
di Alessandro Vanoli.
Il re Marsilio si trova in Saragozza.
E’ in un verziere andato, sotto l’ombra:
sopra un pietrone di marmo blu si corica,
gli stanno attorno più di ventimila uomini.
Egli si volge ai suoi duchi e ai suoi conti:
“Signori, udite che disgrazia ci è sopra.
L’imperatore che tien la Francia dolce
In questa terra è venuto a sconvolgerci.
Io non ho esercito che battaglia gli muova,
né ho tale gente che mandi in rotta i suoi.
Or consigliatemi come saggi miei uomini,
per farmi salvo da morte e da vergogna”.
Nessun pagano risponde qui all’infuori
Di Biancandrino del castel di Valfonda [1]
Il consiglio di Biancandrino è quello di non peggiorare la situazione: meglio dare a Carlo Magno quel che vuole e farsi suoi vassalli, piuttosto che ritrovarsi a mal partito e perdere la Spagna. I lettori che conoscono la Chanson de Roland sanno che da questo momento le cose procederanno inesorabilmente sino al drammatico scontro nella gola pirenaica di Roncisvalle. E’ un invenzione, si sa, e non ce ne curiamo. Quello che conta per noi, in quest’opera del secolo XI, sono piuttosto i saraceni: vi è un re, Marsilio, seduto all’ombra di un verziere nella città di Saragoza, attorno a lui ventimila uomini e tutti i suoi conti e duchi. La prima cosa, scontata ma rilevante, che invito ad osservare è che l’anglonormanno in cui è scritta la canzone usa il termine reis per Marsilio oltre che dux e cuntes per gli altri; termini cioè che designano figure istituzionali del mondo europeo dell’epoca. Inutile dire che si tratta dell’immagine speculare, neanche tanto negativa, della classe nobiliare francese: quei Saraceni in riunione sono, cioè, soggetti alle stesse consuetudini sociali e alle stesse logiche politiche dei Franchi, solo sono pagani, paien.
La Chanson de Roland avrebbe fatto scuola: nella successiva tradizione epica di lingua francese il tema della guerra contro i mori si sarebbe diffuso in innumerevoli varianti, ma i Saraceni di opere come il Couronnement de Louis o la Chanson de Guillaume sarebbero rimasti pressoché identici: un nemico indistinto, mosso dagli stessi valori che informavano l’ordine feudale, valori che, però, rimanevano celati dietro una generica etichetta di paganesimo o politeismo.
Volendo a questo punto rimanere nello spazio sospeso delle pagine letterarie, è noto che un gran divoratore di romanzi cavallereschi sarebbe stato, qualche secolo dopo, Don Chisciotte. La questione, si sa, è complicata: in Don Chisciotte la letteratura si confonde con la vita e il cavaliere della Mancha è intriso di letteratura: sa a memoria i romanzi cavallereschi, ne ha riempito la propria biblioteca sino a provare lui stesso a scriverne. Tutto questo non possiamo dimenticarlo quando ci accostiamo al romanzo anche solo per leggervi di mori e saraceni: Cervantes è sempre sottile nel giocare col lettore, confondendoci sino al punto di non riuscire più a distinguere chi sia l’autore e chi il personaggio. In ogni caso, giungano dai romanzi di cavalleria, da tristi vicissitudini personali (Cervantes a Lepanto aveva perso l’uso della mano sinistra e in Algeria aveva passato cinque anni in schiavitù) o da diffuse convinzioni popolari, le seguenti parole di Don Chisciotte, preso a riflettere sulle sue stesse avventure, suonano quantomeno rivelatrici:
Eppur delle imprese degli scudieri non si è mai usato di fare menzione in iscritto, e quand’anche vi fosse una tale istoria, dovendosi riferirla ad errante cavaliere, dovrebbe essere per necessità eloquentissima, alta, insigne, magnifica, veritiera.» Lo consolavano un poco queste riflessioni, ma si trovava poi sconfortato pensando che n’era Moro l’autore, poiché aveva il nome di Cide, né dai Mori attender poteasi verità alcuna, essendo tutti imbrogliatori, falsarii e lunatici. Temeva che non si fosse parlato degli amori suoi colla più rigorosa decenza, e che ne avesse quindi a ridondare pregiudizio ed oltraggio alla onestà della sua signora Dulcinea del Toboso; almeno bramava che fosse stata posta in chiaro lume la sua fedeltà e il decoro che aveale gelosamente serbato, sprezzando per tale suo idolo, regine, imperatrici e donzelle di ogni condizione, e infrenando gl’impulsi suoi naturali.
