Riti di passaggio nella vita slavo-russa

Vladimiro I di Kiev

Riti di passaggio nella vita slavo-russa di Aldo C. Marturano

Le CTP, le fonti primarie per eccellenza – non dimentichiamolo! – di storia russa, hanno insistentemente lamentato fino al XIV sec. pesanti ostilità da parte della gente comune in area kievana verso il pensiero-dottrina cristiano che apportava invece con l’amore vita nuova fra persone finora barbare e infelici. Le CTP iniziarono ad esser compilate a Kiev con gli auspici del nipote di san Vladimiro, l’omonimo Vladimiro Monomaco educato a Costantinopoli sposo di Ghita, figlia di Aroldo, il re anglosassone caduto nella battaglia di Hastings (1066) contro l’ex vichingo Guglielmo il Conquistatore. Il Monomaco da sovrano al vertice dell’élite al potere era abbastanza internazionalizzato (possiamo dire un bel meticcio) da non poter ignorare la situazione religiosa locale prima del battesimo, ma purtroppo i pochi cristiani presenti erano varjaghi seguaci di Ario e pertanto eretici mal visti e percepiti ostili dagli ortodossi. È importante rimarcare questo giacché Kiev veniva fuori da un governatorato càzaro-bulgaro in cui islam, ebraismo e cristianesimo erano convissute senza inutili scontri. La politica che ci si sarebbe aspettata dal Monomaco con la chiesa russa ora dominante era pertanto che quei rapporti non cambiassero in maniera repentina visto che i commerci andavano “alla grande” e che eventuali contrasti religiosi avrebbero causato soltanto effetti economici negativi.
Così facendo tralasciamo dal novero delle religioni presenti proprio quelle maggiori: i vari paganesimi etnici che noi, per comodità, provvisoriamente ingloberemo in unico “credo pagano”. La ragione è che, finché i pagani restarono relegati com’era ancora nel XI sec. in aree lontane e sconosciute nelle foreste e nelle paludi intorno, come persone non ebbero un grosso peso politico a Kiev. Non appena però l’interesse verso le fonti di sussistenza s’accrebbe nel XI e XII sec. la chiesa cristiana si sguinzagliò per identificare le realtà contadine e si accorse dell’esistenza di un enorme popolo pagano. E qui si innesta la battaglia più dura con le credenze cristiane.
È strano, ma a quanto ci consta, la questione maggiore per la propaganda di conversione dei pagani alla fede cristiana fu l’incesto che risultò facile condannarlo, se già avvenuto, ma difficilissimo da prevenire poiché, per almeno arginarlo, occorreva intervenire nel tessuto familiare su cui si imperniava la comunità contadina e di cui questa comunità era gelosissima.
In tal modo di fare all’amore non c’era nessuna negatività giacché i figli incestuosi erano integrati al resto della prole senza limitazioni o assurde pudicizie. Anzi! Negli antichi miti e nei costumi da essi derivati con l’incesto abbinato alla poligamia che produceva figli con genitori fra cui la madre era diversa, si eliminavano i numerosi impedimenti “naturali” al costituirsi e al perpetuarsi della verv’ e addirittura del rod. Perché allora inventarsi e caricare un senso di colpa su gente che credeva indispensabili quei suoi costumi sessuali? E perché affermare che un figlio incestuoso nasceva malformato, morto o dai tratti spaventevoli o destinato, addirittura, a vagare senza meta nella forma di morto-non-morto (upir)? Se un bimbo veniva al mondo male, ciò era sicuramente il frutto di incantesimi malvagi e il coito incestuale non c’entrava per nulla né c’erano prove che così non fosse!
Il fenomeno dell’inbreeding e quindi dell’accumulo di geni-alleli recessivi era riconosciuto fra gli animali, ma giammai fra gli uomini la cui concezione/riproduzione era esclusivamente governata dalla benevolenza della divinità. Dopodiché il neonato una volta pubere sarebbe passato nelle mani di suo padre (o di chi per lui, all’interno della verv’) che al concepimento aveva preso parte soltanto col suo sperma come nutrimento (forse!) essenziale e con questo lo avrebbe ancora nutrito e educato. In conclusione di scientifico sull’incesto e con l’idea di sperma usato male, la chiesa cristiana s’accorse presto di aver pochissime armi convincenti. Le conoscenze usate dai “padri della chiesa” risalivano per la gran parte ad Aristotele (IV sec. a.C.) e a Galeno (II sec. d.C.) che si erano pronunciati sul ruolo dello sperma nel concepimento umano e sull’incesto. Il primo considerava una partecipazione organica dello sperma al concepimento e ne attribuiva la presenza soltanto al maschio. Galeno invece riconosceva la presenza dello sperma anche nella femmina che coagulandosi con quello del maschio provocava il concepimento. A parte il meccanismo ignorato di come ciò avvenisse, a questo proposito oggi è confermato che la donna emetta con l’orgasmo una secrezione lattiginosa che però logicamente non contiene gameti.
