
Peruzzi: una (s)conosciuta potente dinastia di Gianluca Lorenzetti
Non saprei dire quanti, estranei al settore storico, abbiano mai sentito parlare della famiglia fiorentina dei Peruzzi, soprattutto perché, solitamente, qualora pensassimo ad una casata di questo genere, la prima immagine che prenderebbe forma nella nostra mente sarebbero quasi certamente le sei palle medicee su fondo giallo. La fortuna di Firenze, però, antecedentemente abitava i palazzi di questa dinastia e dei colleghi concittadini Acciaiuoli, Frescobaldi, Bardi, ecc…
La genesi dei Peruzzi si colloca alla seconda parte dell’XI secolo – o almeno la presenza a Firenze dell’antenato eponimo, Peruzzo – e quella del legame fra la Casata ed il denaro potremmo porla al XII, negli anni Trenta, con Giovannino di Peruzzo, cambiatore citato in due testimonianze nelle vesti di agente e procuratore per le residenti del monastero femminile di Santa Felicita. Un ruolo di primo piano, però, lo cominciarono ad avere dal secolo successivo coi figli di Amideo di Peruzzo, Filippo ed Arnoldo, capostipiti di altrettanti rami familiari: il primo estintosi nel XVII secolo ed il secondo ancora verdeggiante nel XX. Congiunti nel sangue, ma non nelle idee politiche, Filippo si schierò al fianco dei ghibellini, mentre Arnoldo fu ferreo nell’appoggiare i guelfi; una lotta che trovò quiete nel passaggio di Filippo alla parte avversa.
Questa è solo un’estrema sinossi della presenza politica ed il potere finanziario raggiunto dalla Famiglia. Frequente nel governo fiorentino nelle cariche di priori (es. il citato Filippo di Amideo di Peruzzo (1284)), ufficiali preposti alla direzione delle arti ed al governo di città e castelli soggetti, gonfalonieri di giustizia (es. Ranieri di Luigi (1394) e Niccolò di Rinieri (1403)), funzionari negli uffici civili e militari, ecc…, la politica si legò loro anche a causa della zona scelta da residenza, il sestiere di San Pier Scheraggio (Plebani(1); quartiere di Santa Croce nel popolo di San Piero Scheraggio, Sapori(2)), dove la chiesa da cui prendeva nome il sestiere dava ospitalità al Consiglio dei Cento ed al Consiglio del capitano del Popolo e veniva considerata alternativa al Palazzo del podestà, ciò collocava i Peruzzi nel centro fisico della scena amministrativa fiorentina.
Inoltre, le loro sontuose abitazioni ospitarono figure di rilievo quali Renato d’Angiò (1310), capo dello schieramento guelfo e protettore della Città gigliata, e Giovanni VIII (1425-1448) (1430), basileùs dell’Impero romano d’Oriente giunto in Italia per assistere al concilio ecumenico risanatore con la Chiesa occidentale (3).

Case e palazzi furono costruiti grazie ai denari fruttati dall’attività finanziaria di mercanti e prestatori esercitata tramite la propria compagnia, caratterizzata dall’essere una societas maris (o contratto di compagnia), ovvero una società stipulata per un determinato periodo – al termine del quale essa si scioglieva, rinascendo, magari, con altri – per molteplici operazioni commerciali e composta da vari soci, i quali contribuivano con quote alla formazione di un capitale sociale, di cui la famiglia che ne deteneva per intero o la maggioranza dava il nome alla compagnia. Ben presto società di questo genere cominciarono ad avvalersi perfino delle somme depositate da privati risparmiatori in cambio di una partecipazione agli utili o di un interesse fisso; questo fenomeno raggiunse dimensioni tali che a Firenze il fallimento di Peruzzi e Bardi fu vissuto come un dramma cittadino. L’esistenza della Compagnia dei Peruzzi viene datata da un documento di fine Duecento ed inizialmente pare che fosse circoscritta a soci storici e componenti della Casata, con miseri nuovi innesti fino agli anni Trenta del Trecento, quando la Dinastia perse predominio e controllo societario (1331).
