Il piacere nel Medioevo

di Buno Cantamessa.

dal libro sulla “La cucina storica” di cui è co-autore – edizioni OMEGA – Torino.

Il termine piacere può essere interpretato in svariati modi se si riferisce all’epoca medievale. Ovviamente non è questa la sede per affrontare la tematica nella sua interezza, ma il piacere della tavola è già un argomento più che sufficientemente ampio.

Nel periodo tra il 1000 e il 1100 Hugues de Saint-Victor scrisse: «il corpo ha cinque sensi: la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto e il tatto, per i quali l’anima si apre in maniera adeguata all’esterno verso le cose visibili e produce tutto ciò che è gradevole, utile e necessario al corpo, così come per la ragione e la contemplazione l’anima si dirige verso il mondo invisibile. L’uomo si compone di una doppia natura, una spirituale e una corporale così è munito di una doppia facoltà cognitiva. All’interno è dotato della ragione, che è orientata alla contemplazione dell’invisibile, all’esterno è dotato della sensibilità che gioisce della contemplazione del mondo visibile. La ragione trova nei beni invisibili il suo frutto e il suo piacere, come la sensibilità scopre nei beni sensibili il gusto al quale è adattato». Questo pensiero antico ha già una indicazione sulla consapevolezza dell’uomo medioevale su ciò che i sensi e l’anima possono produrre.

All’epoca si parlava molto dei cinque sensi per la percezione della bellezza delle cose, ma vi era un problema. Un uomo non poteva percepire la bellezza se doveva affrontare il problema quotidiano della fame. A tale proposito Aulu Gelle scrisse «questi due piaceri, del gusto e del tatto, cioè l’ingordigia e l’amore fisico, sono gli unici piaceri comuni tra gli uomini e gli animali, di conseguenza tutti gli uomini schiavi di questi piaceri bestiali sono conteggiati tra i bruti e le bestie».

Spesso però non era in questi termini la situazione, si parla di ingordigia ma la fame più cupa portava la gente dell’epoca ad accanirsi su tutto ciò che riteneva commestibile, e quest’ultimo termine aveva un senso diverso dall’attuale visto che taluni si mettevano a brucare l’erba resi folli dalla fame.

Ciò non toglie che i piaceri della tavola costituirono un elemento fondamentale della socialità medioevale.

E’ risaputo che paesani e signori non si nutrivano alla stessa maniera ma al di là delle divisioni sociali vi erano gusti comuni a tutti.

Gli storici del passato ci hanno presentato la cucina medioevale come una cucina sempre pesante e grassa, ma ciò non risulta vero se la analizziamo guardando alle salse che venivano preparate.

Queste contenevano olio o burro, mollica di pane, mandorle o noci e rossi d’uovo per legarle, elementi non certo light ma neanche tanto lontani dai nostri, oltre che ad una sostanza acida come ad esempio un liquido ottenuto dall’uva verde o l’aceto oppure ancora il succo di arance amare o di limone.

Completando poi la ricetta con alcune spezie si otteneva una salsa che aveva il principale scopo di destare e tenere sveglio il palato.

Questo tipo di cucina era comunque molto lontana dalla Nouvelle cuisine in quanto non ambiva assolutamente alla conservazione del gusto e dell’aspetto delle materie prime. I cibi spesso assumevano un aspetto ingannevole, venivano colorati con sostanze naturali o artificiali con l’unico scopo di renderli più brillanti e gradevoli alla vista.

Le spezie usate per esaltare i gusti erano molte, in alcuni testi ne vengono citate fino a sedici essenziali nella cucina dell’epoca, il pepe al contrario di quello che si può credere era la spezia meno nobile anche se in passato aveva rivestito grande importanza nella preparazione delle vivande. Nell’epoca medioevale il pepe perde di fama in quanto non era caro, viste le grandi quantità che ne giungevano in Europa ed il prezzo sempre stabile, diventando così la spezia usata dalle classi meno abbienti.

Le spezie venivano così usate nella confezione di quasi tutte le vivande, bevande comprese come il vino speziato e l’ippocrasso ma non senza parsimonia, infatti la maggior espressione di arte culinaria medioevale vale era il condimento e non la cottura.

E’ da sfatare la comune opinione che nel medioevo l’uso delle spezie era dato dalla necessità di coprire i cattivi odori e sapori dei cibi, infatti non si aspettava che le carni andassero a male per poi mascherarle con le spezie, si consumavano fresche e l’aggiunta delle spezie doveva rendere gradevole al palato dell’uomo del tempo il cibo che consumava tanto che alcune ricette prendevano il nome dalla spezia che la aromatizzava.

Le preparazioni così speziate procuravano piacere al palato e al corpo ma non era necessario fare ricorso a piatti elaborati per “provare piacere”, il pane fresco, il pane caldo preparato con della farina di buona qualità ed appena sfornato, simbolizzava tutte le delizie del corpo e dello spirito ricordando che esisteva il pane dei ricchi, il pane dei poveri ed il pane dei preti.

Il culmine del piacere legato al cibo veniva raggiunto durante i banchetti, esistono diversi documenti che testimoniano la sfarzosità di tali feste e l’importanza che rivestivano nel tessuto sociale dell’epoca.

Bisogna evidenziare, però, che presso i signori il piacere della tavola non consisteva solo nel cibo ma anche di tutto quelle che avveniva attorno alla tavola durante il banchetto. Durante i festini medioevali, il momento cloù non era dato dall’apprezzamento da parte degli invitati delle vivande ma bensì dagli “entremets” cioè i divertimenti “entre les mets” ( tra i cibi ).

