Ripara la mia casa

Giotto. San Francesco rinuncia ai beni terreni. Assisi, Basilica superiore

Ripara la mia casa di Antonio Musarra

«Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo».
Con queste parole, Francesco descrive nel Testamento la sua conversione, punto di partenza della sua avventura. Abbandonando l’agiatezza che ne contraddistingueva la famiglia d’origine, egli sceglie di camminare assieme ai poveri e di condividerne lo stato di vita. Il motivo di tale cambiamento radicale non è esplicitato, benché possa essere ricercato, prima ancora che nell’aspirazione alla perfezione, nel comandamento «Ama il prossimo tuo come te stesso», oltre che in quegli stessi ideali cavallereschi che tanto aveva amato e ancora amava. All’inizio, insomma, fu la carità più che la ricerca della santità. E ciò, nonostante il suo orizzonte si allargasse sin da subito sino a contemplare il consiglio evangelico: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi» (Mt 19,21). Francesco sceglie il lebbroso prima ancora che sé stesso, rivoluzionando la gerarchia di valori della società del tempo. Certo, il suo gesto – ancorché declinato in maniera tanto originale – non era isolato. L’aspirazione a mondarsi dal peccato – confluita, a cavallo tra XII e XIII secolo, nell’«inventio» teologica del Purgatorio – costituiva, infatti, un tratto fondamentale della religiosità laicale del suo tempo, manifestandosi secondo forme di vita fluide e informali – forme di «vita regularis sine regula», per essere precisi – riconducibili a due tendenze di fondo: la «fuga mundi» di eremiti, recluse, cellani e murate; l’apostolato caritativo di beghine, begardi, bizzocche e pinzochere. A dire il vero, si trattava di esperienze che la Cristianità aveva sempre conosciuto; riproposte, ora, in un contesto in corso di ridefinizione a causa dell’urbanesimo crescente e d’una incipiente mobilità sociale. Francesco non fece altro che raccogliere istanze già ampiamente circolanti, rinnovandole profondamente. Mostrando come fosse possibile santificarsi rimanendo nel proprio stato, senza fuggire dal mondo. La penitenza, per lui, non era più una sanzione ma un programma di vita. Che prevedeva un ritorno radicale al vangelo: scegliendo di vivere assieme ai poveri, di mantenersi col lavoro delle proprie mani, di sposare la precarietà tramite l’itineranza, così da far rifulgere la Provvidenza.
Tutto ciò non faceva che rivelare il volto d’un laicato inquieto, alla ricerca del proprio posto nel mondo. Un laicato che la grande Riforma della Chiesa, dispiegatasi tra XI e XIII, aveva relegato al grado di mero fruitore del sacro, dispensatore del quale doveva essere il clero. Un’idea, questa, affatto scontata nel corso del primo millennio di storia cristiana. Al tempo di Francesco, l’universo cristiano viveva forti lacerazioni. La Chiesa gerarchica era avvertita come lontana dalle esigenze religiose dei laici. Al pari dei grandi ordini religiosi, identificati, spesso, con le proprietà di cui erano detentori. E ciò, nonostante il tentativo di rinnovamento portato avanti dalla Chiesa stessa, volto a sanare gli abusi e a moralizzare i costumi. Eppure, la gente necessitava d’altro; e, anzi, la lontananza dell’istituzione sollecitava taluni ad abbracciare tesi eterodosse, spingendo a sposare la povertà in maniera militante. In senso anti-gerarchico. Di fronte alla diffusione di tali movimenti, i papi tentarono una soluzione: regolarizzando alcuni gruppi; soprattutto, riconoscendo la validità dell’aspirazione all’ideale evangelico. Fu un grande papa, Innocenzo III, ad agire per primo in questo senso, approvando, nel 1198, non appena eletto, l’ordine degli ospitalieri dello Spirito Santo, fondato da Guido di Montpellier; seguito, nello stesso anno, da quello dei Trinitari, fondati da Giovanni de Matha, dediti alla liberazione dei prigionieri e al riscatto degli schiavi cri­stiani, e, nel 1201, da quello degli Umiliati, al cui interno, oltre a chierici e coniugati, si distingueva un terzo «ordo» formato da laici non coniugati, cui era concesso di osservare le forme della vita comune. Il proposito di vita proposto da Francesco fu riconosciuto nel 1209-1210. Al Poverello fu concesso di fare penitenza e di predicarla al mondo. Ma cosa significava esattamente «poenitentiam agere»? L’espressione da lui usata, tratta dalla Vulgata, è rivelatrice. Il futuro santo d’Assisi non faceva altro che utilizzare le stesse parole di Gesù, ch’era solito iniziare in questa maniera la propria predicazione: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15). Nel testo della Vulgata, la parola greca usata per “convertitevi”, μετανοεῖτε, (“metanoéite”), era resa con il latino «poenitemini»; allo stesso modo, in Atti 2,38 era utilizzata l’espressione «poenitentiam agite»: fate penitenza. Il senso dell’espressione era da ricercarsi, dunque, nella μετάνοια (“metanoia”) greca: la “conversione”.

