Nel cuore della Toscana una storia di terra e di cielo

Abbazia di San Fedele dalla piana di Campaldino (Poppi)

Nel cuore della Toscana una storia di terra e di cielo di Mariagrazia Orlandi

“Un percorso turistico, storico-culturale e di conoscenza di sé”

Premessa

In questo particolare momento del mondo in cui ci è dato di vivere, noto che sentimenti contrastanti si muovono in noi e attorno a noi. Dopo il lockdown, dopo la fase uno, la fase due, ora è arrivato un tempo che sembra, per certi versi, maggiormente disorientante: ancora siamo in emergenza, le cose di prima sono cambiate, le nuove ancora sono in gran parte sconosciute.
Che toni ha il tempo di adesso?
Mi guardo intorno e vedo l’autunno.
Il verde che si confonde col giallo nelle foglie, il loro cadere (l’eterna apoptosi) per lasciare il posto a qualcosa di altro, ma intanto si posano a terra. Una trasformazione dinamica che prende tutti i nostri sensi.
Forse proprio adesso ha ancora più utilità provare a percorrere le nostre strade insieme a personaggi come Torello, per attraversarle, continuare, per costruire speranza.
Il verde e il giallo danno il blu e, come è stato detto, in autunno il blu torna al cielo.
“Anche le particelle più elementari non sono che nodi di relazioni”. Si, lo so, può apparire insolito o la ricerca di qualcosa di alternativo; voglio parlare di santi, Medioevo e comincio con una frase di un fisico dei nostri giorni, Carlo Rovelli, e per di più, dichiaratamente ateo. In verità, ciascuno ha la propria prospettiva, e la mia, col tempo sempre più inclusiva – se il tempo non passa invano, come mi ricorda sempre un amico – legge congruenza e unità all’interno di un panorama complesso quale quello attuale, dentro e fuori ciascuno di noi. Ecco perché vorrei andare nei luoghi del beato Torello con un occhio che tenga conto di questa complessità, delle conoscenze che fino ad ora abbiamo acquisito, delle istanze più profonde di ognuno, di noi che ci confrontiamo quotidianamente con le nostre esistenze, per provare a sentire se c’è unità oltre il tempo e lo spazio e quanto davvero tutti siamo inevitabile relazione.
La storia degli uomini, tanto più di quelli che chiamiamo santi, è sempre impastata di cielo e di terra. Animali spirituali, destinati a fare i conti con gli infiniti universi che ospitano dentro di loro, a volte a loro insaputa. In noi convivono incredibili intrecci di relazioni, noi siamo fatti di terra e di cielo. Noi siamo polvere di stelle. Ed è realmente così. In noi si trova quello stesso carbonio delle stelle di centinaia di migliaia di anni fa, in noi si trovano altri DNA (non solo degli animali che mangiamo). Noi siamo fatti della materia degli altri, noi siamo già nel nostro corpo relazione che si dipana in tanti piani sottili, che capta e intreccia altre relazioni.
Per creature così ricche e complesse, persone che hanno camminato su questa terra scoprendo la magia della realtà – quel qualcosa che Tolstoy dice che è tanto speciale che non può neppure appartenere ai sogni, solo lo puoi vivere, ne puoi fare esperienza – queste persone posso essere come una guida da sfogliare durante un viaggio, un aiuto e un sostegno.
In questa occasione vorrei parlare di un santo-beato, forse non conosciuto dal grande pubblico, un San Francesco della terra di Toscana, che ha trascorso i suoi giorni fra l’Arno e il verde di una delle valli di questa regione. In alcuni documenti il beato viene indicato col titolo di santo, e come tale è venerato anche in altre località fuori di Toscana.
Ho immaginato questo incontro con Torello come un percorso che riprende le tappe della sua storia nella sua terra, per fare esperienza del suo travaglio, delle sue conquiste, della sua pace, con lo sfondo dell’ambiente che fu il suo fondale di scena. Faremo anche un viaggio nel tempo, alla scoperta del Medioevo del beato Torello e in questo itinerario non sarà sola, arriverà un amico per farci da guida nei luoghi del santo. Infatti, questo percorso può avere differenti piani di lettura, si propone anche come percorso turistico alla scoperta di un angolo “dei verdi colli” della Toscana, un andare in cui se vogliamo, si intrecciano esperienze storiche, spirituali, di vita vissuta.
Ma ora è tempo di cominciare il nostro viaggio insieme. Partiamo con un bagaglio fatto di poco e niente: uno zaino vuoto e, come gli antichi pellegrini, un bastone e una conchiglia.
Lo zaino vuoto perché vogliamo che sia il viaggio a nutrirci, a provvedere ad ogni nostra necessità: quello che troveremo e faremo nostro, sarà quanto porteremo con noi da questa esperienza.
Il bastone saranno le linee di conoscenza, di stimolo da cui ci lasceremo prendere ed interrogare durante la via; come un bastone ci apriranno la strada e ci saranno di sostegno.
Infine, la conchiglia, che poco o niente ha a che fare con l’entroterra dell’Appennino toscano, ma questa – che i pellegrini del tempo andato usavano per bere, strada facendo – ci ricorderà che la visione è sempre più vasta rispetto a quanto si vede, che oltre il cielo, oltre, si estende anche il mare, di cui una conchiglia sa restituirci il suono delle onde. E ci rammenterà che ogni viaggio, ogni esperienza – intensa, difficile, bella o straordinaria – è solo un passaggio, una tappa di un viaggio molto molto più grande che è quello della nostra vita. Ricordare questo è fondamentale. Non a caso verso la fine del libro di Giobbe si legge che il Signore benedisse di più il suo futuro che il suo passato: la cornice è sempre più ampia, più grande, quello che viviamo, come tutto, passerà e altro arriverà, tuttavia, come stare sulla via, questo attiene a noi; in sostanza, si tratta di scegliere (ogni momento, comunque, lo facciamo) e di farlo con responsabilità e consapevolezza.
1. Il Medioevo del Beato Torello
Torello venne alla luce nel 1202 a Poppi in una famiglia benestante. Durante una gioventù avventurosa, un giorno qualcosa lo tocca e si reca dall’abbazia vallombrosana di San Fedele, sempre in Poppi, convinto che lo sua strada era quella di monaco eremita.

