di Enzo Sardellaro.
La storiografia protonovecentesca, studiando il Regnum da un’ottica essenzialmente giuridica, finì per esagerare il valore “unificante” delle leggi promulgate dalla monarchia normanno-sveva, credendo, alla fine, di poter considerare il Regnum come un qualcosa di unitario, forgiato dalla volontà assolutistica dei Normanni prima e di Federico II poi. Su questa linea possiamo mettere senz’altro lo studio imponente per mole di fonti del Kantorovicz [1], che parlò con accenti trionfalistici degli sforzi, a suo avviso riusciti, di Federico II contro la feudalità laica ed ecclesiastica e del nascere della prima monarchia assoluta europea. Non si discosta da questa visione delle cose Gabriele Pepe [2], il quale parla senza mezzi termini del Regnum come di uno “Stato moderno”. Da menzionare anche la posizione di Antonio Marongiu [3], per il quale il Regnum di Federico II era addirittura uno “Stato modello”, che, al contrario degli altri stati dell’Occidente europeo, traeva la propria forza dal fatto che viveva «non di contributi volontari, ma di imposte generali», riscosse da tutta una serie di funzionari regi.
Tale storiografia, trascurando però il significato di concetti come quello di “allodio” e di “signoria fondiaria”, ha alla fine contribuito a creare quel “mito” della monarchia normanno-sveva di cui parlava diversi anni fa M. Del Treppo, nel tirare le somme sui contributi della nostra storiografia sul Mezzogiorno medievale.
«… In forza di quel mito – scriveva M. Del Treppo – la storia del Mezzogiorno è stata concepita, e continua ancora ad esserlo in termini di unità, politico-amministrativa, sociale, culturale, geografica, onde l’evento che ruppe (apparentemente) quella unità – il Vespro siciliano – è stato drammaticamente enfatizzato come la causa prima dei suoi mali» [4].
L’idea di Stato Assoluto propugnato dalla storiografia economico-giuridica ha in effetti debole consistenza storica, in quanto, anche se Federico II operò per neutralizzare la feudalità, come del resto dimostrano le Costituzioni di Melfi [5], resta però il fatto che la presenza di una feudalità allodiera, debole o forte che fosse, rompeva l’unità dello Stato e ne limitava il raggio d’azione sul territorio, frenando l’attività dei pubblici funzionari nelle terre di cui essa godeva la proprietà effettiva. Ciò significa che per la particolare concezione del potere regio presso i Carolingi e poi gli Svevi , la feudalità poteva godere all’interno dei propri allodi, ovvero delle terre effettivamente di proprietà e non avute in beneficio, di una sostanziale e riconosciuta autonomia nei confronti dello Stato: e ciò contrasta con il concetto stesso di stato assoluto. Si è posto volutamente l’accento sul concetto di “allodio”, anziché su quello ambiguo di feudo, perché il sistema feudale non sarebbe in effetti in contrasto con l’idea di stato unitario e assoluto. Infatti Giovanni Tabacco ebbe a scrivere che gli istituti vassallatico-beneficiari“ non esprimono automaticamente l’autonomia di un potere signorile, che trova invece la sua garanzia nel diritto di proprietà” [6]. Era infatti all’interno delle terre allodiali, quindi acquistate e non avute in beneficio, che nasceva il germe delle future autonomie signorili contro le ingerenze dello Stato. Va da sé che tutti i feudatari del Regnum, laici ed ecclesiastici, oltre che essere titolari di un “beneficium”, erano anche possidenti in proprio: di qui nasceva il loro potere che, in tali possedimenti, era totale. E’ evidente che, alla luce di simili considerazioni, le ricerche condotte al fine di dimostrare la presenza pressoché nulla, in Sicilia, della feudalità al tempo di Federico II, e la quasi totale demanialità del territorio siciliano, non infirmano minimamente il fatto che l’allodio costituisse una spina nel fianco per qualsivolglia tensione regia verso l’assolutismo [7]. Era sufficiente infatti anche una non estesa allodialità per interrompere le funzioni e le mire