Romaniche licenze

05codiponte1Romaniche licenze Testo e immagini di Francesco Venturini

La chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Rezzago (CO, foto 1), che, al netto delle aggiunte cinquecentesche così come delle probabili e pregresse vicende paleocristiane, risale al dodicesimo secolo, è notabile, come la vicina chiesa di Sant’Alessandro a Lasnigo, almeno per il campanile (foto 2), i cui decori, ossia le dentate cornici marcapiano e i sottostanti archetti, Marcel Durliat (nota 1) definisce “cornice lombarda”, trovandoli affini a quelli che impreziosiscono il campanile dell’abbazia di Pomposa, opera del maestro Deusdedit, che è persona avvolta dal mistero.

Ma chi fosse poco interessato agli stilemi decorativi e più propenso, invece, a gustare quei dettagli del Romanico sui quali i severi studiosi, non meno dei celebrati maestri, tendono a sorvolare (non li odieremo per questo), si troverà impaniato in una stimolante quanto forse insolubile questione, che sulla facciata di questa chiesa ci propone una figuretta di tipologia rarissima sui monti sì cari a Lucia Mondella e ai due Borromeo, un pochetto più frequente a cavallo degli Appennini, per quanto si allunga la terra dei Santi e degli scultori.

Eccolo qui (foto 3), lungamente aggredito dalle intemperie e mal difeso dalla povertà della pietra, appena leggibile ormai e tuttavia fiero (ne ha motivo) come sentinella che le tempeste non spaurano. Si trova a ore una sopra l’oculo, il povero rosone di pauperrima comunità montana, inciso a mo’ di cammeo in un coccio bianco, essendo invece grigia la facciata.

Essendo che invece quest’altro (foto 4) si propone in tutta la sua venustà dal centro dell’architrave sopra la porta della navata meridionale (il lato dei vivi) della pieve di San Giorgio a Brancoli (Lucca), essendo pure che uno di quegli studiosi (sempre severi), ove ne fosse interpellato, senza esitazione o dubbio ci spiegherebbe la funzione apotropaica di entrambi i nostri omini, investiti della missione di tener lontani i mali, le carestie la peste e ogni brutta cosa, ne dedurremo forse che i forastici garfagnini fossero più urgentemente e acutamente flagellati che non i bigotti paleobrianzoli?

E invero per altri esempi saremmo autorizzati a supporre che la dorsale appenninica tosca fosse terra infesta agli umani, che tuttavia pervicacemente l’abitavano, ai tempi in cui gli ignoti scultori fornivano le lor prime e ancora acerbe prove: qualche breve passo in direzione dello spartiacque ci porterà alla pieve dei Santi Cornelio e Cipriano a Codiponte, in Lunigiana (foto 5). Qui troveremo ben quattro omini, ma asserragliati dentro la chiesa, ciascuno su una faccia dello stesso capitello e tutti ugualmente fieri della propria funzione e dello strumento sufficiente e necessario a svolgerla. Se non che dell’istrumento tre di essi furono con violenza privati, e sol uno risparmiato (foto 6 e 7). Avventurandoci di nuovo in deduzioni, dovremo pensare che i pericoli dai quali essi facevano scudo si vennero via via diradando?

Per trovare altri quattro omini basta una passeggiata di duecento chilometri, o poco più, che ci porti alla pieve di San Pietro a Gropina (Arezzo). Di più giocondo aspetto, questi, protesi agli spigoli del capitello, quali scudieri spavaldi dei loricati cavalieri che procedono a battaglia (foto 8, 9 e 10). Della lor protezione bene alata assai necessitavano per vero i cavalieri, e i fanti pure, in questi luoghi che stanno a mezza via tra Montaperti e Campaldino, e poco sotto il Pratomagno dove il diavolo defraudato da una lacrimetta macchinò tregenda al povero Bonconte già defunto (Purg. V). Perché anche il diavolo ci si metteva, e neanche da morti si poteva stare tranquilli, senza gli omini. Resterebbe da capire, a meno che si trattasse di toscana usanza la cui documentazione mai ci pervenne, come mai tre su quattro siano stati mutilati, qui come a Codiponte, solo intatto rimanendo (qui e non colà) quello che guarda la porta, e per primo accoglie la luce e i fedeli.