Abbazia di San Fedele dalla piana di Campaldino (Poppi)

Torello aveva già individuato il luogo in cui recarsi, Avellaneto, zona che sale sul pendio della costa e si addentra nel verde dei boschi, quella parte di Toscana che Dante chiama le Alpi del Casentino, non lontano dal celebre monastero di Santa Trinita in Alpe a Strumi (fondato nel IX da monaci tedeschi). Qui Torello trascorse sessant’anni della sua esistenza, ma il suo romitaggio non fu esclusivo, con lui c’era il discepolo Pietro, e molte relazioni intrecciò in questo luogo solitario.
La vita di Torello, infatti, è vita di inevitabile relazione: con la natura, col lupo, con gli abitanti della valle, con se stesso, con Dio.

Torello visse la sua esistenza, dunque, nella valle del Casentino, una terra privilegiata, poiché il suo mondo, testimone di un vasto passato, di continuo offre scoperte e stimoli nuovi. Certamente un’epoca particolarmente feconda di storia e di vita per questa valle fu il Medioevo. Da tempo studi integrati hanno reso giustizia a quella che fu la vera realtà dell’epoca medievale. Storicizzare è sempre necessario, anche quando si tratta di storiografia o di critica. Superati così giudizi sommari, che ben poco talora hanno a che fare con l’oggetto della loro analisi, si è giunti, con criteri rigorosi e metodi scientifici, a tentare di ricostruire, attraverso documenti, la struttura e la peculiarità del momento medievale. Ciò è indispensabile poiché ogni periodo storico va letto alla luce del suo tempo. Inoltre, con Medioevo si intende un periodo vasto e diversificato, perché in costante divenire.
Certo allora, come del resto anche oggi, la vita non era per tutti la stessa cosa, la società gerarchizzata e nettamente divisa aveva una mobilità interna pressoché inesistente. Gli studiosi documentano che la vita era una lotta per la sopravvivenza, da tutto ci si doveva difendere: dalle guerre continue come dalle variazioni climatiche. Un’indagine puntuale del quotidiano dell’epoca, condotta da grandi maestri europei, ci racconta giornate di uomini che dovevano ingegnarsi costantemente per mantenere la loro sussistenza.
Ritengo si possa ben considerare la coscienza di un’epoca attraverso due massime espressioni sociali: i poeti e i santi. Nel Medioevo abbondano entrambi, forse non a caso. Attraverso sintesi letterarie e testimonianze esistenziali si conoscono tesori preziosi: ovvero i motivi per i quali furono spese tante esistenze.
Dopo aver approfondito questa analisi un elemento si è imposto ai miei occhi, mentre mi chiedevo se davvero può interessare a un uomo del XXI secolo la storia di una vita semplice, quale fu quella del beato Torello. Che senso può avere parlare di lui, di un uomo, almeno apparentemente, così lontano e diverso?
A questo punto ricordi di storie antiche sono affiorati alla mia mente. Personaggi come Torello, e la schiera è nutrita, suscitano in me una profonda ammirazione poiché essi riuscirono in un’impresa affatto scontata: essi seppero individuare ed intraprendere un cammino sicuro tra cielo e terra, conquistandosi un autentico equilibrio di vita. E tutto ciò da dove parte?
Dalla semplice constatazione di esserci, nel nostro corpo fisico.
Del resto, ogni percorso che si voglia intraprendere: filosofico, spirituale… tutto avviene con il nostro corpo, nel corpo, testimone e compagno, ma anche archivio, di ogni esistenza. Questa fisicità, che ha correlati neurobiologici oggi sempre più indagati, è centrale nella vita dei santi, nel loro stile di vita, nel loro modo di essere. Nei santi vediamo come il corpo fa da ponte per la trascendenza e la fraternità. Nel Medioevo questo appare in modo chiaro, cioè puro, semplice, evidente. Il corpo come teatro, anche della più sublime esperienza mistica. Analizzando questi aspetti, le neuroscienze ci mostrano correlati anatomici che sostanziano ciò che prima era solo su di un piano speculativo. Ma soprattutto ci indicano una strada, per i medievali forse quasi scontata, per creare unità in noi e mostrarci che lo spirito abita la materia, fino a scoprire in noi l’impronta di una matrice.