D’altronde questo discorso travestito di religione e di ideologia politica confluiva per intero nell’interesse realistico della chiesa di definire l’unità contribuente, la “famiglia cristiana”, e chi ereditasse dopo la morte del capofamiglia la proprietà famigliare affinché la contribuzione fissata nei sistemi statali già esistenti non si frammentasse e non diminuisse nel totale da versare. San Vladimiro infatti aveva concesso la decima parte dei suoi introiti alla chiesa di Kiev per il mantenimento per cui occorreva che essa dimostrasse poi di meritarla, quella decima. I primi scontri col paganesimo perciò furono sul matrimonio poiché, quale rito di passaggio pagano slavo-russo del mir, fu individuato implicare una serie di questioni di base prettamente economica fra cui gli eventuali tributi, seppure strettamente collegate ai costumi sessuali tradizionali. La tattica d’attacco fu perciò di costruire un tempio cristiano nel cuore del mir e assegnarlo in gestione a un parroco e alla sua famiglia. Compito di costui, della consorte e dei loro figli era dimostrare coi loro comportamenti, soprattutto sessuali, come un matrimonio cristiano funzionasse ricevendone la benevolenza divina.
Nel 866 il papa Nicola I scrive ai bulgari del Danubio una lunga lettera ove menziona il matrimonio e quali siano i principi che lo fondano. Questi principi serviranno poi nel XII sec. a elaborare una vera dottrina che renderà il matrimonio un sacramento e, mentre per Roma sul Tevere seguirà in più l’introduzione del celibato per l’intero corpo ecclesiastico, Roma sul Bosforo con una visione più pratica invece imporrà il celibato solo ai monaci a cui sono riservate le cariche più importanti ideologicamente. Il parroco (e il diacono) pertanto continuerà ad avere una famiglia e a dover rispettare le regole scaturite dai principi di cui il papa scrive e che noi qui di seguito per sommi capi enunciamo: 1. la coppia nubenda deve essere eterosessuale 2. occorre verificare il grado di parentela dei due partner affinché si eviti l’ignominioso e peccaminoso incesto 3. i partner devono essere reciprocamente consenzienti a dover vivere la loro intera vita insieme e a rispettare la vedovanza fino alla morte, se uno di loro dovesse mancare 4. deciso il matrimonio, questo deve essere pubblico 5. la donna deve essere munita dai suoi di una dote congrua allo scopo di evitare la sua compravendita come avviene presso gli slavi pagando il veno o presso i bulgari non battezzati e i loro affini turcofoni della steppa e sul Volga che pagano il qalim alla famiglia di lei 6. finalmente l’atto si può celebrare davanti al dio cristiano nella sua chiesa e 7. ora che la nuova famiglia è costituita ufficialmente, la coppia si può separare dai suoi per chiudere il rito con la copula e cominciare una nuova vita. E fare all’amore? Certo che sì, ma con scopi riproduttivi. Anzi, la chiesa raccomanda la postura coitale detta laterale o alla pigra (A. Alter & P. Cherchève v. bibl.) in cui i partner giacciono sulla schiena uno accanto all’altro e girandosi l’uno sul fianco sinistro e l’altro sul destro copulano guardandosi negli occhi in modo paritario (L. Otis-Cour v. bibl.)! Speciale per il parroco: Che ciò non avvenga troppo spesso né prima di certe liturgie né durante alcuni periodi festivi e, incisivo, che eviti di ricorrere all’atto sessuale per raffreddare eventuali ardenti spiriti suoi e della sua coniuge. Un padre con più figli in generale alla fin fine per l’etica cristiana suscita sospetti…
Questa famiglia-modello nella sedicente nuova visione di società, non ci stancheremo di ripeterlo, la Chiesa Russa del XI-XII sec., serva politica del principe di Kiev e del Patriarcato di Costantinopoli, tenta di introdurre fra le diverse etnie che riesce a localizzare e ad affrontare. È un modello per noi che facciamo ricerca oggi che si rispecchia più che nei documenti ufficiali, nei racconti popolari dove si riscontra un’evidente autocensura di indicare come eretiche e peccaminose le antiche tradizioni sulle relazioni amorose, ma poi con grande ironia liberamente si scimmiottano il prete e le sue urgenze sessuali extra matrimoniali, omosessuali e pedofiliche.
Nella verv’ un matrimonio meticolosamente circoscritto come quello dipinto per i cristiani non c’era. Le malattie perinatali numerose e fulminanti a causa dell’assenza di farmaci e per la mancanza di efficaci misure di asepsi nel parto limitavano le nascite e la persistenza in vita degli infanti fino alla pubertà e così la poligamia, l’incesto, la deflorazione prematrimoniale e i coiti quanto più liberi possibili dal punto di vista demografico erano sempre auspicabili. Eppure gli sponsali non costituivano un argomento di cui si parlava tanto spesso e con solennità nel mir. Le eventuali coppie in amore (di qualsiasi tipo, sottolineiamo l’ambiguità!) si formavano spontaneamente, lo rendevano noto nella verv’ dove avrebbero risieduto e tutto finiva lì, magari fra una bella mangiata e una buona bevuta. Un discorso a parte si faceva se ciò implicava il trasferimento di un partner da un mir all’altro poiché in tal caso si aveva lo scambio di un pegno, la sposa, per un’alleanza fra grandi famiglie come è stato detto passim. Allora sì che tutto andava organizzato alla grande e, nel passare al cristianesimo, nessuna autorità osò pertanto abolire la sequela rituale di questo tipo di matrimonio in modo così completo e in una misura tale da non riconoscervi ancora oggi per grandissima parte gli usi pagani antichi.
