Migranti & Barbari. Stelle (e strisce) di storiografia e problemi

di Glauco Maria Cantarella.

«A leggere una certa letteratura recente sugli stanziamenti germanici si ha l’impressione di assistere a un tè nella canonica della parrocchia, cui venga invitato un timido nuovo venuto nel villaggio, che potrebbe essere un buon acquisto per la squadra di cricket. V’è un breve momento di imbarazzo mentre il padrone di casa cerca una sedia libera e versa un’altra tazza di tè, ma la conversazione, e la vita del villaggio, continuano tranquillamente. L’aggiustamento raggiunto tra invasori e invasi nell’Occidente del V e VI secolo fu di gran lunga più difficile e anche più interessante. Il nuovo venuto non era stato invitato, e portò con sé una numerosa famiglia, che ignorò i panini imburrati per avventarsi sulle torte. Alla fine, invasori e invasi si accordarono e accettarono gli uni i costumi degli altri, ma il processo di adattamento non fu indolore per i nativi, ebbe bisogno di molto tempo e, come vedremo, lasciò la canonica in pessime condizioni» (Ward-Perkins, trad. italiana 2008 [ma 2005], p. 104).

Solo uno storico dotato di buona penna e di ottime conoscenze critiche potrebbe permettersi di scrivere in questo modo. Qui c’è praticamente tutto. Ci sono i grandi cambiamenti dell’interpretazione storiografica. Oggi nessuno si rifà più al grande e risolutivo schema delle migrazioni, che dopo avere originato mitografie fondative nel medioevo (basta pensare ai Longobardi secondo Paolo Diacono, o anche agli Ungari secondo l’interpretazione di un monaco di Saint-Germain di Auxerre impegnato, verso la metà del sec. X, a dimostrare che non si trattava degli agenti dell’Anticristo) ha costituito la base di abominevoli mitografie nell’età dei nazionalismi e dato il segno della costruzione della stessa identità statunitense (il Discorso della frontiera, Turner, 1893): vale a dire, nessuno nega l’evidenza, cioè che i fenomeni migratori siano stati sempre in atto, ma non sono più considerati migrazioni di popoli (le Volkswanderungen), anche perché si è notato che i popoli in realtà non esistono, le identità si acquisiscono e mutano nel corso degli spostamenti e non sono del tutto definitive nemmeno dopo gli stanziamenti (Pohl 2000; Heather 2006 [ma 2005]; Geary 2009 [ma 2002])… C’è anche il rinvio dialettico e costante ai nostri giorni. E c’è, ovviamente, tutto il mondo anglosassone o angloamericano, tutto il mondo insomma che comunica in inglese o nelle sue derivazioni (giacché quello che diceva Wilde, gli inglesi e gli americani hanno tutto in comune, tranne naturalmente la lingua, vale anche per gli australiani, i neozelandesi, etc.).