Ecco allora che uomini come Torello, sono d’interesse perché hanno saputo costruire quel saper vivere a cui anela ogni essere vivente e che lo porta ad essere in armonia con la realtà intorno e dentro di lui. Tutto questo non in un’esistenza fatta di giorni perfetti, ma dipanata con una coscienza che rende possibile stare in ciò che la vita ci porta.
Infatti, un passaggio fondamentale è per lui la scoperta della realtà, nella sua verità, essenza e insieme con ciò, la scoperta di esistere.
Come accadde? Come per tutti. Con un’esperienza forte, con un momento di grande confronto con la vita, che non necessariamente deve assumere toni eclatanti, solo incontrare quel qualcosa che sa parlare in profondità.
Non a caso accorgersi del mondo, accorgersi di esistere, avviene nel tempo con fasi e consapevolezze diverse, anzi, esiste un primo tempo in cui ci siamo, ma non ci rendiamo conto di essere. È il tempo dell’orizzontale esplorazione, quando ciò che appare, è ciò che esiste, così com’è ed altro e oltre non si presuppone. Il tempo del fenomeno senza cornice. Un tempo che, talora, può costare un prezzo alto da pagare. In parte è la storia di tutti. L’essere umano non nasce già capace di tutto: deve imparare a camminare, parlare… andare in bici… insomma ad esistere, che nel migliore dei casi significa: ad amare. Ma non per tutto è prevista una scuola. Ciascuno sarà maestro di se stesso e per imparare ad imparare, e poi a vivere, è inevitabile provare, sbagliare, riprovare, risbagliare… e tutto questo nella relazione con se stessi e con gli altri.
Questo avvenne anche a Torello che fino ad un certo tempo dei suoi giorni, inseguì la bellezza dal piacere immediato, che poi ne chiedeva altra, ma era quella fame che non si placa mai, di cui parla Dante, perché non viene mai nutrita veramente tanto da provare sazietà. Non solo oggi, il tutto e subito e senza sforzo è sempre piaciuto, o almeno è stata sempre una tentazione, una sirena difficile da non provare a seguire. Su questa via, arrivò ad una vita colma, affollata ma non soddisfacente e un giorno, davanti ad un semplice episodio – la leggenda parla di un gallo che canta o è spennato e riprende vita, poco importa (si sa l’agiografia fa il suo mestiere) – quello che conta è che Torello era pronto, forse era all’apice dell’insoddisfazione o della devastazione interiore, comunque sia quello fu il momento opportuno e quel fatto divenne per lui un’occasione per accorgersi. Infatti, non è poi molto importante ciò che accade, piuttosto quello che ciascuno è disposto a leggervi.
E che cosa scopre Torello?
Scopre la realtà e il tempo, e che questo non è eterno per l’uomo.
Scopre dentro di sé un altro Torello che piange e non sta bene in quella storia che sta vivendo. Si accorge degli altri in modo nuovo, e vede che ciò che fa, il suo proprio agire, non riguarda solo lui ma che ha esiti anche in chi gli è intorno, nel mondo di cui è parte. E poi vede il mondo: il lavoro dell’uomo, i ritmi della natura. A quel punto in lui affiora un sentimento nuovo, che credo in prima battuta si possa definire di gratitudine. Da quel momento le cose cambiano, non diventano facili, diventano nuove e vere, la fatica si chiamerà impegno e Torello sceglie la responsabilità di esistere e quindi il suo modo, il suo cammino, per rispondere alla vita.