Comunque sia il matrimonio cattolico si svolgeva così, in particolare servendoci per semplicità della descrizione dell’antropologo M. Aime (v. bibl.): «I due futuri sposi entrano in chiesa, ciascuno a braccetto di un genitore, come a segnare l’appartenenza alla famiglia d’origine. Poi si staccano dai genitori [separazione] per partecipare, insieme, al rito vero e proprio [liminalità]. Infine lasciano l’altare a braccetto, per rientrare nel gruppo di amici e parenti [riaggregazione] con uno status nuovo, quello di individui sposati.» Abbiamo preso in prestito le parole di uno specialista per mettere in evidenza che per i cristiani il matrimonio era un rito di passaggio e nelle parentesi quadre infatti compare la terminologia antropologica relativa agli stadi che si passano affinché il rito sia valido.
Prima di arrivare gli sponsali però ci sono altri “riti di passaggio” che l’uomo deve subire durante la vita nella società slavo-russa del X-XII sec. e tali riti, lo confermiamo subito, sono frequentemente collegati col sesso maschile piuttosto che col sesso femminile.
La gravidanza ad esempio andrebbe vista come il passaggio della donna a madre col suo frutto offerto alla società già esistente. Non solo ciò non è e questo rito di passaggio manca, ma come rammentiamo ancora una volta il parto, la nascita, la morte perinatale etc. vagano nell’oscurità degli eventi ignorati e da ignorare in generale. E così se il neonato è maschio è un conto, se è femmina corre il rischio di essere eliminato fisicamente. E non basta. Siccome appare nella credenza popolare che la donna potesse generare senza l’ausilio maschile, ancora oggi si crede che atti inconsulti possano indurre una gravidanza non desiderata e non decisa dalla donna. Ad esempio i piselli sono legumi che “portano la gravidanza” poiché pieni di amido che “gonfiano il ventre” e quindi si evita di mangiarne! Pure l’acqua che sgorga da certe fonti ha lo stesso effetto e le russe di oggi leggono e rileggono con attenzione l’etichetta dell’acqua minerale acquistata nei ristoranti e, senza saper perché, volentieri nel dubbio preferiscono succhi di frutta…
C’è da dire inoltre che, seguendo il fil rouge del maschio unico membro della verv’ al quale si applicano solenni riti di passaggio, dopo la nascita il neonato maschio fino alla pubertà in pratica non esiste. Ed è appunto la pubertà, il primo rito di passaggio che matura con le prime polluzioni verso gli 8-9 anni e che viene celebrato sotto forma di postrig ovvero della prima tonsura dei capelli, mentre non si tocca la peluria sulle labbra che si vede pure apparire. Il rito rappresenta il culmine raggiunto dal ragazzo nello sviluppo fisico che ora può accedere all’azione pedagogica (paideia) dell’autorità adulta di sesso maschile. Qui imparerà l’assoluta obbedienza al più anziano e potrà passare alla gestione autonoma delle proprie abilità fisiche comprese le attività sessuali. Di solito il postrig nel mir è un’iniziazione rituale collettiva poiché, non esistendo il concetto di adolescenza né un registro delle età anagrafiche, le verv’ del villaggio mettono insieme una parata di giovanetti abbastanza mista quanto a età e parentela e se ne fa una festa orgiastica di allegria per tutti giacché il rito è pure l’entrata del giovane nell’economia della verv’ stessa. E siccome si tratta di un rito iniziatico maschile, essa è stata assimilata nei Balcani di ascendenza latina ai Lupercalia romani. È la festa dei Koljady o, in rumeno, del Colindat (I. Ghinoiu, v. bibl.) in cui i ragazzi ancora celibi nudi e armati di falli di legno invadevano strade e piazze assaltando le donne battendole e cercando di copulare col fallo sempre eretto ben in vista.
Il bimbo insomma a questo punto deve aver abbandonato definitivamente i pochissimi giocattoli: armi di legno per i bimbi dell’élite militare e vanga pure di legno per i figli dei contadini e ora dovrà impugnare arnesi (e armi) veri e propri.
E la bambina? Non subisce il postrig anche perché i capelli lunghi da sempre sono la caratteristica sessualmente distintiva e attrattiva della donna. Il segnale di raggiunta pubertà è il menarca che appare chiaramente intorno ai 12 anni in media nella Pianura Russa di 1000 anni fa. I suoi giocattoli? Il fuso e il telaio. Non c’è però alcun rito di passaggio collettivo e pubblico per lei, ma si evidenzia la nuova condizione fisica in casa, quasi di nascosto, abituandola ai tantissimi pregiudizi che la circonderanno sempre vivi sul sangue mestruale.
Con queste età rispettive i due sessi ad ogni buon conto erano ora fra coloro che potevano partecipare alle decisioni collettive della verv’ e del mir e potevano perciò far progetti di vita in comune pronti agli sponsali.
Anzi, ritenendo giustamente che la copula fosse importante saperla ben gestire, le bambine puberi sembra che fossero educate a perdere prima d’ogni altra cosa la verginità (rottura del imene) imparando a copulare affinché da spose fossero in grado di accontentare il partner.