assolutistiche dello Stato. Del resto, anche la supposta scarsità della feudalità siciliana è stata messa in dubbio dal Peri, il quale ha registrato invece svariate decine di feudi nel territorio siciliano [8]. Quanto poi al supposto controllo esercitato da Federico II nei confronti di Chiese, monasteri e vescovadi, è vero che di fatto l’imperatore tentò con ogni mezzo di controllare le sedi vescovili, anche in virtù di quella “legazia apostolica”, già privilegio dei re normanni, in forza della quale si concedeva al sovrano di poter agire con pieni poteri in materia ecclesiastica; però Federico II dovette fare i conti con istituzioni ecclesiastiche non facilmente addomesticabili, che godevano, oltre che di un indubbio prestigio, di diritti sanciti e tradizionalmente riconosciuti dalla monarchia. Anche se Federico II fosse riuscito a imporre creature sue nelle sedi vescovili, difficilmente avrebbe potuto sottomettere completamente i vescovi al suo volere [9]. L’atteggiamento accentratore del sovrano riuscì solo a scalfire il potere dei vescovi. E le stesse Costituzioni di Melfi raccomandavano che le decime fossero regolarmente devolute alla Chiesa. A tutto ciò si deve aggiungere che, proprio in quegli anni, la Curia romana stava producendo il suo massimo sforzo per legare a sé le sedi vescovili, bloccando con ogni mezzo qualsiasi tentativo regio di controllare la vita ecclesiastica. Anche gli enormi patrimoni dei monasteri cattolici e basiliani dell’isola furono, anche seriamente, intaccati nei loro possedimenti, ma mai privati dei loro allodi. Se, per esempio, il monastero di San Vincenzo al Volturno subì gravi perdite già sotto i Normanni, per cui gran parte delle terre finì in mano di laici, ancora nel 1273 il monastero di Montecassino inviava suoi funzionari a controllare i beni dei suoi sparsi castelli [10].
In conclusione, si può affermare che la monarchia normanno-sveva fu sì “tendenzialmente” più “burocratica” e assolutistica di quella carolingia (Tabacco), tuttavia anch’essa ebbe un carattere tipicamente medievale. Essa fu, in definitiva, una monarchia fondata sulla nobiltà feudale, della quale non tentò mai di mettere in dubbio determinate funzioni e alcuni consolidati privilegi. Né vi furono mai seri contrasti tra la grande feudalità e i funzionari del sovrano svevo, e se egli ebbe temporaneamente la meglio fu solo perché seppe approfittare della congenita anarchia baronale isolana.
Note
[1]E. Kantorovicz, Federico II di Svevia, Milano, Garzanti, 1939, vol. I, p. 90. Per dimostrare l’asprezza delle reazioni di Federico II contro la nobiltà riottosa, Kantorovicz riporta il seguente episodio: “… Nella primavera del 1221 era cominciata la spedizione contro il conte di Molise, trincerato nei suoi castelli quasi inespugnabili di Boiano e Roccamandolfi. Bolano fu conquistata, Roccamandolfi dovette cedere, ma il conte di Molise si rifugiò nel castello di Ovindoli, ancora meglio difeso. La campagna che durava ormai da due anni fu conclusa da un trattato: Ovindoli fu consegnata alle truppe imperiali, il conte di Molise fu esiliato…”.
[2] G. Pepe, Lo stato ghibellino di Federico II, in Carlo Magno-Federico II, Firenze, Sansoni, 1978.
[3] A. Marongiu, Uno ‘Stato Modello’ nel Medioevo italiano: il regno normanno-svevo di Sicilia, in Critica Storica, 1963.
[4] M. Del Treppo, Medioevo e Mezzogiorno: appunti per un bilancio storiografico, proposte per una interpretazione, in Forme di Potere e struttura sociale in Italia nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 249 sgg.
[5] Con tali costituzioni, Federico mostrava una volontà ferrea di controllare ogni aspetto della vita sociale, politica, economica ed ecclesiastica del Regnum: egli, quale rappresentante di Dio in terra, tale che ogni attentato alla sua persona era assimilato all’eresia, avocava a sé il diritto di esercitare la giustizia nonché di nomina dei funzionari imperiali, ed eera dovere di ogni suddito obbedire senza discussione ai suoi “baiuli”.