Episodi della vita di Torello (Abbazia di San Fedele)

2. Un modo di stare al mondo

Si è parlato non a caso di “eterno Medioevo”, per indicare qualcosa di speciale che all’epoca accadeva: nella società medievale la sfera spirituale era profondamente compenetrata con quella pratica, in una sintesi tesa a generare armonia e non difficilmente “perfetta letizia”. Tutto ciò per noi, oggi, è frutto di impegnativa conquista.
Se ogni esperienza va scelta, ogni scelta va mantenuta con coraggio e coerenza. Ci si differenzia, inoltre, anche in base al grado di consapevolezza raggiunto nel sentire davvero la vita come un unicum. Poi esistono sempre le diverse personali modalità, di per sé non trascurabili e profondamente differenziali.
La ricerca di ordine fra sentire e sapere, fra anima e corpo, si respirava anche nel mondo filosofico: è il momento della Scolastica, delle vie di Tommaso d’Aquino.
Al mondo e all’uomo non si guardava, però, in modo univoco. Infatti c’era chi considerava l’umanità essenzialmente vergogna e peccato, in tale ottica il corpo umano non poteva che essere chiamato prigione dell’anima. Caso esemplare è Jacopone da Todi, che accoglie con ossessione la fragilità dell’uomo e ne presenta la morte in modo quasi macabro. Jacopone si avvale della lauda secondo un ben preciso genere letterario, che aveva l’intento di suscitare nel lettore/ascoltatore, una particolare situazione psicologica, il cui effetto sperato avrebbe dovuto essere il ravvedimento e la scelta di una vita sobria. Rimane che la sua preghiera fu un grido disperato che saliva da questa ‘valle di lacrime’: “Figlio, figlio a chi mi appiglio?!”.
La riflessione sul dolore in ambito medievale fu potente, pensiamo al culto della Madonna addolorata, alle rappresentazione di Cristo con strumenti di pena. Tutto ciò è rimando chiaro alla presenza della sofferenza nella vita dell’uomo; e da sempre, in tale esperienza, il confronto non è mai scontato. Quanto spesso anche noi, più o meno consapevolmente scegliamo la sofferenza come modalità di vita. Attraversare questo tipo di esperienza, viverla, riconoscerla e farla sacra è un percorso impegnativo poiché il rischio di perdervisi dentro, di isolarsi, di esserne in qualche modo sopraffatti è costante per tutti. In particolare, quello di dichiararsi vittime e di porre ogni responsabilità all’esterno di noi.
Francesco d’Assisi come Torello da Poppi presero in mano le loro vite e fecero la loro parte e seppero santificare la loro umanità vedendo in essa una simiglianza divina, entro la loro finitezza e fragilità di esseri umani. Dalla Genesi sappiamo che l’uomo fu creato a immagine e somiglianza del Padre, e in tutto l’universo si riverbera la bontà creatrice. Anche Dante poeta si accorse che “le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l’universo a Dio fa simigliante”. Nel mondo “squadernato”, nella natura circostante Torello riesce a trovare le orme per giungere a Dio.
Si tratta di un tema importante che va sotto il nome specifico di analogia entis, ovvero si rileva una corrispondenza esistente fra macrocosmo e microcosmo, fra l’universo e l’uomo, corrispondenza percepita e vissuta come legame armonico.
Questo il cammino di Torello che trova nella foresta di Avellaneto un luogo di ascesi ideale, come similmente fu per San Romualdo, per Giovanni Gualberto.