Siccome poi l’orgasmo femminile è molto più elaborato e più lento da raggiungere di quello maschile, possiamo presumere che l’unico modo per goderne in tranquillità, salvo la copula, fosse la masturbazione solitaria o in coppia o in gruppo, come d’altronde i racconti popolari ci hanno trasmesso persino in riferimento alle monache e alle converse dei conventi nel XI sec. sorti qui e là nella Pianura Russa. Si pensi a Roghneda di Polozk, consorte di san Vladimiro, che ripudiata per cedere il suo posto di prima moglie a Anna di Costantinopoli, fu rinchiusa nelle vicinanze di Minsk nel convento per lei fondato col figlio Izjaslav e dove risiedette da badessa fino alla morte.
E malgrado ciò, come mai allo stadio considerato adulto, sposata e sottomessa riceve dal consorte il titolo piuttosto lesivo di ogni diritto di parità fra i sessi di piccola anima in russo maloduha o in altre parole di stupidina?

Bibbia di Velislav (XI sec.) con una ragazza in età da sposare

Innanzitutto gli scossoni ideologici e narratori che alle antiche norme sulle relazioni intime il cristianesimo tenta di inferire partendo dall’unione di maschi slavo-russi battezzati con spose pagane dell’estremo nord, ebbero pochissimo successo per il fatto che, come dianzi scrivevamo, i matrimoni non avevano in sé gran peso sociale. Ciò che contava invece era l’economia della verv’ fragile e delicata e perciò sensibilissima all’entrata e all’uscita dei suoi membri viventi.
Nei racconti popolari gli sponsali hanno un eco minimale. Nelle byliny l’eroe non si sposa con la bella che ha liberato, come accade nei racconti edificanti montati dalla letteratura controllata dalla chiesa, ma ne conquista prima di tutto le ricchezze. Quanto poi ai legami incestuosi, anche qui l’elemento economico domina e in certi racconti (certamente rispecchianti vecchi costumi) la madre ha rapporti sessuali col figlio allo scopo di costringere il figlio a mantenerla quale madre del di lui figlio e quale sua consorte probabilmente sentendosi costretta in un ruolo passivo e di impotenza.
In generale il folclore con la cristianizzazione forzata ha dipinto la donna nelle byliny da essere inaffidabile e demoniaco tanto che essa si batte con successo contro gli eroi maschi. Travestita con la pelle di un animale addirittura sfugge a matrimoni indesiderati facendosi piuttosto rapire dall’animale maschio corrispondente alla pelle che essa indossa.
In conclusione il matrimonio pagano solenne celebra un’alleanza economica (a volte militare) fra due mir, e implica, da rito di passaggio femminile ossia da stato di amore libero da legami a impegno con un intero mir, lo scambio del pegno ossia il trasloco di una donna (o di donne, se i matrimoni fra i mir o le verv’ si incrociavano) dalla casa natale a quella del consorte. Chiaramente si celebravano almeno due feste, ciascuna nel mir rispettivo, o, ma rarissimamente (vaghi accenni imprecisi nei documenti ecclesiali), una festa grande al santuario del rod.
C’è però un altro tipo d’accoppiamento, se non vogliamo chiamarlo matrimonio, ed è quello di assicurarsi compagnia a letto con il passaggio da una verv’ all’altra della prevista sposa nello stesso mir. Gli sponsali si riducevano allora a un bel potlatch in piazza dove locali e viandanti casuali erano benvenuti purché augurassero felicità agli sposi (la parola augurante valeva più del dono materiale!).
Le occasioni per prendere accordi fra gli anziani di mir diversi, malgrado la limitatissima disponibilità a viaggiare, non mancavano durante l’intero anno giacché ci si incontrava di sicuro nelle solennità del rod, anziani e giovani, donne e bambini e qui ci si informava gli uni degli altri su salute, sui risultati di esperimenti in campo agricolo e tecnico in generale o su come aver ottenuto con la selezione degli animali da stalla o da cortile migliori o dei semi che davano rese maggiori etc. In più una buona amicizia poteva sfociare in una parentela e così nei casi di stress quali carestie, morie, guerre, razzie etc. potersi appoggiare o aiutare l’un l’altro. Di qui la voglia fra mir di allearsi su queste topiche e gli standard contrattuali del tempo prevedevano che si generasse un legame più stretto tramite l’impegno “matrimoniale” della generazione successiva rappresentata da due giovani liberi, ciascuno appartenente alla verv’ del mir rispettivo interessato.
Il rituale iniziava col rivolgersi di solito a una coppia residente in uno dei mir che avesse una buona nomea nel rod per incaricarsi di trovare e “apprezzare” i “promessi sposi”. La coppia, svat+svaha, cominciava i suoi giri visitando le case dove c’erano figli da sposare, esaminava i candidati nelle condizioni fisiche attuali e allo stesso tempo si rendeva conto della loro situazione economica nelle relative famiglie. Con una ghirlanda di nomi e di descrizioni finalmente i mediatori di matrimonio facevano le proposte dei partner possibili rilevando soprattutto i risvolti economici in cui l’amore c’entrava poco o per nulla. I candidati tuttavia prima del sì finale dovevano sottostare all’esame dell’una e dell’altra verv’ coinvolta per cui si procedeva ai cosiddetti smotriny (esame visivo) con lo scambio di reciproche visite dei genitori. La visita comportava sempre un bagno purificatore nella banja dell’ospitante e in quel momento gli smotriny erano effettivi e efficaci almeno dal punto di vista visivo per la decisione ultima. Questa era la conclusione del primo stadio o svatovstvo (promessa di matrimonio).
