico legame che, a suo avviso, egli avrebbe dovuto mantenere con la Germania sarebbe consistito del titolo di Duca di Swaben, o Svevia.
Non le riuscì, al contrario, di chiarire il rapporto di dipendenza feudale della Sicilia dalla Chiesa, poiché il venticinque novembre del 1198 la sua improvvisa morte avviò il Regno alla catastrofe.
E’certo che il suo breve governo la impegnò come Regina normanna di Sicilia e non come Imperatrice vedova, sicché la sua fondata cultura antigermanica la indusse a leggere pericoli mortali nell’assunzione della Corona imperiale da parte del figlio. Verosimilmente, fu in base a tale timore, in quel clima di intrighi ed instabilità politica per il Regno e per l’Impero, che ella pretese fin dal momento dell’incoronazione dell’infante la rimozione dagli atti anche del titolo di Rex Romanorum.
Se nel corso della sua dolorosa esperienza matrimoniale, Costanza non perse occasione per manifestare rancore ai Tedeschi, dai quali mirò ad allontanare il figlio, anche nei confronti della Chiesa ella mostrò diffidenza e paura: i suoi vertici l’avevano costretta all’umiliazione del reintegro di Gualtieri di Pagliara nell’incarico di Corte!
Forse, non ebbe tempo, né vie d’uscita per eludere l’interferenza papale nella vita politica del Regno fondato dal padre.
Forse, lucidamente, in procinto di morire, affidò il figlio al Papa: una consegna pubblica, mirata a mettere la Curia Romana ed i suoi più pericolosi rappresentanti con le spalle al muro. Una consegna che ella intese fare alla Storia, chiamandone a testimone il mondo: il bambino, nelle mani di un nemico chiamato a farsene carico, avrebbe avuto maggiori possibilità di preservarsi da quei rischi e da quei pericoli che ella presagiva nel futuro dell’Impero e degli Svevi.
Forse, quell’affidamento fu un coraggioso e raffinato espediente politico volto a neutralizzare l’ostilità storica dei Pontefici verso gli Hauteville e verso gli Hohenstaufen, dei quali il piccolo veniva a proporsi sintesi.
E allora, quello che la storia ha raccontato per secoli come una sorta di rinuncia e di ingenua fiducia nei confronti del Papa o di devozione ai valori della fede non fu altro che l’estremo atto d’amore di una madre motivata dalla cautela già manifestata dai suoi avi nei confronti del Clero.
Costanza fu l’ultima Normanna di Sicilia.
Con la sua morte i riflettori sull’epopea vikinga si spensero definitivamente.
Ma la storia non dimentica. E fra le raffinate testimonianze culturali, insiste, nell’intero Sud, incontaminato ed imponente anche quel capolavoro di linguaggio artistico figurativo che prese il nome di stile normanno-romanico-pugliese: un’architettura tanto originale, da diventare il più importante elemento creativo non solo nella comunicazione politica, ma anche nell’urbanistica europea.
Quadro di sintesi dell’attività di conquista normanna e dei regolamenti di conti interni ai Drengot e d’Hauteville:
fiume Olivento, marzo del 1041:
le forze bizantine guidate dal Catapano Michele Dokeianos, malgrado numericamente superiori a quelle di Rainulfo Drengot e del suo alleato milanese Arduino, furono decimate;
fiume Ofanto, maggio 1041:
gli ufficiali bizantini si scontrarono duramente con i contingenti normanni comandati da Atenolfo, fratello del Principe longobardo di Benevento, travolgendo Dokeianos con un nuovo bagno di sangue;
Civitate, giugno 1053:
il fronte alleato di Riccardo Drengot, di Roberto e Umfredo d’Hauteville e di Baronie campano/pugliesi, dopo aver sottratto la Puglia ai Bizantini, sconfisse i clavisegnati di Leone IX malgrado costoro fossero molto meglio equipaggiati: il Papa fu tratto prigioniero e la sua liberazione fu subordinata alla pace ed al riconoscimento delle conquiste normanne nel Sud, in particolare del Ducato di Puglia, assegnato al Guiscardo e del Principato di Capua, confermato a Riccardo;
Nocera, luglio 1132:
il progetto di unificazione delle terre assoggettate dai d’Hauteville entrò in rotta di collisione con gli interessi dei Drengot : Ruggero II, per eludere la resistenza di Roberto di Capua, di Rainulfo e del Duca napoletano Sergio, fece demolire il ponte d’accesso alla piana di Nocera e, assediata la città, tentò di prenderla. Ma il piano fu sventato dall’imponente schieramento di truppe campane. La battaglia si giocò in tre tempi e, nella sua terza fase, l’impatto della carica ordinata da Rainulfo fu tanto violento da indurre il d’Hauteville ad una umilante ritirata a Salerno;
Rignano Garganico, ottobre 1137:
negatosi alla mediazione di Bernardo di Chiaravalle ed in vista della minacciosa calata dell’Imperatore Lotario, nella sterminata pianura del Tavoliere Ruggero si oppose alle schiere di Rainulfo, guidando assieme al suo omonimo figlio le Baronie napoletane precedentemente partigiane del Drengot. Anche in questa occasione, l’efficacia militare ed il rancore di Rainulfo -per il quale la posta in gioco non era solo la supremazia politica, ma anche quella familiare, avendogli il cognato rapito moglie e figlio- ricadde con tanta forza sui nemici da causare la morte di Sergio di Napoli e da indurre il Sovrano di Sicilia ad una scomposta fuga.
Galluccio, luglio 1139, luglio:
ripreso il controllo del Sud, grazie all’improvvisa morte di Rainulfo, a Ruggero toccò misurarsi con le truppe di Papa Innocenzo II, di Roberto di Capua e di Riccardo di Rupecanina. Dopo aver prudentemente accettato un incontro di pace a San Germano e dopo aver negato al Pontefice la restituzione del Principato per Roberto e della Contea per Riccardo, riaprì le ostilità e in battaglia prese in ostaggio Innocenzo II ed un gruppo di suoi cardinali, la cui liberazione fu concessa previa conferma, a Mignano, della definitiva titolarità del Regno.
Il processo di unificazione nazionale si era concluso.
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H. Houben, Ruggero II di Sicilia
E.Cuozzo, Quei maledetti Normanni
J.LeGoff, Il Medioevo
D.Matthew, I Normanni in Italia
S.Tramontana, Il Regno di Sicilia
S.Tramontana, Il mezzogiorno medievale
S.Tramontana, I Normanni in Italia
Ornella Mariani, sannita. Negli anni scorsi: Opinionista e controfondista di prima pagina e curatore di Terza Pagina per testate nazionali; autore di saggi, studi e ricerche sulla Questione Meridionale. Ha pubblicato saggi economici vari e:
Pironti, Per rabbia e per amore
Pironti, E così sia
Bastogi, Viaggio nell’ entroterra della disperazione
Controcorrente Editore, Federico II di Hohenstaufen
Adda Editore, Morte di un eretico (dramma in due atti)
Siciliano Editore, La storia negata
Mefite Editore, Matilde (dramma in due atti)
Mefite Editore, Donne nella storia
Collaborazione a siti vari di storia medievale. Ha in corso l’incarico di coordinatore per una Storia di Benevento in due volumi, (720 pagine) commissionata dall’Ente Comune di Benevento e diretta dal Prof. Enrico Cuozzo.