In un mio precedente lavoro sull’idea spagnola di Reconquista mi soffermai per la prima volta su questa frase e sul disappunto di Don Chisciotte nei confronti di colui che avrebbe narrato le sue avventure: già quel nome, Cide Hamete Benengeli, tradiva evidentemente il suo essere moro; e dai mori, era risaputo, non ci si poteva attendere alcuna verità, essendo tutti imbrogliatori, falsarii e lunatici [2]. Una frase, niente di più, ma di una certa importanza. Il castigliano di Cervantes, usa tre termini molto espressivi: embelecador, falsario e quimerista. Il primo aggettivo richiama l’idea dell’ingannare per mezzo di artifici e false apparenze, falsario designa invece colui che non fa cose conformi alla verità, mentre il terzo, quimerista, attiene esplicitamente all’ambito, per così dire, più cervantesco del produrre finzioni, favolose e immaginarie.
La falsità e la finzione dominano il romanzo, a cominciare dalla decisione di Cervantes di fingere che il suo libro altro non sia che una traduzione dall’arabo di una misteriosa Historia de don Quijote de la Mancha, escrita por Cide Hamete Benengeli e ritrovata fortunosamente a Toledo. In realtà l’idea della falsità del musulmano ha una storia antica ed è proprio da essa che occorrerà cominciare
La scoperta dell’islam e l’invenzione dei Saraceni
Prima ancora della nascita dell’Islam, la cultura cristiana definì e sistemò quel poco che si sapeva sull’Oriente e sui popoli che laggiù abitavano. Notizie degli Arabi circolavano da secoli, perlomeno da quando Erodoto vi si era lungamente diffuso, parlando della loro penisola come dell’ultima delle terre meridionali abitate e l’unica a produrre l’incenso (Storie, III, 107). Ma, al di là dei greci, c’era pur sempre la Bibbia. Nell’Antico Testamento gli Arabi facevano la loro comparsa solo alcune volte e sempre in rapidi cenni [3]; così pure nel Nuovo Testamento, in cui comparivano solo una volta, ricordati tra coloro che avevano udito gli apostoli nella Pentecoste (At, 2,11). Per Gerolamo, che avrebbe ripreso il passo neotestamentario nel suo commento a Isaia, il termine Arabes era da tradursi come “collocati in basso” (humiles) o “abitanti della pianura” (campestres), ricollegandosi all’ebraico ‘arabah, con cui si designa la steppa o una zona desertica.
Stesso discorso per i Saraceni. Anche il termine latino Saracenos era un calco dal greco, ma molto più recente: i Sarakenoí (sing. Sarakenós) erano stati citati da Tolomeo e, in generale, erano noti alla tarda letteratura ellenistica. La Bibbia non ne faceva menzione e anche la letteratura cristiana faticava non poco a collocare tale popolazione in uno spazio pensabile: Arnobio, apologeta latino tra il III e il IV secolo, li voleva in quella vasta parte d’oriente che si estendeva dal deserto della Palestina sino alle terre dei Persiani; Agostino e Gerolamo, invece ritenevano che si trattasse dei Madianiti – popolazione nomade che l’Antico Testamento inseriva tra i “figli dell’oriente” (Gdc 6,3.33; 7,12) – e ricordavano che tale popolazione fosse solo ora chiamata Saraceni. A quanto sembrerebbe da questi autori, cioè, fu solo tra i secoli IV e V che il termine Saracenos dovette fare la sua introduzione nel vocabolario latino. Su cosa significò davvero quel nome, non ne sappiamo, in fondo, molto di più dei padri della chiesa. E’ stato spesso ripetuto, pur senza una valida base documentaria, che tale termine potesse essere stato, a sua volta, desunto dall’arabo sharkî, cioè “orientale”. Dato il periodo di diffusione del termine in ambito occidentale, tale ipotesi mi sembra da prendere, almeno, con molta prudenza.
A riassumere tali idee giunse infine di l’opera di Isidoro da Siviglia: uno degli ultimi padri della chiesa, vissuto nella Spagna del secolo VII, a cui dobbiamo, tra i tanti scritti, alcune fondamentali opere enciclopediche, in cui raccolse per il Medioevo l’intero sapere dell’antichità. In una di queste, le Etimologie, troviamo una descrizione dei popoli così come narrata dalla Bibbia. Quello che ci interessa qui è soprattutto la stirpe di Sem, quella che si era insediata in Asia, e che era costituita, secondo il racconto biblico, da ventisette popoli, uno di questi, gli Ismaeliti, era derivato da Ismaele, figlio di Abramo; e proprio tali Ismaeliti erano per Isidoro i Saraceni.