Mi spiego meglio. Il quadretto di Ward-Perkins ci trasferisce nella tipica, mitica, campagna inglese, verde, con le case magari con i tetti di torba, una chiesa dai muri antichi e persino più grigi del cielo che però, di quando in quando, fa filtrare abbastanza sole per organizzare in serenità pomeriggi di tè e di cricket: il villaggio-tipo dell’Ispettore Barnaby, con i suoi riti e le sue inconfessabili verità. Si presentano degli estranei: il fatto è che (questo Ward-Perkins non lo dice) non vengono dal villaggio vicino e nemmeno sono gente di città che fugge dal traffico quotidiano (salvo contribuire a intasarlo quotidianamente per recarsi al lavoro, a spese di chi in città continua a vivere): potrebbero essere, tanto per rimanere in Inghilterra, nuovi arrivati dalla Nigeria, dal Kenya, dal Pakistan, India, Bangladesh… o aborigeni australiani, naturalmente, o anche caraibici della Jamaica. I nuovi arrivati, cioè, sono diversi, e si nota. Ma non perché gli abitanti del villaggio, gli indigeni, non siano abituati a vederli, per esempio a pulire le strade, condurre i treni delle metropolitane, servire nell’esercito, giocare a cricket, cosa anzi nella quale si sa che indiani e pakistani sono piuttosto bravi. A tutto ciò i countrymen in questione hanno un’abitudine radicata, anzi, antica.
Come i romani (insomma, chi viveva all’interno dell’impero) erano abituati a vedere i vari barbari, e gli africani del Nord Africa e dell’Africa sub-sahariana, e anche gli arabi: quegli arabi che combatteranno per l’impero sotto le mura di Costantinopoli dopo il disastro di Adrianopoli nel 378 e, se vogliamo credere ad Ammiano Marcellino, salveranno la città perché si esibiranno in comportamenti esemplarmente selvaggi tali da sgomentare i Goti: barbari questi ultimi, per i romani e i loro sodali, ma meno barbari, ai loro propri occhi, di quegli arabi che tagliavano la gola ai nemici abbattuti e ne bevevano il sangue… Gli arabi, i romani li conoscevano da molto tempo ed evidentemente li apprezzavano: non soltanto svolgevano il servizio di scorta alle carovane che percorrevano l’Arabia Felix e d lì raggiungevano i mari al di là dei quali si aprivano tutte le favolose prospettive del favoloso Oriente (sarebbe stato meno complicato attraversare l’impero dei Persiani, salvo il fatto che lo stato di guerra con l’impero romano era endemico), ma erano stati coinvolti nel servizio delle legioni e assimilati, e stanziati (ad esempio) sul limes danubiano o, come Maris ibn-Qasith e un suo fratello, nella Germania Superiore (Barbero 2006, p. 19).

Insomma, gli arabi (così come tutti i barbari conosciuti da tempo; anche i Goti, per quanto la loro formazione fosse abbastanza recente, in qualche misura erano già «romanizzati» e cristianizzati) per i romani potrebbero essere un po’ come i gurkha per gli inglesi, o come sono stati i marocchini per i francesi, o gli ascari per gli italiani; per non dire, il che sarebbe più appropriato se non altro per la distanza cronologica, dei vareghi a Costantinopoli e dei maml?k in Egitto. Utilissimi, ma al loro posto! ogni tanto, certo, qualcuno di loro poteva essere promosso socialmente e anzi compiere vertiginose scalate… Non è, dunque, per l’aspetto o il diverso modo d’essere che i non-invitati risultano estranei. Ha scritto Geary (p. 52) a proposito dei nostri giorni: «questi immigrati parlano arabo, turco e altre lingue molto diverse da quelle parlate dalla borghesia locale (…) Questi fenomeni… rappresentano in realtà un modello molto antico di diversità etnica. Ancora una volta, l’Europa comincia ad assomigliare al suo passato»; il che è indiscutibile, se si pensa al fatto che Sahagún, borgo cresciuto sul camino de Santiago, secondo una cronaca all’inizio del sec. XII era composto da «personas de diversas e estrañas provincias e reinos, conbiene a saver, gascones, bretones, alemanes, yngleses, borgoñones, normandos, tolosanos, provinçiales, lonbardos, e muchos otros negoçiadores de diversas naçiones e estrannas lenguas»: persone di diverse provincie e regni stranieri, vale a dire baschi di Guascogna, bretoni, tedeschi, inglesi, borgognoni, normanni, tolosani, provenzali, lombardi, e molti altri mercanti di diverse origini e di lingue straniere (tuttavia verrebbe da chiedersi: Geary, che è americano, perché pensa all’Europa e non a Los Angeles, Houston, New York?). Alle diversità si finisce per fare l’abitudine, e del resto le città antiche erano un melting pot.
Risultano estranei, piuttosto, proprio perché non-invitati da chi, fino a poco prima, semplicemente li controllava quando non li dominava. Perché si sono auto-invitati forse per reazione alla «illimitata aggressività» secolare dell’impero romano (Heather 2006 [ma 2005]), e più probabilmente per compartecipare del clima economico che l’impero romano garantisce proprio perché è sempre stato in grado di sostenere un sistema di scambi asimmetrici con tutto il mondo che lo circondava, dava monete d’argento più o meno adulterate, manufatti, prodotti di tecnologia come le armi in cambio di ambra o pelli o ferro che venivano rivenduti a prezzo maggiorato all’interno dell’impero e producevano altra circolazione monetaria e, ancora, nuovi prodotti su scala industriale, che circolavano dentro i confini e potevano a loro volta essere scambiati sui confini del barbaricum: e qui chi era in grado di accaparrarsi le sorgenti principali delle materie prime o semilavorate più richieste nel mondo romano-mediterraneo ovviamente assumeva una posizione emergente e dominante, e poteva accordarsi con chi aveva assunto il medesimo ruolo, ed ecco come mai una via dell’ambra scendeva lungo la Vistola, fuori dal limes, e fu oggetto per secoli di accurata manutenzione da parte dei barbari (Heather, 2006; Heather 2010 [ma 2009])… Insomma i barbari arriveranno perché stanno fuggendo da uno stato di sottosviluppo, e non soltanto per razziare ma per partecipare di un superiore livello di sviluppo economico di cui hanno già visto le conseguenze sociali all’interno dei loro stessi gruppi, che ne sono stati modificati…