Giotto. Il sogno di Innocenzo III Assisi, Basilica superiore

E, di fatto, era la conversione che il Francesco predicava; e che – ad esempio – predicò al sultano nell’autunno del 1219, partecipando alla crociata bandita da Innocenzo III. L’episodio è noto, e basti a rammentarlo la testimonianza del vescovo di Acri, Jacques de Vitry, che, in una lettera inviata da Damietta il 6 febbraio (o marzo) del 1220 al maestro Giovanni da Nivelles e alla badessa del monastero di Aywières – dunque, pochi mesi dopo i fatti –, si limitava ad affermare: «Il loro maestro, che istituì quell’Ordine, essendo venuto nel nostro esercito, ardente dello zelo della fede, non temette di attraversare l’esercito dei nostri nemici e dopo aver predicato per alcuni giorni la parola di Dio ai Saraceni, non ottenne gran che. Il sultano, re dell’Egitto, gli chiese, però, in segreto, di implorare il Signore secondo la sua religione perché, divinamente ispirato, aderisse alla religione che più piacesse a Dio». Se sulle buone intenzioni del sultano si può lecitamente dubitare, non v’è dubbio che Francesco cogliesse l’occasione per predicare la conversione. In questa maniera, egli non faceva altro che ritornare al Vangelo, rilanciando il grande appello penitenziale che apriva la predicazione di Gesù e quella degli apostoli nel giorno di Pentecoste. La sua proposta conobbe uno straordinario successo, favorendo, da un lato, la progressiva emancipazione dei laici in campo religioso; soddisfacendo, dall’altro, le esigenze del clero, teso a disciplinare ogni aspetto della vita della Chiesa: non a caso, già forse tra il 1209 e il 1210, Francesco stesso fu indotto a vestire l’abito diaconale. La «fraternitas» stessa, a ogni modo, avrebbe visto convivere chierici e laici. Tutti quanti «fratres minores», senza distinzioni. Giacché l’obiettivo era uno solo. Come si legge nel Testamento: «vivere secondo la forma del santo vangelo». Un Vangelo – s’intende – assai più letto e conosciuto dei secoli precedenti; e ciò, nonostante il tentativo di alcuni movimenti di farne un’arma contro la Chiesa. Un Vangelo che – a discapito delle tendenze gnostiche di catari e albigesi, diffusisi prevalentemente nel meridione francese – spingeva verso una meditazione profonda sull’umanità di Cristo, sul significato redentivo della sulla Passione, sulla Sua morte e Resurrezione, incontrandosi e amalgamandosi con le aspirazioni penitenziali che permeavano la società. Un Vangelo, dunque, portavoce d’una “religione dell’Incarnazione”, oggetto, da tempo, della riflessione dei teologi, ma che si avviava solo ora a divenire uno dei tratti dominanti della religiosità popolare. Un Vangelo che segnava, di fatto, il rinnovamento della Chiesa. Francesco, insomma, si fece promotore d’un cristocentrismo radicale, manifestando una particolare devozione per l’umanità sofferente del Cristo e l’eucarestia, in cui era serbato il mistero della redenzione. In questo egli fu davvero un riformatore; benché tale ruolo fosse lungi dalle sue intenzioni. Egli non teorizzò mai la necessità di stravolgere l’istituzione. Pensò, piuttosto, a incarnare il cambiamento indicando la strada: la strada del Vangelo, da percorrere, innanzitutto, assieme agli ultimi.