Nella povertà di Avellaneto Torello crea la sua casa, tutto lì sa parlagli di Dio e dell’amore di Dio. Ma perché il giovane Torello ventenne lascia tutto e sceglie Dio? Perché rifiuta la possibilità di entrare nella comunità di San Fedele, scelta che sarebbe stata ben vista dalla famiglia? Forse la giovinezza si spiega con la giovinezza. Forse il giovane Torello, sicuro dei propri pensieri, non volle per sé neppure quel po’ di agiatezza che probabilmente si può ipotizzare avessero conseguito i monaci di San Fedele. Proprio secondo quanto dice un salmo: “Come frecce in mano ad un eroe, sono i figli della giovinezza”. In ogni caso ebbe il coraggio di una scelta autentica, una scelta sua che seppe strutturare nel tempo.
3. Creare a sua immagine

Se l’uomo è fatto a immagine di Dio, l’uomo è creatore, crea la propria esistenza fra le variabili possibili e quelle che, attraverso gli altri, gli sono connesse. Cosa significa esattamente? Semplice e complesso: prendersi la propria responsabilità, essere attori protagonisti, stare nel fare come espressione dell’essere, costruire il coraggio nella paura. Questo hanno fatto i santi.
Padre Turoldo affermava che la gente vuole i santi per metterli nelle nicchie, ai quali rivolgersi per invocare qualunque tipo di protezione. Anche il culto del Beato Torello non fu immune da questo devozionalismo. Come si può tentare di spiegare questo fenomeno? Certamente ci sono stati particolari momenti storici che hanno permesso maggiormente il sorgere di tale pratiche, come particolari località chiuse al confronto o comunque piccole ed isolate. Evidentemente il contesto territoriale e storico-sociale è una variante di non poco conto, personalmente però ritengo che un altro elemento da tenere in primaria considerazione sia il fatto che la vita è un affare complicato per chiunque. Soprattutto in tempi di disperazione si può andare a cercare qualunque tipo di aiuto, vero o presunto. Ecco perché la ricerca di forme apotropaiche è valida e persiste in qualunque epoca. Ma il beato Torello ha una realtà vera molto più interessante: la storia di un uomo che ha accettato questa vita nelle sue luci e nelle sue ombre. Un santo che pertanto può porgere sostegno.