Per questo, allora, trascurano «i panini imburrati per avventarsi sulle torte». Ma siamo sicuri che tutti i nuovi arrivati e le loro famiglie riuscirono ad arrivare al tavolo delle torte? Ward-Perkins sorvola su un paio di passaggi: i barbari sovvertono i ruoli perché rinegoziano continuamente il ruolo che la diplomazia romana aveva sempre attribuito loro, e rinegoziando rimescolano le carte e assumono un crescente protagonismo e imparano continuamente a rinegoziare sempre meglio, e così facendo assumono identità via via più definite e comunque del tutto nuove; e insiste su un elemento: è la distruzione dei ceti che potevano permettersi consumi di media qualità che porterà alla fine della civiltà e condurrà alla polarizzazione della società in due fasce ben distinte: i capi militari e i vescovi da un lato, tutti gli altri dall’altro. Insomma, tanto fare un esempio, Stilicone o Odoacre, e Sinesio di Cirene: quel Sinesio collega di Ipazia che, diversamente dalla filosofa martirizzata dai cristiani, era passato armi e bagagli, sapienze filosofiche e scientifiche e rapporti personali e familiari, classe senatoria e redditi da grande latifondista nordafricano signore di coloni e padrone di schiavi, al cristianesimo, ed era diventato in breve vescovo di Tolemaide grazie all’influenza diretta di Teofilo di Costantinopoli; proprio Sinesio scrive righe sprezzanti sui nuovi arrivati, ma alle quali non bisogna credere interamente – Sinesio sa meglio degli altri, e immensamente meglio di noi, che non si riusciva a partecipare delle discussioni del Senato se non si possedeva un codice linguistico particolare, una lingua formalizzata, il latino della classe dirigente che non aveva nulla a che spartire con il volgare che si parlava nelle strade… con il latino senatorio la lingua dei plebei aveva assai poco a che fare già a metà del I secolo d.C. come dimostra il caso di Trimalcione: «et ecce cepi ipsimi cerebellum» (alla lettera: ecco, ho cominciato ad essere il cervello per lui stesso [il padrone]: Satyricon 76.1); era appannaggio soltanto dei gruppi, ceti o classi dirigenti, un segno distintivo, un po’ come il teotisco («tedesco») che era una lingua rituale e cultuale, frequentata soprattutto nelle sedi assembleari. O un po’ come, in età moderna e contemporanea, l’inglese dell’élite formata nelle università migliori e costosissime, o il francese della ENA: sono codici che indicano una provenienza, un’appartenenza, un universo di pensiero… Sinesio dice: brutta cosa a vedersi «quando un uomo vestito di pelli comanda a quelli che indossano la clamide, e quando uno, spogliatosi della pelliccetta di cui era coperto, veste la toga e discute l’ordine del giorno insieme ai magistrati dei Romani, col console che gli offre il posto d’onore accanto a sé, mentre quelli che avrebbero diritto stanno dietro. Questi tali, poi, per poco che siano usciti dal senato, si rimettono subito le pellicce, e quando incontrano i loro soci si mettono a ridere della toga, dicendo che con quella addosso non si riesce a sguainare la spada» (Barbero 2005, p. 202). Non si tratta solo dell’«alterigia del grande proprietario terriero di famiglia senatoria» che parla «di questi immigrati non ancora ripuliti che ormai spadroneggiano nell’impero» (Barbero): si tratta del voler minimizzare il fatto che proprio la classe senatoria ha ammesso al suo proprio livello un’infinitesima porzione dei nuovi arrivati, perché li ha trovati utili o indispensabili e inevitabilmente da coinvolgere. E se difende la propria identità in questo modo è soltanto perché la sta già perdendo…