Prima degli anni Quaranta trecenteschi i Peruzzi dominavano il mondo mercantile, con un maggiore interesse riservato all’internazionale, ma pur sempre presenti nelle locali arte della seta (es. Mazzetto Peruzzi nel 1225), della lana e di Calimala (entrambe a partire dal principio del Trecento), di cui, di quest’ultima, furono costantemente consoli nella prima parte ed alla fine del Secolo. Riuscirono ad impiantare la loro presenza in Italia (es. Barletta, Genova, Napoli, Pisa e Venezia); nelle isole mediterranee di Rodi, dove i cavalieri di Gerusalemme coglievano l’occasione per attingere alle loro fonti monetarie, Cipro, Maiorca, Sardegna (Castello di Castro, sito di una sede minore) e Sicilia; in Spagna, cacciati (assieme ad altri fiorentini) nel 1325 e (definitivamente) nel 1332; in Nord Africa (Tunisi); fra i cavalieri di San Giovanni in qualità di creditori dell’Ordine; nelle Fiandre, a Bruges, nella quale si trovava la grande filiale fiamminga, era attiva (dal 1331 al 1343) una succursale della loro banca, commerciavano probabilmente lana inglese ed acquistavano panni fiamminghi da inviare a Firenze, inoltre, sotto i conti di Fiandra Donato Peruzzi, figlio di Pacino, fu nominato (assieme ad altri conterranei) «Recevitore di Fiandra» fino al 1328 e, a seguito della pace di Athis-sur-Orge (1305), la Famiglia venne incaricata di riscuotere le rendite e l’enorme indennità fiamminghe previste dal trattato; nella Casa d’Angiò come appaltatori della zecca partenopea (1303) e, in maniera monopolistica, fornitori di oggetti quotidiani per la corte ed esportatori di cereali (1308); fra i papi avignonesi, dove rientravano nell’affollata piazza di compagnie che il papato, sfruttando la presenza di loro succursali in numerosi luoghi, usava per trasportare i capitali raccolti dai messi pontifici, con le compagnie a loro volta compensate dal favore delle autorità ecclesiastiche e del clero in generale, l’aiuto di sanzioni spirituali contro debitori insolventi ed una clientela di alti prelati e monasteri, siti – a volte – di produzione laniera; (5) ed in Francia, terra sulla quale li si ha già a metà del XIII secolo, sorgeva una delle grandi succursali (a Parigi), rivestivano anche il ruolo di esattori delle tasse assieme ai colleghi e concittadini Mozzi e, per volere di Filippo IV il Bello (1285-1314), avevano l’appalto della zecca ed erano stati nominati banchieri della Corona al posto dei fratelli Albizzo e Ciampolo Guidi de’ Franzesi.

Un Regno in particolare, però, merita maggiore considerazione, poiché lasciò una cicatrice ben evidente nella Compagnia e nella Famiglia: l’Inghilterra, casa, a Londra, di una grande filiale (6).