Questi divertimenti potevano avere una portata limitata come un giullare, un giocoliere, degli acrobati, dei musicisti o domatori di bestie selvagge, oppure addirittura un vero e proprio torneo come quello svoltosi nella sala dove si consumava il banchetto offerto in onore del Papa Clemente VI dal Cardinale Annibale de Ceccano nel 1343.

Il termine “entremets” indicava inoltre dei piatti serviti dopo gli arrosti durante gli intrattenimenti.

Il piacere della tavola veniva raggiunto, oltre che con i divertimenti, anche con un’accurata presentazione della sala ed in particolar modo della tavola. L’aspetto estetico veniva tenuto in grande considerazione e tutto veniva accuratamente orchestrato dal maestro di casa, con lo scopo anche di evitare avvelenamenti, tecnica di eliminazione della concorrenza molto in voga verso la fine del Medio Evo.

In effetti, il maestro di casa vegliava su tutte le fasi di preparazione, allestimento e servizio del banchetto per scongiurare ogni pericolo.

L’estetica, comunque rivestiva un’importanza quasi maniacale, l’occhio assaporava in anticipo le torte o i pasticci che dovevano avere la crosta dorata, soda e istoriata di figurine di pasta nate dalla fantasia del cuoco. Tutto ciò rappresentava una grande novità rispetto alla cucina antica.

Ma non basta, al piacere della vista si aggiungeva quello della sorpresa, dato che la “crosta” aveva anche la funzione di dissimulare ciò che conteneva e che realmente era da mangiare.

Da questo, la ricerca medievale, oltre a far apprezzare i gusti, passa dall’esibizione di una realtà simulata come ad esempio un pavone rivestito delle sue stesse penne, al travestimento, come quello dei pasticci che al momento del servizio si rivelano gabbie di pasta per uccelli vivi che al momento dell’apertura volavano nella sala. Questa variante può essere vista come forma esplicità di “entremets”.

Come già accennato anche i colori avevano grande importanza nella composizione dei piatti medievali, un cuoco, che per un piatto necessitava di un colore bianco, abbinava riso, mandorle, carne di pollo, zenzero, ecc…, ma spesso contrapponeva a questo colore il giallo, ottenuto con tuorli d’uovo e zafferano, in modo da creare giochi variopinti.

Le salse poi, che non avevano lo scopo di nutrire ma di ravvivare o correggere il gusto delle vivande, venivano preparate di svariati colori e servite le une accanto alle altre in diverse ciotole.

Il commensale sceglieva poi la salsa in base al sapore presunto o al colore manifesto.

La tavolozza dei cuochi medievali era formata da colori naturali ottenuti da bietole, spinaci, prezzemolo e basilico o da spezie come la cannella o lo zafferano o ancora da frutti come l’uva nera, le more, l’uva passa, le prugne o altri ingredienti come i fegatini di pollo ed il pane abbrustolito.

Nonostante ciò, la gamma dei colori dal rosa al rosso era troppo povera e tali colori erano troppo importanti per la composizione di vivande d’effetto, così i cuochi “artisti” non disdegnavano l’uso di coloranti artificiali, ovvero non tratti da ingredienti base di cucina.

Troviamo così il succo del legno di sandalo che dava un colore rosa antico, la radice di alcanna dal colore rosso luminoso o le roccelle, il tornasole o i licheni fogliacei che, sapientemente usati modulavano dei rossi che potevano arrivare al violaceo, al viola e al blu.

Alla luce di questi usi si evidenzia che il cuoco dell’epoca molto spesso si trasformava in alchimista e pittore alla ricerca della tonalità giusta di colore.

Oltre al colore anche la forma dei cibi aveva notevole importanza, si amavano tutte quelle forme che riproducevano linee realmente esistenti e rassicuranti e quelle create dalla mano del cuoco nelle sostanze malleabili.

Ne sono esempio le torte e i pasticci che racchiudevano animali e vari ripieni, i tortelli o le paste tagliate a forma di ferro di cavallo, di anello o di lettere dell’alfabeto.

La forma che attraeva di più era quella espressa dai brodi trasformati in tremolanti gelatine che incastonavano pezzi di carne o pesce.

Tali gelatine venivano gentilmente colorate con lavanda, alloro fresco e zafferano e servite in coppe di vetro trasparente creando così giochi di luce che incantavano il commensale.

Affinché il piacere sia totale, non bisogna dimenticare che gli invitati stiano bene tra di loro, il concetto di convivio assume notevole importanza, il fatto di avere buona compagnia procura piacere e, durante i festini medievali, dove tutti gli invitati erano seduti dallo stesso lato del tavolo condividendo gli stessi piaceri dei sensi e dello spirito, si svolgevano scambi di idee, alleanze politiche, promesse di matrimonio e tutto ciò che l’occasione portava.

Cosa di più conviviale che condividere cibo e bevande si poteva pretendere allora?

Purtroppo il piacere della tavola variava al variare del ceto sociale e tale differenziazione è andata affermandosi ben oltre l’epoca medievale.

Bruno Cantamessa

Piemontese. Studioso, ricercatore ed esecutore della cucina storica. Grande appassionato di cucina ha recentemente pubblicato come coautore un libro sulla Cucina Storica. Al suo attivo partecipazioni internazionali e consulenze nel campo della gastronomia. Docente di Cucina Storica e creativa. Ha creato oltre un centinaio di ricette personali ed è interprete della grande cucina Internazionale e tradizionale dei territori. Dal 1995 Executive Chef e Direttore del personale. Opera in Liguria. È l’editore del portale CucinaStorica.eu

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