Spesso, specie nel nord della Pianura Russa, si lasciava che un promesso fosse ospite della verv’ della promessa durante la quiescenza della stagione invernale affinché i due in ogni maniera familiarizzassero. Era fuori luogo il contrario cioè la promessa a casa del promesso giacché la donna era alla fin fine il pegno vivente e a non poter “uscire di casa” se non da sposa. Ad ogni modo il periodo di prova, ben noto e praticato in tutta l’Europa, assicurava un consenso più convinto dei nubendi. Nell’estremo nord infatti l’esogamia era rispettata in modo più rigido che nel sud poiché per i nomadi cacciatori ugro-finni della tundra non esistevano i villaggi stabili e per ogni tenda (čum) una famiglia contava al massimo una decina di persone. L’aumento dei membri famigliari metteva subito in crisi l’assicurarsi cibo sufficiente con la caccia o l’allevamento delle renne poiché le derrate alimentari agricole costavano care e, se le attività incestuose si tolleravano, non dovevano portare mai a gravidanze. Dunque una figlia era da dare in moglie fuori del čum e ciò concettualmente era impensabile nel caso che la figlia fosse nata da un incesto! Un giovane del sud era meglio di ogni altro aspirante poiché eliminava la concorrenza per le risorse grame da sfruttare nella tundra…
Se un padre aveva più figlie da maritare, i mediatori avrebbero potuto anche trovare dei partner per le sorelle della promessa in altri mir purché si rispettasse la priorità della sorella di maggiore età. Le persone-chiave per ottemperare alle esigenze restava in ogni caso lo svat e la svaha che non erano soltanto noti per serietà ma 1. conoscevano bene i riti e i loro svolgimenti canonici e 2. erano in contatto fiduciario con gli antenati (vivi e defunti) che avrebbero avallato ogni loro scelta. D’altronde, visto che si trattava di mir che appartenevano allo stesso rod, gli antenati navi o dedy, erano in ogni caso gli stessi e i promessi andavano loro presentati in qualche modo. Insomma la famosa esogamia praticata dagli slavi alla fine non era che una endogamia allargata. Anzi, più che allargata, giacché occorre qui notare che l’adozione di orfani o trovatelli rendeva questi ragazzi membri della verv’ dei genitori adottivi e in più, se dobbiamo credere a ciò che raccontava il vescovo goto Jordanes (Jordnand) del VI sec. che gli slavi affrancavano i loro schiavi dopo un certo periodo concedendo loro l’opzione di entrare nella verv’ dell’ex padrone, ecco che entrava in circolo, come si dice, sangue nuovo e come si producevano nuovi improbabili meticci.
E che fare se il “legame matrimoniale” non stava più in piedi? In realtà non potevano teoricamente esistere casi del genere per tutto quello che abbiamo scritto fin qui così come, se in occidente fu di moda far passare in processione l’adultera colpevole di aver messo in forse un sacro legame matrimoniale svergognando la donna nuda per la strada centrale dell’abitato, una misura simile non aveva alcun senso nel mir né l’etica all’interno della società contadina perciò per l’adulterio e le sue conseguenze non mutò se non con estrema fatica con le nuove leggi cristiane. Sia come sia casi di adulterio se ne configurarono e furono discussi presso l’autorità politica suprema con la giurisdizione cristiana. Jaroslav e il figlio Vladimiro Monomaco suo successore furono costretti a farne conto poiché i giudici religiosi dominavano, ma si ricorse più volentieri alla multa. Purtroppo molti elementi economici tipo proprietà personali mobili e immobili mancavano per poter giustificare pesanti multe o sequestri oppure punizioni corporali debilitanti e quindi l’adulterio, la voglia di sciogliere il legame matrimoniale et sim. alla fine diventarono aberranze sessuali che rendevano impura la donna e da trattare come tali. Comunque sia il problema giuridico esistette esclusivamente nelle città e presso le classi più abbienti che erano danneggiate maggiormente dall’adulterio. Fino al momento in cui nel XIII sec. iniziò l’invasione dei cavalieri crociati sulle rive del Mar Baltico i vecchi costumi pagani nel fitto della foresta della Pianura Russa in breve restarono in vigore ben oltre il XV sec.
Non andremo oltre a discutere sugli sponsali e diciamo che gli officianti dei vari passi rituali materialmente da compiere fino alla dichiarazione finale che sanciva il legame di coppia, restavano svat e svaha e gli aiutanti da loro selezionati. Questo gruppo ufficiale di persone finalmente con la stagione buona prima che i lavori agricoli o la pesca sul Mar Glaciale Artico o sul Mar Baltico iniziassero, preparavano la cerimonia rituale del matrimonio pubblico nei suoi dettagli o svad’ba con estrema accuratezza che si sarebbe celebrata ben due volte: ora nel mir di lui ora nel mir di lei. Queste persone naturalmente col cristianesimo diventarono servi del demonio e con gli anni furono costrette a sparire o a ridursi a semplici teatranti.