Nulla di nuovo in tutto questo. Il mondo antico era già polarizzato: pochissimi immensamente privilegiati, l’immensa maggioranza a distanza stellare dai capi; la situazione dei coloni non era così differente da quella degli schiavi, e gli schiavi erano tali, cioè oggetti animati e non-uomini, perché non erano degni di essere liberi-e-uomini, perché non avevano saputo difendere la loro libertà. Ecco perché era stato tanto scandaloso il bellum servile di Spartaco, ecco anche perché i suoi schiavi ribelli non avevano riscosso troppi consensi intorno a loro (cosa non impossibile, apparentemente, perché in fondo si sollevavano contro i medesimi latifondisti che spolpavano i coloni liberi), perché si trattava di cosa contraria all’ordinamento del mondo, era stata la rivolta degli oggetti, degli animali-benché-umani (Aristotele: «lo schiavo è uno strumento animato, e lo strumento è uno schiavo inanimato» [Abulafia 2010 – ma 2008 – p. 345]; bestiame umano saranno chiamati gli schiavi anche nella Spagna visigota e cristiana; i Padri della Chiesa avevano preso atto della schiavitù che, ovviamente, visto che esisteva doveva essere un segno divino: un’altra punizione per il peccato originale, forse): un cane che azzanna il padrone, non è forse da abbattere? Ecco: i nuovi vicini nel villaggio di Ward-Perkins non si sottraggono alla medesima polarizzazione. Dunque siamo così sicuri che nella loro totalità siano riusciti ad arrivare almeno ai panini imburrati? o a quelli sono arrivati solo i primi e più fortunati, e gli altri hanno dovuto prima accontentarsi del pane appena tostato, poi del pane ancora da tostare, e subito dopo hanno dovuto ripulire prima le panetterie e le latterie, e poi imparare a fare il pane e anche il burro, per dirsi alla fine, magari, che erano più saporiti i dolcetti farciti con i semi di papavero bianco e che non conveniva fare tanta fatica per produrre il burro? con il che tutta la sapienza tecnologica dell’industria lattiero-casearia (o una sua buona parte) veniva a perdersi… Sto scherzando, naturalmente. Ma non troppo: mi limito a spostare di piano le tesi di Ward-Perkins. E non si può sfuggire alla domanda: siamo così sicuri che la scomparsa di quella sorta di ceti medi, dei loro consumi e delle competenze professionali che vi erano collegate, così ben argomentata da Ward-Perkins, sia effetto solo dell’inserimento della «numerosa famiglia» dei nuovi arrivati o non fosse già in nuce, se non in atto, nelle dinamiche socio-politiche dei secoli III e IV, nella costituzione di quella che Mazzarino chiamò con felice espressione la piramide carismatica al culmine della quale c’erano i pochissimi possessori dei solidi aurei che detenevano e negoziavano tutto il potere e si autoesentavano dal pagamento delle imposte a differenza di quanto capitava ai poveri cives romani (vale a dire a tutti gli abitanti dell’impero dopo che nel 212 Caracalla aveva generalizzato l’attribuzione della cittadinanza precisamente per avere accesso ad una platea contributiva immensamente più ampia di quanto non fosse stato sino ad allora)? Insomma, siamo così sicuri che i barbari abbiano provocato, loro e loro soltanto, la distruzione dell’impero e della sua civiltà (tesi sulla quale concordano Ward-Perkins e Heather, alla fin dei conti, mentre non ne sono completamente convinti gli esponenti principali del progetto europeo The Transformation of Roman World¸ 1990, Walter Pohl tanto per fare un solo nome) e non siano stati invece solo l’urto, distruttivo certo, e determinante, ma soltanto conclusivo, che aveva precipitato una situazione già avanzata per ragioni endogene?

