San Pietro a Alba Fucens

15Una storia di abati, di artisti e di predoni. San Pietro ad Alba Fucens. Testo e immagini di Francesco Venturini

Non esiste più il lago dal quale prese nome la colonia romana di Alba Fucens, oggi frazione del comune di Massa D’Albe (L’Aquila), il lago lucente, secondo un poeta greco nato abbastanza presto per vederlo, ma il monte Velino resiste ai prosciugamenti e ai terremoti, e lo scabro massiccio è uno degli sfondi più belli coi quali un moderno viandante si possa consolare delle perdute bellezze, se si accontenta (foto 1).

Da un’altura si contemplano i resti delle antiche glorie, le colonne rimaste e gli avanzi dei muri. Come dice Stendhal, servono alla memoria, ma annoiano (foto 2).

Volgiamo quindi le spalle alle antichità più estenuate, e saliamo il colle dominato dalla minore, ma restaurata, antichità della chiesa di San Pietro (foto 3).

Avvicinandoci al portale che offre l’ingresso attraverso la poderosa torre ricorderemo di aver letto essere cinquecentesco tale elegante manufatto (foto 4), prodotto quindi di uno dei numerosi interventi che si susseguirono da quando i fedeli rinnegarono Apollo, che un tempo ivi era Signore, e da quando le volontà degli uomini e dei fati (tre o quattro terremoti almeno) imposero nuove forme al tempio pagano.

Noteremo che il portale si apre a oriente, e di conseguenza l’abside si ammanta del sole occiduo (foto 5), il che è davvero insolito. Superato il vestibolo, aperto ai lati da archi a tutto sesto, tardo per essere mai stato nartece, rendiamo grazie infine all’insigne Raffaello Delogu per la meraviglia che ha saputo restituire.

La navata centrale è fiancheggiata dal duplice filare di alte, raffinate colonne dai capitelli corinzi (foto 6). Pare che qualcuna sia superflua al compito che è delle colonne, dato che non sorregge nulla (foto 7), e si capisce perché poche ne siano rimaste, giù nella valle. Bisognerebbe conoscere esattamente le vicende che portarono la chiesa ad assumere l’aspetto che oggi ammiriamo, e che risale al dodicesimo secolo. Bisognerebbe conoscere anche i dettagli della ricostruzione esemplare condotta negli anni cinquanta del secolo ventesimo dal sullodato studioso, e dei relativi recuperi dell’arredo scampato al terremoto ultimo e più rovinoso, del 1915.

La straziata riflessione sui probabili capolavori perduti è almeno parzialmente ristorata dalla contemplazione dei capolavori sopravvissuti, e ricollocati dove li collocarono gli artisti, dove li vollero i vescovi conti dei Marsi.

Di rara e splendida fattura l’ambone cosmatesco a scale simmetriche, ricco di porfido imperiale e di fiabeschi inserti multicolori (foto 8), commissionato all’inizio del secolo tredicesimo dall’abate Oderisio. Non però quello illustre per galero scarlatto e per cattedra badiale a Montecassino, grande elettore di Urbano II e perciò asceso ai i beati un buon secolo prima. Parliamo qui di un altro nobile prelato, la cui fama riposa nell’iscrizione che ne celebra il mecenatismo e la pietà congiunti (foto 9, 10). Giovanni di Guido e Andrea, squisiti Maestri, non mancarono di omaggiarlo.

Andrea omaggiò invece soltanto i propri meriti, con atto di consapevole artista, quando appose la firma, e solo quella, sull’iconostasi, che non è meno pregevole dell’ambone (foto 11, 12), e che forse proviene da altra chiesa albese oggi diruta. Non piangeremo per quella, ma sì per l’umana cupidigia che sottrasse all’opera di Andrea una parte di quei meriti e dei lor prodotti. Le quattro candide e spoglie colonnine che reggono la trabeazione dell’iconostasi non furono sempre candide e spoglie. Un mattino, durante i lavori di ricostruzione e restauro, al posto delle colonnine di Andrea, che possiamo supporre colorate e ricche quanto il restante, apparvero altrettante travi di legno. La trabeazione era stata leggermente alzata con crick da cantiere, le colonne sfilate e le travi immesse al loro posto. Si potrebbe pensare che, considerando la perizia e l’attrezzatura dispiegate, a lavori in corso, non sarebbe stato impossibile risalire ai moderni predoni. Ma nessun segugio ne fiutò le peste. Possiamo solo ringraziarli, in contumacia, per la delicatezza mostrata evitando il crollo.

Deterse le lacrime quanto mai salate, alziamo gli occhi alla sommità dei sette gradini, a consolarci con i fioroni e gli intrecci che impreziosiscono la lastra dell’altare. E’ ancora lì (foto 11 di nuovo). I fiori recano otto petali. Potrebbero quindi significare la nuova creazione: sette per la prima, comprensiva del giorno di riposo, e uno per la ri-creazione ad opera del Cristo.

E poi, lenito il dolore, torniamo indietro a riguardare un dettaglio che al primo passaggio rimane oscurato da tanto lusso di decori. Sotto una delle colonnine frontali dell’ambone, a sinistra per chi guarda, si trova una figurina che pare troppo romanica, diciamo un tantino primitiva, rispetto alle bellurie che la circondano: un omino in ginocchio con le braccia alzate, come reggesse la colonna che a sua volta regge un lettorino. Dalla bocca escono due serpenti (foto 13). L’altra colonnina frontale, che regge un altro lettorino, è invece sorretta da un’aquila. Essendo l’aquila simbolo di verità e della parola di Dio che dall’ambone discende, essendo il serpente simbolo di diabolico inganno, sarà il serpentesco omino simbolo di eresia e di frode, simmetricamente collocato come le scale? Sarà coevo all’ambone? Sarà stato recuperato tra gli avanzi di un secolo avanti? Comunque, lui pure è ancora lì, e tanto basta a rallegrarci.

Altre coserelle molto romaniche si vedono alla sommità dell’abside, dentro gli archetti e sui loro peducci: protomi umane e animali, una bestiola a testa in giù, una popputa sirena (pare), tanti bei fiori. I fiori, dentro gli archetti, sostituiscono le figure sul lato nord dell’abside, iniziando poco prima della metà, e appaiono più recenti, per lo stato di conservazione e per la finezza del disegno (foto 14, 15, 16). Poiché i documenti certificano un terremoto nel tredicesimo secolo che, dicono i documenti, distrusse l’abside e parte delle navate (abbiamo visto), subito ricostruite, dobbiamo arguirne l’accostamento di animali antichi e di nuovi fiori sbocciati con la rinascita del muro? Ma in fondo che importa? Tutti sono ancora lì.

Non è più lì, invece, il portale del dodicesimo secolo, di autore ignoto ma scolpito in acero montano, che però, se amate le sculture in acero, potete ammirare nel museo di arte sacra presso il castello Piccolomini a Celano (foto 17). Rivedremo le informazioni dopo il prossimo terremoto.

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Francesco Venturini
Nato nel 1950. Per molti lunghi anni docente di materie letterarie in un liceo. Ora dedito a interessi vari e per la maggior parte innocenti, come l’esplorazione di chiese romaniche, delle quali parlo ai miei coetanei nelle Unitre.
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