Questa la sua argomentazione (Etimologie, IX, 2). Innanzi tutto registrava una convinzione diffusa: i Saraceni (Saracenos) si sarebbero chiamati così in quanto procedevano da Sara, allo stesso modo in cui gli Agareni erano così chiamati da Agar. Poi continuava insinuando un serio dubbio su tale etimologia, in quanto non sarebbe stata altro che una pretesa di codesti Saraceni quella di discendere da Sara, e aggiungeva che secondo i gentili il loro nome sarebbe derivato invece dal fatto di essere originari della Siria. Isidoro inoltre distingueva tra Saraceni e Arabi: anzi, questi ultimi erano per lui di stirpe camitica. Gli Arabi, infatti non erano altro che i Sabei (Sabaei), discendenti di Saba, ma noti anche come Arabi (Arabes), gli unici che coltivavano l’incenso.
Comunque fosse, si trattava ancora di popoli lontani: l’islam non era ancora nato (o meglio: stava nascendo proprio in quegli anni a cavallo del secolo VII) e il problema era al più collocare tali genti all’interno del progetto della divina provvidenza.
Tutto cambiò agli inizi del secolo VIII, quando i Saraceni giunsero in Europa portando con sé ll loro nuova religione musulmana. In Spagna le prime cronache latine a darcene notizia sono la cosiddetta Bizantino-araba, redatta nell’anno 741 e la Mozarabica, così chiamata perché scritta presumibilmente da un mozarabo [4] di Cordova nel 754. In esse ritroviamo il termine generico Sarracenos e, con meno frequenza, Hismalitas. Ma ciò che più conta sono le caratteristiche di questi popoli: si sottolinea con forza, infatti, che la vittoria musulmana in Spagna sia, da una parte frutto dell’inganno (arte fraude virtute), e dall’altra segnata dalla loro crudeltà; il governo dei musulmani viene descritto a volte come crudelis e terribilis; ed è alla crudeltà musulmana che si devono le sofferenze senza precedenti che la Spagna ha dovuto soffrire.
Nel resto dell’Europa si narrarono cose più o meno simili. Un anonimo cronista borgognone ricordò circa nello stesso periodo come «i Saraceni, secondo il loro costume, avanzarono devastando senza posa le province dell’impero». Negli anni Trenta del secolo VIII il Venerabile Beda, monaco anglossassone, tirava invece un sospiro di sollievo, riassumendo gli ultimi avvenimenti: «In quel tempo una gravissima invasione di Saraceni ha miseramente devastato le Gallie, ma poco dopo, in quella stessa regione, essi hanno pagato giusta pena delle loro perfidie» [5]. E via di seguito. Allo stesso modo si sarebbero espressi più tardi gli Annali Carolingi [6] e in termini molto simili si sarebbe narrato, un secolo dopo, delle scorribande di Saraceni in Italia meridionale: popolo efferato capace di distruggere ogni cosa al suo passaggio, null’altro lasciando che sterpi e rovi [7], ma capace, anche qui, di vincere e conquistare solo con l’inganno. Così, ad esempio, sarebbe avvenuto nell’anno 847, quando questi invasori “delinquenti” e “iniqui”, presero la città di Bari, manco a dirlo, con la frode [8].
Crudeli e falsi. Non si tratta di epiteti dovuti a una qualche convinzione sulla loro fede: a quel tempo le idee religiose sull’islam sono ancora a dir poco vaghe. E’ al bagaglio culturale cristiano che bisogna piuttosto fare riferimento per capire come il nuovo nemico musulmano potè essere pensato. Così, ad esempio, la crudelitas musulmana fu intesa come un esplicito strumento di Dio (l’idea della Spagna perduta rimanda visibilmente al paradiso e al tema biblico della caduta; le cronache non parlano infatti di nemici ma di punizione divina: la crudelitas mostrata dai musulmani è strumento di Dio); e il riferimento, più o meno esplicito, di tale immagine letteraria è ancora la Bibbia, dove molto spesso la crudelitas – elemento positivo del rapporto punizione-colpa inserito nello schema del patto tra Dio e Israele – è attributo divino [9].
Un discorso analogo può essere fatto per il problema della falsità. Uno dei possibili punti di partenza è sicuramente l’opera di Giovanni Damasceno (m. 749), un cristiano che visse, come ricorda il nome stesso, a Damasco lavorando come funzionario dei califfi Omayyadi, cioè sotto dominazione musulmana. A lui dobbiamo uno tra i primi trattati compilati da un cristiano sull’islam. Il punto di vista da lui espresso sulla nuova religione è chiaro sin dall’inizio, specie considerando che la sua è un’opera contro le eresie: i musulmani sarebbero stati, di fatto, un eresia del cristianesimo. E non era una risposta al nuovo problema suscitato dall’espansione islamica, quanto piuttosto l’abitudine antica ereditata dall’interpretazione dei padri della chiesa, che ormai da secoli leggeva ogni elemento esterno all’ortodossia come un’eresia del cristianesimo.