[6] Sulla concezione del potere regio presso i Carolingi e gli Svevi e i loro rapporti cfr. G. Tabacco, Egemonie sociali e strutture di potere nel Medioevo italiano, Torino, Einaudi, 1979, p. 186 e 210 : “…Proprio l’applicazione del concetto di allodio a un potere … rompeva… ogni sistema di poteri compatto, diventando strumento di contestazione contro interventi di vescovi e ufficiali regi…”.
[7] Sulla “demanialità” del territorio siciliano sotto Federico II, cfr. Gina Fasoli, La feudalità siciliana nell’età di Federico II, in Rivista di storia del diritto italiano, 1951, p. 53: Già il conte Ruggero, nota la Fasoli, “… riservò la maggior parte dell’isola al demanio, concesse feudi di qualche importanza soltanto a membri della sua famiglia e fu pronto a revocarli non appena se ne presentò l’occasione senza più riconderli e dette così un esempio che i suoi successori normanni e svevi non dimenticarono…”. Sulla scarsa consistenza dei feudi in Sicilia cfr. anche A. Mazzarese Fardella, I feudi comitali di Sicilia dai Normanni agli Aragonesi, Milano, Giuffré, 1974, p. 20: “… La consistenza sia numerica sia giuridica della classe feudale (siciliana) – era – di scarso rilievo…”.
[8] I. Peri, Signorie feudali della Sicilia normanna, in Archivio storico italiano, 1953, pp. 166-204.
[9] Cfr. E. Kantorovicz, cit., p. 233: “Federico II – tenta – di mettere i suoi notari nelle sedi vescovili vacanti… Dopo la seconda scomunica questi rinunziò a ogni riguardo e, per ogni sede vacante, nominò egli stesso i vescovu siciliani, quando non preferiva addirittura lasciare vacante la sede…”.
[10] Sul monastero di san Vincenzo al Volturno cfr. M. Del Treppo, Frazionamento dell’unità curtense, incastellamento e formazioni signorili sui beni dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno, in Forme di potere…, cit., pp. 285-304. Sulla consistenza dei possedimenti del monachesimo brasiliano in Sicilia, cfr. S. Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne, Napoli, Istituto Italiano per gli studi storici, 1963, pp. 105 sgg.: “ …Un punto che ha suscitato parecchie discussioni è stato se i monasteri bizantini d’Italia avessero avuto o meno il diritto di possedere delle terre…In linea di diritto… i monasteri greci d’Italia ebbero sempre la possibilità di possedere terre, e infatti i documenti dimostrano che questo diritto venne effettivamente e continuamente esercitato…Questo però, non ci deve far ritenere che i possessi fondiari dei monasteri italo-bizantini fossero particolarmente estesi…”. C’erano però alcune eccezioni alla regola. In questo senso cfr. A. Guillou, Il monachesimo greco in Italia meridionale e in Sicilia nel Medioevo, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII, in Atti della seconda settimana internazionale di studio Mendola, 1962, p. 365, 367-368: “… Al tempo dell’avvento dei Normanni, San Anastasios di Carbone ( in Sicilia) è un monastero prospero… Fin dalla fine dell’XI secolo esso ha riunito sotto il suo controllo tutti i piccoli monasteri greci della regione, e, più tardi, tutti quelli compresi all’interno di una linea che unisce Salerno, Eboli, Conza, Melfi, fino a Bradano, seguendo la costa poi fino a Pellicoro e Cerchiara… costeggiando la valle del Lao… L’Archimandrita del San Salvatore di Messina è… uno dei maggiori fondatori siciliani: i suoi beni demaniali sono esenti da oneri feudali, i suoi beni allodiali ( donazioni, beni personali dei monaci, beni comprati a prezzi derisori) sono considerevoli; essi non possono che accrescersi, dato che la proprietà monastica è inalienabile”.
Professor of Italian letters and history in higher institutes.