Non dimentichiamo che tra le rivolte dei sobborghi di Londra negli anni ’80-’90 e Dodi al Fayed c’è tutta la differenza che fanno il denaro e il ruolo sociale, ove quest’ultimo si giova delle dinamiche già prevalenti. E quanto all’integrazione: i capi barbari si esprimeranno in latino (o troveranno agevolmente chi lo farà per loro: altra cosa che Sinesio non avrebbe potuto confessare…), ma non è affatto detto che essa sia più rapida o più profonda ai livelli alti della popolazione; certo è diversa rispetto a quella dei livelli bassi (cfr. Geary, p. 52, sull’uso dell’inglese: «al vertice, le imprese multinazionali e le grandi istituzioni scientifiche hanno adottato l’inglese come lingua unica, senza troppi riguardi per le tradizioni linguistiche locali»)… L’integrazione e l’assimilazione dei barbari: grande problema, su cui sembra essere stato trovato un punto di generale, o almeno generico, accordo.

Sarebbe stata garantita, a quanto pare, dall’infernale macchina militare dell’impero romano. Nell’ultimo quarto di secolo questa sembra essere diventata una vera ossessione per la storiografia. È innegabile che il sistema delle legioni imperiali muoveva flussi economici imponenti, rastrellando risorse che venivano destinate alle guarnigioni, ed è del pari innegabile che questa economia di scala innescasse una grande quantità di sistemi economici regionali e locali: insomma, chi viveva al riparo del limes e chi viveva di là dal limes condividevano il medesimo flusso di risorse. Ed è innegabile che l’afflusso di barbari all’interno degli eserciti imperiali, che imponevano abitudini di vita e di combattimento severissime e ferme lunghissime ma garantivano il soldo o almeno il salario (naturalmente a rischio della vita o dell’invalidità ma, tanto, lo stesso rischio si sarebbe corso a trovarsi contro gli imperiali…) e ovviamente il bottino dato che la storia e la tradizione erano dalla parte delle aquile romane, micidiali macchine da guerra, provocava abbastanza spontaneamente un’assimilazione, se non alla romanità almeno all’abitudine alla romanità, e induceva modificazioni profonde; si tratta di fenomeni che si osservano altre volte nella storia, per esempio negli eserciti della Guerra dei Trent’Anni. Ma a giudicare dalla storiografia questa sembra essere diventata la condizione fondamentale e determinante dell’assimilazione. Siamo sicuri che la contemporaneità non c’entri proprio niente? gli studi di Barbero (2006) o di Heather (2006, 2010) non trarranno forse ispirazione o sollecitazione dalla più grande e diffusa macchina militare dei nostri tempi, quella dell’esercito statunitense? dove ci si può americanizzare, conseguire la cittadinanza, il diritto agli studi, talvolta condizioni più favorevoli per l’acquisto della casa, e dove le grandi basi costituiscono centri propulsori per le economie regionali (o possono esserlo, e per questo sono sempre state tanto ambíte), dove l’economia di guerra e degli armamenti sostengono regioni e Stati interi (si vedano, ad esempio, Johnson 2005; Hertsgaard 2003). Insomma, siamo proprio sicuri che l’esistenza (un nome per tutti, ovviamente) di Camp Bondsteel in Kosovo (1999) con l’economia di appalti e subappalti, fornitori e subfornitori, che ruota intorno ad esso non abbia condizionato in nessun modo l’interpretazione storiografica sulle legioni romane stanziate sulle aree strategiche? Anche perché soprattutto chi appartiene all’universo comunicativo di lingua inglese difficilmente può essere sfuggito all’eco di commenti come quelli di Charles Krauthammer, editorialista del Washington Post, che il 5 marzo 2001 scrisse su Time: «L’America (…) è la potenza che domina il mondo, come non accadeva dai tempi dell’antica Roma. L’America, di conseguenza, è nella posizione di poter rimodellare le norme, modificare le aspettative e creare nuove realtà. Come? Con implacabili dimostrazioni della sua volontà, e senza chiedere scusa a nessuno» (Johnson 2005, p. 84). E questa è proprio l’immagine che risulta della macchina militare romana, che più volte si muoveva e faceva terra bruciata proprio a scopo intimidatorio (oltreché, non va mai dimenticato, per alimentare il floridissimo e redditizio mercato degli schiavi). E allora non sarà con un occhio teso alle sollecitazioni dell’età contemporanea che si scrive, ad esempio: «Sospetto fortemente che il tipo di dominio esercitato dagli imperi tenda inevitabilmente a generare una reazione uguale e contraria che, prima o poi, porta i popoli dominati a spezzare le loro catene (…) Da ciò possiamo forse trarre una morale positiva: per via della sua illimitata aggressività, l’impero romano fu in ultima analisi la causa della sua distruzione» (Heather 2006, p. 552); «l’esercizio del potere imperiale provoca una reazione uguale e contraria in coloro che lo subiscono, inducendoli a organizzarsi in modo tale da smussare la punta dell’impero. Questo sarà motivo di consolazione o di inquietudine a seconda che viviate in una società imperiale oppure nella periferia dell’impero, e a seconda della fase storica in cui vi trovate, ma l’esistenza di una legge come questa è un altro dei messaggi sempre validi che ci vengono dall’indagine sulle interazioni tra imperi e barbari nel primo millennio dopo Cristo» (Heather 2010, p. 783)? Qui non sarà l’inquietudine contemporanea a cercare di tracciare leggi universalmente valide, come se il mondo degli umani potesse essere letto in termini matematici? E se è questo, fino a che punto è necessario tenerne conto per valutare la ricerca storica? E cercare troppe analogie con quanto avviene nel mondo contemporaneo non può condurre a depotenziare sostanzialmente affermazioni tanto sagge e tanto evidenti come quella di Geary (p. 171): «aveva ragione Eraclito: non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume. Quei fiumi che sono i popoli continuano a scorrere, ma le acque del passato non sono quelle del presente o del futuro»?