Torello, infatti, sa dare senso ai suoi giorni e trovare in essi quella parte di bellezza che sempre ci cura. La coerenza del mondo che scopriva attorno a sé, la dignità dell’uomo che conosce il valore delle sue scelte, restituiscono a questa figura la pace del contadino di cui parla una parabola del Vangelo, quella dell’uomo che sapendo di aver fatto la sua parte con impegno può andare serenamente a dormire sapendo che anche il sonno è un modo per dare tempo a Dio, a quella parte di mistero che si incontra nella vita, della quale ci possiamo solo accorgere e di conseguenza onorare. È pure una lezione preziosa, quella dell’attesa dopo aver seminato, è lasciare che non solo gli altri si muovano secondo i loro ritmi, ma lasciare anche che dentro di noi le cose fioriscano. In questa dimensione, la scelta di Torello di abitare ad Avellaneto non è rigida ma aperta al divenire degli eventi, a chi vuole avvicinarsi, per questo non si erge muri intorno: accoglie il discepolo Pietro, è aperto alle richieste di aiuto degli abitanti della valle, è in dialogo con la natura, con gli animali e fra questi, in particolare, il lupo.
4. I lupi del beato Torello

Il lupo nel Medioevo è animale e simbolo.
Ed è proprio in quest’epoca che si porta a compimento un’operazione antica: la revisione o purificazione di varie espressioni della civiltà pagana, operazione avviata in vista della fondazione di una nuova realtà culturale, quella che di necessità si era imposta col sorgere del Cristianesimo. Tutto, infatti, fu letto in chiave cristiana e in tale opera trovano il loro ruolo, un ruolo direi crescente, anche i santi e i simboli: al posto della dea che assisteva le partorienti si affollano i santi protettori, fra cui lo stesso beato Torello. Dunque percorsi interessanti risultano le evoluzioni di varie immagini codificate dalla Tarda-Antichità al Medioevo.
In particolar modo, in epoca medievale il rito, l’immagine implicano sempre altri significati, sotteso a tutto c’è sempre un rimando allegorico. Il simbolismo è davvero una parte imprescindibile del Medioevo, accorgersi di ciò e tentare di motivarlo è restituire tanta parte di verità ad una storia che altrimenti sarebbe perduta per sempre. Per chi legge oggi questo tempo è perciò indispensabile compiere tale analisi. Tuttavia, c’è da dire che l’uomo ha sempre bisogno di simboli e riti. Anche questi sono dati oggi scientificamente motivati.
Al tempo del beato Torello esisteva un equilibrio tra vita psichica, spirituale e quotidiana e in ciò fioriva un sincretismo che poteva essere in grado di spiegare le cause di una certezza, e certamente contribuiva ad alimentare la serenità degli uomini. In tale ottica va letta l’amicizia dei santi con gli animali; nel caso specifico il rapporto del beato Torello con il lupo.