E il divorzio o il ripudio? Per i cristiani non esisteranno in teoria, ma la chiesa ammetterà degli opportuni espedienti.
Ed ecco una testimonianza tarda, XVII sec., di un famoso viaggiatore tedesco, Adamo Oleario, colta nei dintorni di Mosca (J.S. Rjabcev v. bibl.) che servirà al nostro lettore a vedere che non era cambiato granché nei costumi 5 secoli dopo il battesimo della Pianura Russa, mentre in Europa occidentale fervevano i tentativi con i protestanti in prima fila di emancipare e liberare sessualmente la donna e la società.
«Ai giovani maschi e alle giovani donne non è permesso far conoscenza l’uno con l’altra da soli e ancor meno parlare di eventuale loro matrimonio o concludere [alcunché su tale questione]. Al contrario quei genitori che hanno figli adulti e che desiderano maritarli, nella maggioranza padri di giovani donne, si reca da chi, secondo lui, può essere degno delle sue figlie, ne parla o direttamente o con i rispettivi genitori e amici e fa sapere della sua disponibilità, del suo desiderio e della sua opinione riguardo al matrimonio [eventuale] dei suoi figli […] Solitamente tutti nobili e quasi nobili istruiscono le proprie figlie tenendole rinchiuse in una stanza [lontane] dagli sguardi della gente e il loro promesso vedrà la promessa non prima di essere insieme [da sposati] nella camera nuziale. Per questo [capita di ingannare lo sposo] e invece di una bella ragazza gliene dà una brutta e malata, [addirittura] talvolta neppure sua figlia e [al posto di quest’ultima] vi mette una di lei amica o una servetta. Questi tiri mancini sono ben noti da parte di persone altolocate e quindi non ci si deve meravigliare che marito e moglie [russi molto spesso] appaiano vivere come cane e gatto
Il tempo poi scorreva e arrivava la naturale morte che nel quadro pagano (ma pure cristiano) medievale era tutt’altro di quello che se ne dice oggi nella cultura giudaico cattolica.
Prima di tutto come si mostra la morte di un essere umano senza porre il dubbio del risveglio da un lungo sonno? E il sonno infatti non è forse lo stesso che morire? E come si dimostra che la morte è un evento naturale? Le risposte nel mondo pagano del nordest europeo sono per la stragrande maggioranza espresse ed elaborate con la fantasia del folclore e sono disparate. Ciononostante quelle che noi riscontriamo nel mondo contadino contengono tutte solide basi empiriche, rapportate logicamente alle conoscenze della fisiologia umana di 1000 anni fa, e quando arrivò il cristianesimo il suo credo non fece altro che aggiungere miti a miti, ma nessuna spiegazione migliore di quelle date dagli antenati. Non tutta la Pianura Russa però è omogenea sulla questione di che cosa realmente accadesse all’individuo che moriva. Infatti la scienza medica riverberata dal Centro Asia su Bulgar-sul-Volga e su G. Novgorod pur osteggiata dall’oscurantismo della chiesa russa qualche concetto più scientifico di altri lo lasciò scivolare fra la gente comune attraverso le dicerie dei mercanti nelle piazze di quelle città.
Gli sciamani del nord pre-uralico affermavano che la morte è uno stato di sonno molto lungo che prevede in qualsiasi caso un risveglio. Anche loro a volte sperimentavano tale stato come pure i molti animali che cadevano in letargo, vedi l’orso. Probabilmente, diceva lo sciamano, lo spirito che albergava nel corpo del defunto aveva perso la strada per ritrovarlo. Lo sciamano assicurava di esser capace di rintracciare lo spirito e parlargli, se qualche parente del defunto con ragioni concrete per un aiuto o altro bisogno impellente glielo avesse richiesto (B. Brentjes & R.S. Vasilievsky v. bibl.).

Sciamano del nordest che indossa i paramenti ritrovati in una tomba dell’età del ferro in zona pre-uralica, riproduzione museale

Sia come sia data la brevità della vita media di 1000 anni fa e la mancanza di difese immunitarie o farmacologiche era impossibile restare ammalati a lungo e appena la degenza superava un certo limite (7 giorni?) la spiegazione era che una nečistaja sila troppo forte per combatterla con erbe curative o altre arti mediche e magiche si era impadronita del malato che a questo punto non era più recuperabile. In tal caso gli si costruiva una capanna nel fitto e lì lo si abbandonava. Lo stesso accadeva per chi era impedito nel lavoro assegnatogli nella verv’ per decrepitezza dovuta all’età.
Insomma la morte, distinguiamola se vogliamo pure con l’aggettivo naturale, non era vissuta dai parenti in maniera diretta, salvo che non fosse improvvisa o in caso di sacrificio cruento o in un giudizio che includesse una pena corporale. Ma con i suddetti presupposti come si distingueva un corpo vivo da un cadavere? Possibilmente dal fatto che il vivente si muoveva e il morto invece era immoto mentre l’auscultazione del respiro si ignorava e non era discriminante.