Il germe delle relazioni viene solitamente collocato in età plantageneta, ma su quale sia il momento esatto non è chiaro ed esistono tre teorie al riguardo: una pone l’inizio dei commerci con Inghilterra, Francia e Fiandre al 1280; un’altra a non prima del 1300, in quanto si hanno una lettera patente del 22 novembre 1306 (primo ricordo legato all’Isola) in cui si parla di un trasporto congiunto coi Bardi di 126 sacchi di lana verso le Fiandre su di una nave noleggiata ad Hull, affondata in seguito presso Styvekey senza perdita di uomini o merci, ed una riguardante un permesso regio del 1300 indirizzato ai Toscani che avevano fatto inflazione ad un’ordinanza reale sul divieto di cambio, esportazione ed importazione di moneta, ma in essa non si fa alcun accenno ai Peruzzi; ed infine l’ultima teoria sostiene siano avvenute negli anni di Edoardo II (1307-1327). Almeno sulle responsabilità della fine non si discute: intenzionato a rivendicare il trono francese e scalzare il rivale Filippo VI di Valois (1328-1350), Edoardo III (1327-1377) cercò l’aiuto finanziario delle compagnie di Peruzzi e Bardi, banchieri della Corona dal 1318, i quali si convinsero – obbligati, perché il rimanere neutrali li avrebbe colpiti su entrambi i fronti – a rinunciare ai guadagni francesi per scommettere sul Plantageneto, visto che i capitali più forti si trovavano nel regno di quest’ultimo e dai suoi domini isolani prelevavano la lana, alimentazione essenziale per l’arte di Calimala a Firenze. Coi Peruzzi Edoardo aveva già, nel febbraio 1337, un debito di 11.732 sterline a causa del confronto bellico con la Scozia, una cifra destinata a lievitare, triplicata nel giro di pochi mesi (in settembre toccava le 35.000). La speranza di poter incassare enormi guadagni e la possibilità datagli da Edoardo di esportare lana in grandi quantità, nonché la fiducia nel pagamento dei debiti e la protezione da parte del Monarca dai creditori, furono le ragioni della loro tenacia, ma il 6 marzo 1339 il Sovrano emanò un provvedimento col quale ordinava di sospendere ogni rimborso ai creditori del Regno. Quattro anni più tardi, perdute ormai le possibilità in Francia ed i denari del pontefice, timoroso che le somme a lui destinate finissero per finanziare gli scontri anglo- francesi – come capitò di fatto ai capitali dei privati –, accattivatisi i rapporti con gli Angiò, i traffici ostacolati dalla guerra e la difficoltà a piazzare merce raffinata, Peruzzi e Bardi dichiararono bancarotta.
Quanto avvenne con Edoardo III fu solo uno dei motivi che portarono alla caduta. In campo interno, dal 1326 la Repubblica fiorentina avanzava il desiderio di sottomettere Lucca, strategicamente importante per controllare i traffici appenninici, e ciò la portò allo scontro con uno dei signori più potenti della penisola, il veronese Mastino II Della Scala (1329-1351), padrone della Città dal ‘35. Egli provò a passare per il tavolo diplomatico, ma Firenze preferì le armi (principio 1336) e per affrontarlo vennero scelte sei persone – fra cui Simone Peruzzi – che si occupassero della gestione. Gli schieramenti si confrontarono fino alla ratifica della pace (24 gennaio 1339), con Firenze che, oltre a non aver ottenuto

il sito ambito, dovette affrontare spese pari a 600.000 fiorini d’oro e debiti con Venezia (tra i 25.000 ed i 36.000 fiorini) ed i suoi cittadini (450.000 fiorini e più). Successivamente, l’incapacità di controllare un grande dominio spinse Mastino a rinunciare a Lucca, offrendola sia alla Città gigliata che a Pisa, questo convinse Firenze a riprendere le armi per evitare l’espansionismo rivale. A questo fine, nel luglio 1341, venti cittadini – comprendenti Pacino di Tommaso Peruzzi – entrarono a far parte di una magistratura straordinaria delegata alla politica estera, all’elezione dei diplomatici ed ai rapporti con le comunità soggette. Nonostante il loro impegno a far pervenire 250.000 fiorini d’oro a Mastino e nel reclutare mercenari, Firenze, con il trattato del 16 novembre 1343, lasciò Lucca ai pisani.