antonio_musarraAntonio Musarra
è nato a Genova il 22 aprile del 1983.
Si è laureato in Storia presso l’Università degli Studi di Genova nell’ottobre del 2007 con una tesi dal titolo La guerra di San Saba. Genova nel Grande Gioco delle potenze marittime italiche nel Mediterraneo (relatrice: Marina Montesano; votazione: 110/110 e lode). Ha approfondito l’interesse per l’espansione genovese nel Mediterraneo basso-medievale, con particolare riguardo alla partecipazione al movimento crociato e alla presenza in Siria-Palestina, durante il corso di Dottorato di ricerca in Scienze Storiche, frequentato, fruendo di una borsa di studio, presso l’Università degli Studi di San Marino nel triennio 2009-2012 (IX ciclo). Il 12 giugno 2012 ha difeso una tesi dal titolo Praepotens Ianuensium Praesidium. Genova, la crociata e la Terrasanta nella seconda metà del Duecento (tutor: Anthony Molho; votazione: 60/60 e dignità di stampa). Il 24 luglio 2012 ha conseguito la Laurea Magistrale in Scienze Religiose presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Genova (Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale) con una tesi dal titolo Il latino di un notaio ecclesiastico tardo-medievale. L’inedita Historia translationis beati Ioannis Baptiste ad Civitatem Ianue di Nicolò de Porta (relatore: P. Prof. Mauro De Gioia, CO; votazione: 60/60 e lode). L’11 novembre dello stesso anno ha conseguito il Diploma in Archivistica, Paleografia e Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Genova.
Nel 2014 ha ottenuto una borsa di studio da parte della Fondazione Spinola di Genova per la realizzazione di uno studio monografico sulle origini, lo sviluppo e il ruolo della famiglia Spinola nel contesto comunale genovese dei secoli XII-XIV. Nel 2015 ha partecipato in qualità di borsista all’VIIIe atelier doctoral «Sources pour l’histoire économique européenne (XIIIe-XVIIe siècle) – De la source aux réseaux», organizzato dall’École Française de Rome, dall’Università degli Studi di Siena e dall’Istituto storico italiano per il Medio Evo.
Ha all’attivo un’ampia partecipazione a convegni nazionali e internazionali, nel corso dei quali ha presentato i risultati delle proprie ricerche, incentrate prevalentemente sulla storia politica, istituzionale, economica e culturale del medioevo genovese (con particolare riguardo all’espansione mediterranea e al mondo coloniale), sulla storia della navigazione e della guerra navale nel Mediterraneo basso-medievale, sulla storia della partecipazione italiana al movimento crociato e sulla storia del viaggio e del pellegrinaggio in età medievale.
Autore di articoli e saggi, pubblicati in riviste nazionali e internazionali e in volumi miscellanei, redattore di voci per il Dizionario Biografico degli Italiani (Treccani), ha prestato particolare attenzione alla trascrizione ed edizione di documenti inediti, prevalentemente di provenienza notarile, per lo più legati alla vita a bordo delle galee genovesi nei secoli XIII e XIV.
L’interesse per il Levante crociato lo ha portato ad approfondire diversi aspetti dell’insediamento genovese, e italiano in genere, in Oltremare, mediante la redazione di articoli e pannelli per alcune mostre tenutesi presso l’Archivio di Stato di Genova, e la cura degli atti di un convegno, organizzato in collaborazione con Franco Cardini, incentrato sulla presenza italiana in Terrasanta (SISMEL, 2015). Tale interesse lo ha spinto ad ampliare lo sguardo verso altri soggetti presenti nel medesimo contesto, tra cui l’Ordine francescano.
Oltre alla pubblicazione della tesi di laurea specialistica (Pacini, 2009) e della dissertazione dottorale (Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 2016), ha curato, in collaborazione con Marina Montesano, la traduzione italiana delle opere di alcuni annalisti genovesi (Frilli, 2010), e si è cimentato nella redazione di una sintesi divulgativa sui rapporti tra Genova e il mare in età medievale (il Mulino, 2015). Ha da poco pubblicato “1284 La Battaglia della Meloria (Laterza, 2018).
Fra i suoi attuali interessi di ricerca rientrano alcune tematiche legate alla guerra navale nel Mediterraneo basso-medievale, con particolare riguardo alle fonti dei conflitti tra Genova e Venezia tra XIII e XIV secolo, e ai rapporti tra Genova e l’impero ottomano nel secolo XV; sta approfondendo, inoltre, alcuni aspetti della sensibilità religioso-folklorica dell’Italia tre-quattrocentesca a partire da alcune fonti cronachistiche e testamentarie.
E’ sposato con Sonia ed è papà di Francesco e Federico.
E-mail: a.musarra1983@gmail.com
Web: www.antoniomusarra.it.
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