Accertata la morte ad ogni modo, il cadavere dalla casa era passato fuori non per la soglia giacché la porta era riservata soltanto ai vivi, ma da una finestra ritagliata giusto per quei frangenti in quelle ore e traslato con i piedi verso l’esterno e la testa in casa. E infatti in certe aree dove le città, gorod, erano lontanissime constatiamo che la meta della salma non era una fossa o la palude, ma la pira e l’incinerazione restò un rito che persistette per decenni prima che l’inumazione prevalesse. Le ceneri del cadavere bruciato con le sue poche cose personali erano sparse nel vento o magari serbate in un’urna. In certe altre località l’inumazione fu accolta senza remore perché di routine, ma come obbligo religioso e collocando i cadaveri nella foresta affinché non si sottraesse terreno da coltivare.
Ibn Fadhlan assistette al rito funerario a Bulgar-sul-Volga per la morte di un capo varjago. Quando chiese come mai il corpo del defunto invece di seppellirlo lo bruciassero, gli fu risposto che il fumo della pira, traendolo dal cadavere, restituiva rapidamente agli dèi lo spirito. Se invece lo avessero seppellito, ci sarebbe voluto più tempo per il suo viaggio.
In realtà la ragione per procedere alla cremazione nasconde il timore che il morto potesse ritornare e scompigliare il nuovo ordine ereditario. Quel che ci preme qui però è far notare che sulla pira brucia insieme al capo varjago anche la sua favorita rammentando l’antico rito vedico-indoeuropeo del satti che è stato vietato in India pochi decenni fa. Chiaramente nel regime maschilista pagano non risulta che il consorte si sacrificasse sulla pira della consorte morte poiché ne manca menzione nei documenti. Tuttavia che una donna potesse suicidarsi per amore del consorte morto è ammissibile, ma raro almeno nei racconti popolari. Per giunta non c’è nel cosmo slavo-russo un esatto e vero equivalente dell’anima cristiana insufflata dal creatore nell’uomo e il corpo in movimento cioè vivo era tale perché ospitante in tutti i casi lo spirito entrato nel corpo della donna sua madre quando questa lo aveva chiesto e gli dèi dopo aver acceso una stella nel cielo lo avevano mandato in prova! Ora questo spirito, dopo aver lasciato il suo corpo per un ignoto motivo e non volendo o non potendo rientrarvi, aleggiava nei dintorni di casa per 40 giorni in attesa che finalmente Mokoša o Mara stessa lo accompagnassero nel viaggio verso il paese degli antenati che lo aspettavano. Il mito raccontava che il paese dei morti antenati, in russo chiamato Irii dove abitava Svarog e faceva sosta il carro del sole durante la notte, si trovava al di là dell’oceano primordiale che circondava la terra abitata e fra camminate a piedi e navi da prendere per attraversare fiumi e laghi, il tempo occorrente era tantissimo e tornare indietro impossibile. Questa è una delle versioni mitiche sulla geografia dell’Aldilà…
Anche per le donne si celebravano più o meno gli stessi riti funebri, pur tenendo presente che in media le donne solevano vivere degli anni di più dell’uomo. C’è da notare che con l’inumazione e col cristianesimo l’unica moglie permessa alla sua morte doveva esser deposta accanto al marito nella stessa tomba. E come fare se le prescrizioni di un concilio del IV sec. avevano imposto che il cadavere femminile in tal caso dovesse disfarsi completamente nei suddetti 40 giorni dalla morte affinché non risvegliasse i bollenti spiriti necrofili del cadavere maschile (cit. da F. Valitutti & D. Verdegiglio v. bibl.)? Era credenza infatti che lo spirito del defunto finché ci fosse carne attaccata alle ossa potesse far risvegliare la propria salma e trasformarsi in upir o vampiro anche detto morto-non-morto e infastidire sessualmente le donne. Purtroppo gli annalisti delle CTP s’interessano poco o per nulla della morte di donne e, nel caso, esclusivamente di quelle altolocate, ma senza descriverne la cerimonia funebre e non riusciamo a sapere se e come si ottemperasse agli obblighi rituali detti, sempreché li si attuassero.
Nelle CTP “kievane” qualcosa più generale sulle cerimonie funebri per le élites si trova, ma non i particolari che noi vorremmo. Così negli scavi nella chiesa della Decima di Kiev, secondo gli archeologi che vi hanno lavorato, si ritrova il sarcofago di pietra dove furono traslati i resti di Olga di Kiev quando la chiesa fu costruita dal di lei nipote san Vladimiro. Leggiamo nelle CTP in ambiente ancora pagano che «Nell’anno 6477 (969 d.C.)… Olga morì e la piansero con gran dolore e suo figlio e i suoi nipoti e tutta la gente e la portarono e la seppellirono all’aperto.» Il cadavere di Olga è stato recuperato poiché quello del consorte Igor morto molto tempo prima era stato dilaniato e distrutto in una faida, ma saremmo stati curiosi di sapere quale soluzione avrebbe trovato la chiesa russa se i due coniugi avessero giaciuto l’una affianco dell’altro.