Torello e il lupo

Spesso nel racconto dell’agiografo gli animali sono evocati per costruire la figura esemplare del santo. Il registro dei simboli non è poi così vasto, in particolare per quelli con valenza positiva.
Ma qual è la funzione di questi simboli?
Nella Vita Antonii viene data una rudimentale spiegazione teologica per cui gli animali, dopo gli angeli e gli uomini, sono stati l’ultima creazione fra gli esseri viventi. Inoltre, molteplici erano le forme animali che il demonio poteva assumere, così venivano simboleggiati i vizi. Qui il rimando d’obbligo è ai numerosi ‘bestiari’ medievali.
Vorrei rammentare, rimanendo vicino al nostro esempio, il simbolo della lupa, carca di tutte brame, simbolo di cupidigia. Questo della lupa è un tema precristiano, ma anche vox media nell’Alto Medioevo: vedi la lupa che allatta i gemellini nel dittico di Rambona del 900 circa. Con ciò vediamo che la potenzialità di un simbolo si può dilatare in maniere differenti e talora opposte.
L’agiografia pone in evidenza come il santo possa avere un rapporto privilegiato con gli animali, anzi un vero e proprio potere su di essi. C’è chi ha sostenuto che con questa visione antropocentrica della natura, affiori l’idea che all’interno di un simile ordine riviva la “mitica armonia del paradiso terrestre”. Il beato Torello, secondo la leggenda, aveva molta dimestichezza con questi animali, anche con quelli più pericolosi, per i quali le persone cercavano il suo aiuto, come la madre disperata, per riavere il suo bambino che il lupo si era portato via. Quindi, il lupo è l’animale aggressivo che prende con violenza, che toglie, che porta via, presso il quale intervenire per riportare serenità e giustizia. Per Torello, tuttavia, è anche “fratello lupo”, come ci narra l’episodio secondo cui avendo avuto da persone, a lui riconoscenti, della carne, l’accetta pur sapendo che in quel periodo non l’avrebbe mangiata, sapendo però che poteva donarla al lupo che veniva a trovarlo. Questo gesto mi pare molto descrittivo dell’alterità: rispetto della diversità, condivisione, nessuna paura e soprattutto totale accettazione.
A mio avviso, con l’immagine del lupo Torello esterna le tante parti di ciascuno, i tanti lupi che abbiamo dentro e che è necessario saper affrontare e… nutrire. Non solo la bestia feroce, arrabbiata, sola. La stessa bestia è anche affamata, impaurita a sua volta, bisognosa di cure, di essere rassicurata. Stare insieme ai nostri mostri, alle nostre ombre, per sentirle, attraversarle e trasformare l’energia della rabbia, dell’aggressività in energia capace di costruire, di relazionarsi: questo è il processo, questo è stare in viaggio. Su questo riflettevo pensando ai tanti lupi che Torello ha incontrato, affrontato – ci sono episodi in cui Torello patteggia con i lupi a vantaggio degli abitanti del luogo – e con cui alla fine ha stabilito un rapporto amichevole, di scambio, quindi di relazione: entrambi costruiscono una nuova realtà, un altro modo di pensarsi e di stare insieme, costruiscono reciprocità. Se già in me ritrovo l’archetipo dei lupi, da addomesticare creando legami, come dice il Piccolo Principe, allora i lupi degli altri mi sorprendono poco.
Si vive nella relazione, ci si nutre di relazione, si apprende con la relazione, si costruisce e ricostruisce la propria identità nella relazione, si giunge alla trascendenza grazie alla relazione. Questo consegna anche ad ogni uomo la responsabilità del proprio agire che avrà effetti per cerchi concentrici, poiché noi siamo fatti di “comunità crescenti”.
Anche per il beato Torello la relazione è la via. Torello che sta nell’eremo di Avellaneto è un uomo in pace perché aveva un’identità tale da poter dialogare con tutte le sue relazioni, dentro e fuori di lui, un’identità marcata e accogliente. Ma la differenza l’ha fatta quando ha accolto anche quello che non avrebbe voluto: il dubbio, la paura, la fame, la solitudine… i suoi lupi, e ha saputo stare in questi momenti.
Credo che mantenere capacità di vita in situazioni di profondo dolore, sia l’opera umana più grande. A questa opera non può essere estraneo Dio, quel Dio incarnato sui cui passi si disegna la storia di Torello, il Dio incarnato che ci tocca, appagando così un bisogno fondamentale dell’uomo, che si collega con i nostri inizi. Quando siamo arrivati su questa terra, qualcuno ci ha toccato, si è preso cura di noi. Il tocco rimane per tutta la vita qualcosa di essenziale, qualcosa che cura e che ci fa sentire riconosciuti. E il tocco di Dio è il tocco di chi ti accoglie e ti dice: “Ti ho voluto, ti ho pensato, vai bene come sei”.
Per concludere, incontriamo un caro amico, Ildebrando Caiazzo, che ci porta nell’abbazia di San Fedele dove il beato Torello volle essere sepolto e dove ancora oggi riposa. Entriamo in questo ambiente suggestivo e respiriamo questa storia attraversando la navata; fermiamoci appoggiandoci agli stimoli che questa vicenda umana, seppur lontana nel tempo, ci porge come ad un bastone, mentre i nostri occhi si posano in uno spazio arcano che svetta verso l’alto. E mentre scendiamo piano alla cripta del beato, scendiamo nelle nostre profondità, nelle nostre ombre, tenendo fra le mani una conchiglia come bussola di sicura speranza per continuare per andare oltre e per ricordare l’intero della nostra storia. Così, seguendo Brando, arriveremo al punto di luce nella cripta, vedremo allora che il nostro zaino non è più vuoto e, soprattutto, sentiremo che il nostro viaggio continua… altrove.

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