Dunque: assimilazione, ma non sempre e non dovunque. Magari i nuovi arrivati hanno conservato e trapiantato nel villaggio anche altre parti del loro passato, i morti che parlano dai fiumi e dai laghi come in India e nella Galizia spagnola o usi rituali come la grande comunità hindu di New York che ha eletto lo sbocco dell’East River a Jamaica Bay quale nuovo Gange, lontano da Benares («la Repubblica» 23 aprile 2011). Non è detto che l’assimilazione vada sempre a senso unico, dalla cultura più debole a quella più forte: anche perché dev’essere largamente condivisa, quest’ultima, per essere davvero forte. La cristianizzazione delle aree rurali dell’Europa, come si sa e testimoniano le fonti non soltanto medievali, fu lentissima e superficiale… Non sarà solo un caso che la categoria culturale del mestizado («meticciato») sia stata adottata dalla medievistica americana, e segnatamente californiana (Biddick 1994, p. 62), verso la fine del secolo scorso di fronte alla grande infiltrazione dei chicanos dal Messico, richiamati negli USA da esigenze economiche (cfr. Heather 2010, p. 62: «le pressioni economiche possono essere non meno costrittive di quelle politiche. Vedere che la tua famiglia è ridotta alla fame perché non hai accesso alla terra o a un lavoro è una questione economica o politica?») e favorita dall’impulso della produzione a basso o bassissimo costo. Pur senza voler istituire un rapporto troppo meccanico, sembra abbastanza evidente che questo non poteva non influenzare la riflessione sulle dinamiche delle migrazioni barbariche.