Colpiti nel profondo dalle vicende extra italiche e dagli scontri per Lucca, a cui si aggiunsero un’insurrezione politica (fallita) a Firenze ed una pestilenza nel ’40 e la carestia del ’41, i Peruzzi si stavano ormai accingendo al crepuscolo, ma un’ultima speranza arrivò in soccorso delle Compagnie in difficoltà: il duca d’Atene Gualtiero di Brienne, invitato dai fiorentini residenti ad Avignone a prendere il comando nella guerra per Lucca ed in seguito, approfittando del disagio cittadino, nominato signore a vita l’8 settembre 1342, ma il suo dominio non durò così a lungo. Mostrata una politica egoistica, che fortunatamente in alcune circostanze corrispose ai desideri fiorentini, si accese un’insurrezione (26 luglio 1343), tra le famiglie partecipanti, però, non erano presenti i Peruzzi, ancora pronti a scendere in piazza al grido «Viva il Duca e Signore!». Alla fine, valutata la situazione, cambiarono fazione in tempo per assistere alla sconfitta e cacciata del Brienne (3 agosto). Perché non abbandonarono subito Gualtiero? Essi, allo stesso modo degli Antella ed Acciaiuoli – che agirono come i Peruzzi –, fallirono poco dopo l’addio del Duca, ciò significa che le loro condizioni erano talmente disperate al momento della rivolta che, consapevoli di non poter sopravvivere sotto un nuovo regime, preferirono appoggiare Gualtiero e la speranza che, in caso di sua permanenza, la moratoria contro i creditori emanata il 26 ottobre 1342, loro ancora di salvezza, sarebbe rimasta in vigore.
Abbattuta la signoria del Duca, il governo venne affidato con piena balìa fino al termine di settembre e presieduti dal vescovo Acciaiuoli a quattordici cittadini e nella Commissione composta da Magnati e Popolani figurava ancora una volta un Peruzzi, Simone. Come anticipato, però, il loro tempo era finito e nel 1343, attaccati da rappresaglie a Genova e con il gran maestro dell’Ordine gerosolimitano che insisteva, appoggiato dal papa, perché Firenze li costringesse all’intero adempimento degli obblighi, i Peruzzi dichiararono bancarotta. Molte proprietà immobiliari furono vendute per sanare i conti, ma non tutte, salvate da un accordo con i liquidatori sull’emissione di buoni del valore pari all’80% dei debiti, i quali sarebbero stati rimborsati una volta che i monarchi inglese e napoletano avessero versato quanto dovuto; si rivelò un cattivo investimento per coloro che ebbero fiducia in questa alternativa, poiché quei denari regi non arrivarono mai.
Il mantenimento di una componente delle proprietà permise alla Famiglia di non ricominciare da zero. Le nuove generazioni (rami minori compresi) riuscirono a portare avanti la tradizione peruzziana mercantile, coi fratelli Berto e Ridolfo di Bonifacio immatricolati all’arte di Calimala e soci di una nuova Compagnia dedita al commercio delle stoffe, e politica, che li vide sostenitori del partito Albizzi contro quello Medici, i quali, divenuti nuovi padroni di Firenze nel 1434, riuscirono a condannare quasi tutti i Peruzzi all’interdizione dagli uffici pubblici della Repubblica ed all’esilio, rinnovato per altri 25 anni nel 1458; tra chi partì vi fu il seme del futuro ramo francese, i «Perussis», estintosi nel 1907. La riappacificazione con i Medici dovrà attendere il 1783, quando Bindo Simone Peruzzi sposò Anna Maria Luigia di Averardo di Pietro Paolo de’ Medici, da cui nacque una sezione unificata delle due famiglie con nomi ed araldi fusi insieme.
Al principio dell’età moderna la Casata trovò nuovo lustro nel figlio di un tessitore volterrano trasferitosi a Siena, Baldassarre (7 marzo 1481 – 6 gennaio 1536), artista non del cambio, ma del pennello, calcolatore non di denari, ma di dimensioni, prestatore delle proprie abilità a privati e vicari terreni di Cristo come i suoi antenati. Fu talmente abile e stimato, che Giorgio Vasari lo inserì ne Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri (7) (1550), capitolo «Baldassarre Perucci Sanese, pittore et architetto», ed il suo corpo venne riposto all’interno del Pantheon romano.