Ecco, allora, la menzogna, la falsità: elemento fondamentale dell’eresia, aspetto che, più di ogni altro, ne fissa i tratti rispetto alla vera fede: l’eresia si collocava, così, su quella linea diretta che legava il diabolico odio della verità all’impostura di coloro che si celavano all’interno dell’ortodossia.
Per secoli, sino al pieno dell’età moderna, i musulmani sarebbero stati riletti, più o meno consapevolmente, attraverso queste antiche tracce: riconducendoli, lungo precise filiere testuali, alla loro natura più evidentemente demoniaca: l’eresia era il nodo che legava i musulmani alla storia sacra, proiettandoli sin nello spazio della lotta finale tra luce e tenebre, tra Israele e l’Anticristo, così come aveva narrato il libro di Daniele, così come mostrava l’Apocalisse.
Crudeli e falsi, dunque: il cristianesimo aveva inventato i Saraceni.
Bibliografia
Per approfondire si faccia riferimento a questi due classici:
N. Daniel, Gli Arabi e l’Europa, Il Mulino, Bologna 1981 (ed. ingl. Longman, London – New York 1979).
M. Rodinson, Il fascino dell’Islam, Dedalo, Bari 1988 (ed. fr. Maspero, Paris 1980).
Molte delle considerazioni precedenti sono invece tratte da questo mio lavoro:
A. Vanoli, Le Parole e il mare. Tre considerazioni sull’immaginario politico mediterraneo, Aragno, Torino 2005.
Note
[1] La Chanson de Roland, ed. crit. C. Segre, Milano-Napoli 1971, II, 10-23
[2] M. de Cervantes, Don Quijote de la Mancha, II, 3: “Pero desconsolóle pensar que su autor era moro, según aquel nombre de Cide; y de los moros no se podía esperar verdad alguna, porque todos son embelecadores, falsarios y quimeristas.”
[3] Nel secondo libro delle cronache sono enumerati tra coloro che portavano tributi a Giosafat (2 Cr 17,11). Nel libro di Nehemia sono tra quelli che si adirano per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme (Ne 4,7). Infine, nel secondo libro dei Maccabei si accenna a cinquemila arabi con cinquecento cavalieri che attaccano Giuda (2 Mac 12,10).
[4] Dall’arabo musta‘rib: nome dato ai cristiani spagnoli che vivevano sottomessi ai musulmani in al-Andalus.
[5] Historia ecclesiastica gentis Anglorum, V, 23, ed. B. Col grave-R.A.B. Mynors, Oxford 1969, pp. 556.
[6] Annales regni Francorum, ed. F. Kurze, Hannover 1895, pp. 94 ss: relativamente all’anno 793 si registra che “due gravi prove (duo valde displicentia) vennero da due diversi territori”; si trattava dell’invasione dei Sassoni e dell’incursione dei Saraceni in Settimania.
[7] Così, ad esempio, nella Historia Langobardorum Beneventanorum di Erchemperto, a cura di G. Waitz, in MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannover 1878, capp. 35, 51.
[8] Cfr. Cronica Sancti Benedicti Casinensis, a cura di G. Waitz, in MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannover 1878, cap. 5: “In tempesta videlicet noctis hora more solito nominatam rapuerunt civitatem”.
[9] Così, ad esempio, Isaia (Is 13,9) annuncia la venuta del giorno del Signore, crudele (crudelis nella versione latina di Gerolamo) e pieno di indignazione, il giorno in cui si farà della terra un deserto e verranno sterminati i peccatori.
È nato a Bologna il 18-9-1969. Si è laureato in storia della filosofia medievale presso l’Università di Bologna dove successivamente si è specializzato in storia con Valerio Marchetti. Ha studiato arabo presso la Bourguiba University di Tunisi ed ebraico a Bologna. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia sociale europea presso l’Università di Venezia sotto la guida di Giorgio Vercellin, con una tesi su Pratiche e immagini della guerra tra Cristianità e Islam nell’alto medioevo spagnolo (secoli X-XI). È attualmente docente a contratto di Politica comparata del Mediterraneo presso l’Università di Bologna (sede di Ravenna) e docente a contratto di Cultura Spagnola presso l’Università Statale di Milano.
Ha svolto ricerca presso università e centri scientifici in Germania (2000), Tunisia (1999, 2000, 2004), Argentina (2004), Spagna (1999, 2000, 2005).
Ha insegnato arabo classico dal 2000 al 2004 presso il Centro Poggeschi di Bologna.
È membro dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (ISIAO). È membro dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG). È membro del consiglio accademico della Maestría en Diversidad Cultural della Universidad Nacional de Tres Febrero di Buenos Aires (Argentina). È membro del comitato scientifico della rivista Religioni e società. È collaboratore della casa editrice Rizzoli con particolare riguardo alle pubblicazioni di ebraistica e islamistica.