Macchina militare statunitense, politiche economiche del Fondo Monetario Internazionale (la perdita delle classi medie in continenti interi: non viene alla mente la tesi di Ward-Perkins?), sistema d’educazione delle élites (quello su cui è stato modellato il cosidetto sistema di Shangai che dovrebbe valutare le università di tutto il mondo) e umanità dei sobborghi di de-industrializzazione… Quanto involontariamente possono aver suggerito modelli e strumenti di lettura della storia? E anche le crisi economico-politiche sui bordi del sistema occidentale che, diversamente da come era stato frettolosamente e presuntuosamente chiamato (la Fortezza-Europa), è permeabile come l’impero romano: insomma, i muri funzionano solo se sono ritenuti utili dalle due parti e costantemente e fortemente presidiati (come fu il Muro di Berlino), altrimenti sono penetrabili: lo sono stati il limes, la Muraglia Cinese… Già: com’è che, se tutti sembrano essere alla ricerca della chiave universale per l’interpretazione storica delle migrazioni, nessuno sembra occuparsi di quelle che non interessano l’Europa e, in controluce, gli Stati Uniti? Com’è che se per spiegare gli ultimi secoli dell’impero romano Heather è arrivato fino ai Vikinghi e agli Slavi, e da tutto ha dedotto la sua legge generale, non abbia sentito il bisogno di sottoporla alla verifica di un confronto con altre situazioni, alla fin dei conti, apparentemente simili? A partire dalla costituzione dell’Islàm, ad esempio… Per non dire, appunto, del Celeste Impero… Dell’India dei Mogul… Dell’Orda d’Oro… E perché mai Geary ha usato come cartina di tornasole per la propria interpretazione il caso, certo calzante e tranchant, della storia degli Zulu, scritta da Alfred T. Bryant, e non ha gettato neppure uno sguardo sulle indagini, ad esempio, di Gonzalo Fernández de Oviedo, Palacio Rubios, Bartolomé de Las Casas, Ruy Daz de Guzmán, Juan Rodríguez Freyle, insomma su come nei secoli del descubrimiento del Nuovo Mondo si era affrontato il tema dei nuovi barbari («ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi»: Michel de Montaigne, fine del sec. XVI)? Perché se si cerca una linea universale di interpretazione, che corre in maniera diacronica su e giù per la storia (e per far questo non ci si accorge degli errori fondamentali che si commettono: per esempio, non è certo responsabilità dei Visigoti e della loro assimilazione politica in Spagna se nel XV secolo, a ottocento anni di distanza, in contesti imparagonabili e per risolvere problemi nient’affatto epocali ma del tutto legati – come sempre – ai loro tempi, sempre in Spagna viene inventata la limpieza de sangre per perseguitare gli ebrei: Geary, pp. 135-136), si deve anche sottoporla anche ad una verifica non dirò sincronica ma che attraversi orizzontalmente la storia, la sezioni, la sottoponga, per così dire, ai processi intellettuali di comprensione quali, in geometria, quelli del teorema di Cavalieri… E forse l’anglocentrismo (nel senso amplissimo che indicavo sopra) dominante non è sempre condivisibile, anche se è comprensibile sotto molti aspetti, non ultimo quello degli esperimenti socio-economici dell’ultimo trentennio e le loro molteplici conseguenze…

Conclusione? In capo ad appunti tanto brevi, frettolosi, parziali, provvisori non c’è, non può esserci. Mi limito a notare soltanto l’impegno continuo e insistito a far rispecchiare il passato nel presente e il presente nel passato, e non sempre questo rispecchiamento costituisce, secondo me, un dialogo. Ma proverò a tirare ugualmente qualche somma.

Quei barbari-migranti, quelli che modificano o finiscono di modificare la storia dell’impero romano e modellano del tutto involontariamente le fisionomie di ciò che noi chiamiamo Europa, non avevano una storia e una cultura. Non avevano un passato, perché non l’avevano mai scritto. Non avevano fisionomie definite con cui identificarsi, se le sono costruite man mano: erano mutanti, difficilissimi da comprendere per chi li osservava dall’esterno eppure li conosceva nella pratica perché trattava con loro. La storia di quei barbari (Goti, Franchi, Longobardi) viene scritta proprio dagli esterni, i letterati e vescovi del mondo ellenistico-romano-cristiano, che le danno un ordinamento già mediato, già all’incrocio fra i modelli politici dominanti, fonte di legittimità, e quel tanto di novità che innegabilmente i nuovi re e regni recano con sé perché hanno in sé: in ogni caso è la cultura precedente e superiore per il fatto stesso di esistere che attribuisce loro storia e identità.