BIBLIOGRAFIA
Fonti primarie
– G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, L. Bellosi, A. Rossi, G. Previtali (a cura di), Einaudi, Torino, 1991, vol. II, pp. 684-689
Letture secondarie
– L. Galoppini, Mercanti toscani e Bruges nel Tardo Medioevo, Plus-Pisa University Press, Pisa, 2009, pp. 19-22, 24-25, 27-28, 76, 85-86, 88-93.
– P. Paschini, Ferrara-Firenze, Concilio di, in Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Treccani, 1932, http://www.treccani.it/enciclopedia/concilio-di-ferrara-firenze_(Enciclopedia-Italiana)/ (consultato il 15/07/2019)
– A. Pernice, Giovanni VIII Paleologo, imperatore d’Oriente, in Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Treccani, 1933, www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-viii-paleologo- imperatore-d-oriente_%28Enciclopedia-Italiana%29/ (consultato il 29/10/2019)
– E. Plebani, Peruzzi, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 82, Enciclopedia Treccani,
2015, www.treccani.it/enciclopedia/peruzzi_(Dizionario-Biografico)/ (consultato il 29/10/2019)
– A. Sapori, La crisi delle compagnie mercantili dei Bardi e dei Peruzzi, Leo S. Olschki, Firenze, 1926
– A. Sapori, Peruzzi, in Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Treccani, 1935, www.treccani.it/enciclopedia/peruzzi_%28Enciclopedia-Italiana%29/ (consultato il 29/10/2019)
– G. Vitolo, Medioevo: i caratteri originali di un’età di transizione, Sansoni, Milano, 2000, p. 218
NOTE
1) Vd. E. Plebani, Peruzzi, in Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. 82, Enciclopedia Treccani, 2015, www.treccani.it/enciclopedia/peruzzi_(Dizionario-Biografico)/ (consultato il 29/10/2019).
2) Vd. A. Sapori, Peruzzi, in Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Treccani, 1935, www.treccani.it/enciclopedia/peruzzi_%28Enciclopedia-Italiana%29/ (consultato il 29/10/2019).
3) Cfr. A. Pernice, Giovanni VIII Paleologo, imperatore d’Oriente, in Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Treccani, 1933, www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-viii-paleologo-imperatore-d-oriente_%28Enciclopedia-Italiana%29/ (consultato il 29/10/2019); P. Paschini, Ferrara-Firenze, Concilio di, in Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Treccani, 1932, www.treccani.it/enciclopedia/concilio-di-ferrara-firenze_%28Enciclopedia-Italiana%29/ (consultato il 15/07/2019).
4) Sui rapporti con le Fiandre si cfr. L. Galoppini, Mercanti toscani e Bruges nel Tardo Medioevo, Plus-Pisa University Press, Pisa, 2009, pp. 27-28, 85-86.
5) Sulle relazioni con la Francia si cfr. ibid., pp. 19-22.
6) Per le vicende con l’Inghilterra si cfr. ibid., 24-25, 76, 88-93.
7) Vd. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, L. Bellosi, A. Rossi, G. Previtali (a cura di), Einaudi, Torino, 1991, vol. II, pp. 684-689.
Gianluca Lorenzetti Nato il 19/09/1993 a Castelnuovo di Garfagnana, dove nel 2012 mi sono diplomato presso l’I.T.C.G. L. Campedelli (LU), ho conseguito laurea triennale (2016, voto 110/110) e magistrale (2019, 110/110 e Lode) in Storia (curriculum medievale) presso l’Università di Pisa. Mi occupo principalmente delle vicende e dei protagonisti del Regno d’Aragona, ma i temi su cui scrivo ed ho già pubblicato spaziano anche oltre i confini catalano-aragonesi, incentrandomi recentemente nello studio dell’essere umano sotto tutte le sue sfaccettature.
Scrivi all’autore !