Ma altro ancora verremmo capire, e forse mai potremo.

Per esempio: quale messaggio portava quest’altro, dal suo capitello nella chiesa della Santa Croce a Parma, quando gli oranti alla messa ancora intendevano rivelazioni siffatte? (foto 11)

E questo, invece, sette chilometri a occidente, nella parrocchiale di San Geminiano a Vicofertile (foto 12)? La toponomastica contadina potrebbe aiutare, suggerendo, a chi abbia orecchie per intendere le parole di pietra, un auspicio di ricca messe? In quella Europa ancora contadina tutti erano ansiosamente interessati a messi e raccolti di ogni sorta. Anche le monacelle ortolane, nella miniatura che impreziosisce una delle prime edizioni del Roman de la Rose, terminato da Jean de Meun intorno al 1280 (foto 13, da web).

Non ci stupiremmo, quindi, se dalle stesse cure fosse agitato il personaggio dal contadino aspetto (foto 14) che abita una delle celebri formelle sopra il portale di Santa Maria a mare in Giulianova (Teramo, foto 15).

Non stupirà neppure la plastica disinvoltura del gesto: siamo ormai agli inizi del sec. XIV, e contempliamo un’opera di mano maestra (taluni studiosi suggeriscono Raimondo di Poggio o di Podio, tale la firma sul portale del duomo di Atri).

Celebrati maestri e lapicidi oscuri forse un tratto accomunava, un grumo di cultura plebana che essi tutti traevano dalla scienza degli avi, dialetto ignoto alle scritture. La quotidiana fatica si riscattava in giocosa licenza, che le autorità laiche non men che religiose tentavano instradare entro regole e tempi di sterilizzato carnevale, svuotando licenza e cultura dei contenuti anarchicamente pagani, di paganesimo preistorico.

Di questo paganesimo innocente in quanto inconsapevole, e inconsapevole in quanto radicato ab illis temporibus nella cultura dei pagi, come documentato per esempio da Carlo Ginzburg (nota 2), o da Adriano Prosperi (nota 3), e condiviso dai preti contadini al pari dei loro parrocchiani, è testimonianza unica (o poco ci manca) la chiesa di San Secondo a Cortazzone (Asti, foto 16), dove si dimostra pure che la licenza non era sempre licenziosa. L’omino acrobatico privo di biancheria (foto 17), e la sua offesa sineddoche (foto 18), trovano auspicato compimento nell’atto creatore (foto 19), nella vita trasmessa dagli esseri umani come dagli animali (foto 20), che agli umani sono necessari. Si parla di sopravvivenza, non di peccato. Il tutto anche qui, naturalmente, sul muro esposto a sud.

Qualche dubbio al proposito può insorgere, invece, nell’animo stupito di chi, ignaro, si abbatta nelle due figurine che fanno da telamoni all’architrave della porta di San Celso a Milano (foto 21). Il pudico che scrupoloso e quasi spaurito occulta le vergogne, come usò dire la upper class meneghina da Sant’Ambrogio al Sessantotto compreso, e l’impudico (foto 22) che altrettanto scrupoloso le ostenta (ne fu castigato, come altri già visti, da rabbiosi colpi di scalpello), dovrebbero significare continenza e lussuria, virtù e peccato: sarebbero insomma didattici e cristiani, perché non basta la predica e non c’è come l’esempio, per le fanciulle che non conoscono l’uomo. Non divaganti, in ogni modo, e neppure apotropaici. Rimane da prendere atto, se così è, che tale didattica ben poco si imprimeva nel sasso perenne, dai seriosi progenitori degli sposi promessi. Settentrionali danarosi e plumbei, andavano sul sodo e non si dilettavano di celie sia pur da lontano allusive, sicché quasi niuna ne giunse a noi.