I nostri «nuovi barbari», i nuovi migranti, hanno invece già la loro storia. Per questo le suggestioni che vengono dalle migrazioni dei nostri giorni possono essere utili forse per cercare di capire quelle antiche, ma l’inverso non vale. Ogni gruppo di migranti ha una propria storia, una propria identità, ha la coscienza di avere storia e identità. Dunque noi possiamo conoscerli solo che lo vogliamo, e chiedere loro gli strumenti più appropriati per farlo. Così come loro possono conoscerci, solo che gli ispiriamo l’interesse a trovare l’opportunità di farlo. Noi, a differenza del secolo VI, non possiamo aspirare a scrivere la loro storia solo alla nostra maniera… Ma, a differenza degli uomini del secolo VI, viviamo ancora nello stato di diritto, che non è un’espressione vuota, un flatus vocis, ma un intero sistema di regole generalmente condivise, non legate alle nazionalità o ai credi religiosi, e applicate all’interno di quell’astrazione politica fondata soltanto nel corso del medioevo che si chiama Stato, e che si sono costruite in un paio di millenni di tragedie e di sangue, e che potrebbero (dovrebbero) istituire delle griglie generali per convivere pacificamente: vale a dire, senza garantire di escludere i conflitti ma garantendo di saper individuare (e, se necessario, inventare) il metodo per risolverli. Potrebbero (dovrebbero) essere il terreno di incontro, per la forza che hanno in virtù del loro spessore storico: non sono nate dal nulla, sono state carne, lacrime e sangue di milioni di persone schiacciate, distrutte, annullate. Dovremmo ricordarcene più spesso, non soltanto quando si tratta di rinfacciarlo a chi questo sistema non può conoscere, ma soprattutto a quanti fra noi pensano di poter impunemente e irresponsabilmente abbatterlo dall’interno, nel nome (chissà) della contemporanea piramide carismatica… Il mondo dell’impero romano non era come il mondo in cui viviamo, e non è il caso di riprodurlo.

Bibliografia
Dato il carattere del tutto approssimativo, provvisorio e di riflessione a voce alta, per così dire, mi limito a segnalare in ordine alfabetico le opere cui faccio riferimento: in esse si troveranno tutti gli elementi utili per approfondire i problemi, e gli studiosi (es. Azzara, Wickham, Gasparri…) che sono intervenuti e che non ho nominato nel testo:

D. Abulafia, La scoperta dell’umanità. Incontri atlantici nell’età di Colombo, trad. italiana Bologna (il Mulino) 2010
A. Barbero, 9 agosto 378: il giorno dei barbari, Roma-Bari (Laterza) 2005
A. Barbero, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’impero romano, Roma-Bari (Laterza) 2006
K. Biddick, Bede’s Blush: Postcardsfrom Bali, Bombay and Palo Alto, in The Past and Future of Medieval Studies, Notre Dame, Ind.(University of Notre Dame) 1994, pp. 16-44
P.J. Geary, Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, trad. italiana Roma (Carocci) 2009
Ch. Johnson, Le lacrime dell’impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano, trad. italiana Milano (Garzanti) 2005
P. Heather, La caduta dell’impero romano. Una nuova storia, trad. italiana Milano (Garzanti) 2006
P. Heather, L’impero e i barbari. Le grandi migrazioni e la nascita dell’Europa, trad. italiana Milano (Garzanti) 2010
M. Hertsgaard, L’ombra dell’Aquila, trad. italiana Milano (Garzanti) 2003
W. Pohl, Le origini etniche dell’Europa. Barbari e Romani tra antichità e medioevo, Roma (Viella) 2000
B. Ward-Perkins, La caduta di Roma e la fine della civiltà, trad. italiana Roma-Bari (Laterza) 2008
La caduta di Roma: «fine della civiltà» o fine del tardoantico? Una discussione con Bryan Ward-Perkins, in “Storica”, 47 (2010), pp. 103-143

Glauco Maria Cantarella

Glauco Maria Cantarella (Recanati 1950) insegna Storia del pensiero politico medievale all’Università di Bologna. È autore di numerosi saggi, tra cui La costruzione della verità. Pasquale II, un papa alle strette (Roma 1987), La Sicilia e i Normanni (Bologna 1988), I monaci di Cluny (Torino 1993, 1997), Principi e corti. L’Europa del XII secolo (1997), oltre che di libri per ragazzi. Presso Garzanti ha pubblicato con grande successo di pubblico e di critica Una sera dell’anno Mille (2000). È curatore dell’Enciclopedia del Medioevo, MILANO, Garzanti Libri, 2007.

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