Nel 1000 d.C. muore una non ben identificata Malfrida e pure Roghneda di Polozk, la prima consorte pagana di san Vladimiro, e anche qui niente sappiamo dei suoi resti probabilmente inumati nel convento. Quanto poi a Anna, sorella dell’Imperatore Basilio II detto l’Ammazzabulgari (Bulgaroctonio) e che aveva rimpiazzato Roghneda da unica consorte di san Vladimiro nel 998, nulla si sa della sua sorte…

Ljuban’, prov. di Minsk, Bielorussia, dall’archivio personale dell’autore

Non andiamo oltre nelle notizie funerarie, ma è notevole che un giudizio finale con il rito della richiesta di perdono al creatore con la cosiddetta estrema unzione cristiana per i morti e per le morte nel paganesimo non era previsto. Quando si nasceva si riceveva una dolja o destino al di fuori della quale nessuno da solo avrebbe mai potuto agire per il bene o per il male, salvo che non fosse sotto un incantesimo o invaso da una nečistaja sila. Tuttavia resta caratteristico e ne riferiamo, sebbene crediamo che sia un rituale importato, c’era l’uso di munire la salma di una letterina che ricorda al creatore ciò che il defunto ha fatto di buono da vivo e come tutti i suoi pregheranno per lui invocandone il perdono. Al defunto comunque si conservava il posto nel turno della distribuzione del cibo nella cena quotidiana (užin) e ancor oggi quando il seppellimento nei cimiteri è obbligatorio per legge si rispetta in Ucraina e in Bielorussia la credenza che il morto sia presente, seppur invisibile, durante i cosiddetti pominki ossia le ricorrenze funerarie della morte di parenti e amici. Si pranza tutti insieme sulla tomba dei coniugi nonni nel cimitero (v. la figura) e ci si mette in contatto con loro brindando e parlando dei nipoti e dei discendenti. Quest’uso è ben diffuso fra gli ortodossi dal Mar Nero all’Adriatico…
Si noti che ci si riferisce quasi sempre al defunto maschio (i tempi oggi sono cambiati e anche la defunta ha il ruolo di protagonista) e che i pominki sono più di uno durante l’anno! Anzi, secondo certe tradizioni devono ripetersi dopo 15 giorni, poi dopo 6 settimane e un 1 anno dopo, calcolati sempre dalla data della morte e questi ritmi vanno mantenuti per ben 7 anni! Se si trascurassero, il morto tornerebbe in vita mutato in upir.
Alla fine di questo viaggio, pur avendo trascurato di parlare di alcuni riti minori, per noi un punto è però rimasto oscuro: Il parroco, la chiesa intera una volta insediatisi nel cuore del mir, da queste cerimonie che ricavano materialmente? E quando il mir in questione diventa parte di un dominio al cui capo c’è un sovrano che cosa deve in più a costui oltre al tributo che già versa? Fino al XV sec. non ne sappiamo molto né possiamo quantificarle, ma le tasse sugli “atti pubblici” in forma di lavoro gratuito o in tessuti o in derrate alimentari o altro di sicuro ci furono. I documenti sono tardi e contraddittori su questi punti i, ma se nei tempi passati doni adeguati andavano ai sacerdoti pagani (volhvy) per i loro interventi nelle cerimonie relative, lo stesso deve essere avvenuto quando i preti cristiani rimpiazzarono volhvy e sciamani.
Per il matrimonio ci consta che, diventato pubblico in ogni caso, le famiglie dei nubendi non solo coprivano le spese dei festeggiamenti tradizionali, ma pagavano pure la parte di “servizio notarile” del prete officiante che offriva pure un’intera funzione religiosa con l’uso della chiesa e, se c’era, pure la benedizione speciale del vescovo.
Analogamente c’era un compenso per l’inumazione nel recinto consacrato della chiesa, mentre nei seppellimenti in foresta o nell’area del proprio dom tutto era “fatto in casa” e l’officiante era il capofamiglia o l’anziano del mir… Il prete? Lo si sarebbe chiamato dopo a benedire la lastra tombale!

N.B.: La bibliografia usata è disponibile su richiesta.

Aldo C. Marturano
Nato a Taranto, ha studiato nelle Università di Bari, poi di Pavia, infine di Amburgo, dove ha chiuso i suoi corsi di laurea in chimica industriale. Non ha mai lavorato come chimico e ha invece sfruttato le sue conoscenze linguistiche. Conosce infatti (parla e scrive correntemente) russo, inglese, tedesco, francese, spagnolo, ungherese e ne ha studiate un’altra decina che spera di portare a maggiore perfezione nel prossimo futuro. Si è diplomato in Lingua Russa all’Istituto Pusckin di Mosca dove ha avuto inizio la sua avventura nel Medioevo Russo. Lavorando sui mercati internazionali si era infatti appassionato al Medioevo, ma quando scoprì che non riusciva mai a sapere gran che su quello russo, colse l’occasione della tesi all’Istituto Pusckin e scelse di studiare un personaggio del Medioevo bielorusso, Santa Eufrosina di Polozk: di lì via via è entrato in quel mondo magico e nuovo.
Ha pubblicato il saggio storico in chiave divulgativa Olga La Russa, 2001 (che non è la sorella di Ignazio La Russa, per carità!), e poi per i ragazzi L’ombra dei Tartari, 2002, ovvero la saga di Alessandro Nevskii.
Altre sue opere sul Medioevo russo sono visibili nel portale delle Edizioni Atena.
Collabora attivamente con il portale Mondi Medievali curando la rubrica Medioevo Russo.

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