Avrebbero sicuramente distrutto, quei borromaici cumenda, tutti i delicati enigmi del Maestro Raimondo, che non s’impancava a didatta e giocava piuttosto con polisemiche figurine (foto 23, sempre a Giulianova).

E bisogna tremare al pensiero delle martellate che avrebbero inflitto, loro aristotelici e brumosi, ad altre figurine, come quelle che infiorano l’estradosso dell’arco, sul portale della cattedrale di Santa Maria Assunta (ma anche di San Canio Vescovo) ad Acerenza (Potenza). Le quali sono meno polisemiche (erudito aggettivo che nel linguaggio degli eruditi confessa l’incapacità di estrarre un senso da ciò che pur chiaro appaia), e tanto più spensierate e noncuranti della didattica.

L’omino che troviamo qui, chiuso nel giro del suo tralcio, si ingegna di evaderne per luogo più ameno, ovvero il giro superno del tralcio medesimo, dove abita colei che ameno lo rende (foto 24). Sarà forse ipotesi politicamente scorretta che sia lei a porgere il bel piè, come tal altra la treccia dal verone, e corretto invece pensare che il maschio non autosufficiente si aggrappi alla salute già disperata ed infine apparsa, con i capei d’oro a l’aura sparsi. A vietare una eventuale lettura scritturale della scena (in chiave di Genesi) è la maggior discrezione sempre mostrata dai progenitori in materia di dettagli, ma anche l’inclusione nella cornice del tralcio abitato, ove abitano però le meraviglie del possibile e non le verità rivelate.

Noteremo infatti come altrettanto meravigliosa sia la danzatrice (foto 25) ancorché vestita senza spiragli. Addobbata però di coroncina vezzosa e di maniche infinite, all’ultima moda della lussuriosa Provenza, e accompagnata dall’orchestra (foto 26). La cultura cortese e cavalleresca, diffusa dai popolareschi cantastorie non meno che dagli aristocratici poeti, sciorinava un mondo di sogno a laici e chierici, ove qualcuno sapesse rappresentarlo in parole immagini o musica, ovunque i chierici non trovassero peccaminoso condividere gli interessi dei loro parenti laici, di solito benestanti se non anche feudatari.

La cultura, si sa, aiuta a meglio apprezzare le gioie della vita, se non è la cultura dell’inquisitore. Sono certo intenditori di arti musicali e coreutiche, e quindi da esse ispirati, i due contigui alla danzatrice, della quale la donna affettuosa condivide l’abbigliamento (foto 27). Non sarà poi lei che, muovendo in senso antiorario e tralasciato l’abbigliamento e il barbuto compagno, ma non l’acconciatura, si offre strumento di tentazione e di salvezza al povero ma giovane omino della foto 24? Dopo tutto, la cultura cortese invitava a benevolmente considerare le profferte amorose. E vogliamo mettere, last ma non certo least, l’acquisito diritto della donna ad esibirsi quanto e, oh quanto, meglio dell’uomo? Solo nel profondo sud si poteva vedere.

Bibliografia

  • Durliat: L’arte romanica, Garzanti
  • Ginzburg: I benandanti, Einaudi; Storia notturna, Einaudi
  • Prosperi: I tribunali della coscienza, Einaudi (cap.

Cliccare sulle immagini per ingrandirle

Francesco Venturini
Nato nel 1950. Per molti lunghi anni docente di materie letterarie in un liceo. Ora dedito a interessi vari e per la maggior parte innocenti, come l’esplorazione di chiese romaniche, delle quali parlo ai miei coetanei nelle Unitre.
Scrivi a Francesco Venturini.
CATEGORIE
CONDIVIDI SU
Facebook
Twitter
LinkedIn
Pinterest
WhatsApp
Email
Stampa
My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.