Storie di antipapi (1) – Il grande scisma: prodromi, cardinali e mentalità

Papa Benedetto XIII
Papa Benedetto XIII

di Carmelo Currò.

Grande scisma d’Occidente. La storia degli “altri” papi descrive spesso le vicende dei due grandi uomini che caratterizzarono l’obbedienza di Avignone, Clemente VII e Benedetto XIII, inquadrandole nell’ambito di una storiografia tradizionale che evidenzia i movimenti politici delle Potenze, le manovre per definire la sede pontificia, le ambizioni personali delle parti contendenti e dei loro sostenitori. Questa visione dei fatti appare limitata. Oltre ai re di Francia, ai sovrani di Napoli, ai protagonisti meglio conosciuti, chi e che cosa hanno dato origine alla grande divisione della Cristianità? quali i partigiani delle diverse ragioni? e chi ha più tardi ostinatamente sostenuto per lungo tempo una causa che sembrava ormai persa? Prelati, cardinali, politici e nobili di provincia, animano le retrovie della storia più letta, ricomponendola essi stessi con le loro vite.
Fra i diversi concistori in cui l’antipapa Benedetto XIII nomina i suoi cardinali, esistono grandi distanze temporali, notevoli diversità per quanto riguarda le situazioni politiche generali e persino le personalità umane e intellettuali di coloro che ne svolgono le vicende. I primi tre sono convocati in un periodo relativamente breve. Sette o nove i prelati che vengono nominati esattamente in due anni, dal dicembre 1395 al dicembre del 1397. Ci sono poi i concistori del maggio 1404 in cui sono creati due nuovi cardinali; del settembre 1408, in cui Benedetto elegge cinque porporati; del dicembre 1412 con la pubblicazione di un solo prelato. Passeranno diversi anni prima che il papa avignonese scelga tre nuovi cardinali: lo farà soltanto poco prima della morte, nel maggio 1423. I soggetti che egli eleva per l’ultima volta al cardinalato non sembra abbiano le stesse capacità o la notorietà dei colleghi scelti negli anni precedenti. E completamente diverse sono le condizioni politiche in cui egli gestisce la sua Chiesa.
Nel 1395 Benedetto XIII gode di ampio sostegno, re e principi lo seguono ancora, uomini celebri come S.Vincenzo Ferrer ne promuovono le ragioni. Ed egli stesso crede che sia possibile entrare a Roma da vero, unico e legittimo pontefice. Nel 1423 l’antipapa è un uomo messo alle strette ma ancora profondamente sicuro delle sue motivazioni. E’ dovuto fuggire da Avignone e rifugiarsi nel castello di Penacola, sotto la protezione sempre meno convinta dei re di Aragona che ancora pensano di potersi servire di lui per motivi politici. Ma Benedetto è certo di essere il legittimo papa, il capo di una Cristianità che sta navigando superstite sulle acque tempestose di una perdurante catastrofe; e che è stato prescelto per arroccarsi nel suo castello iberico come l’umanità un giorno si rifugiò con Noè nell’arca per essere preservata dall’estinzione.
I cardinali che nel 1423 vengono creati da lui sono dunque destinati a far sopravvivere non l’obbedienza avignonese ma la vera Chiesa, la legittima Chiesa romana che si trova concentrata per misteriosa Volontà divina nel Regno aragonese, ed è supportata da pochi altri fedeli sparsi in altre aree dell’Europa.
La convinzione della bontà insita nelle proprie ragioni e la sicurezza di una superiorità spirituale che sorpassa le difficoltà visibili e persino l’evidente sconfitta, costituiscono stati d’animo diffusi nei gruppi e nelle società alle prese con gravissimi problemi politici e sociali. Nel caso di Benedetto XIII e dei suoi seguaci, queste certezze procedono da lontano. Innanzitutto, dalle modalità stesse con cui il primo papa avignonese era stato eletto. Si sa bene quali siano state le condizioni generali e quelle contingenti che portarono all’elezione di Urbano VI nel 1378. L’ultimo pontefice della Chiesa unita prima dello scisma fu infatti scelto dai cardinali in mezzo ad una serie di incredibili violenze, di diffusi disordini e sotto la pressione della piazza in tumulto. Si trattò di vicende che furono a lungo rievocate per supportare la tesi di una scelta viziata da parte di molti elettori, costretti a scegliere il nuovo papa affrettando le proprie decisioni.
Il papa Gregorio XI che aveva avuto il merito di riportare nella capitale della Cattolicità la propria residenza rientrando da Avignone, era morto, spento precocemente per le preoccupazioni e la salute cagionevole. I Romani, avviliti dalla lunga assenza della S.Sede, lamentavano decenni di decadenza, e pretendevano che a succedere al defunto fosse un pontefice romano o almeno italiano. Voci di fuga dei cardinali, di ingerenze politiche nel conclave e di spostamenti di truppe, avevano agitato gli animi già nel corso delle cerimonie per i funerali di Gregorio. Non si può dire che la situazione fosse tranquilla, per coloro che erano chiamati a scegliere il Successore di S.Pietro: solo 16 persone (poiché 6 altri cardinali si trovavano in Francia ed uno era a Sarzana per seguire i negoziati fra la S.Sede e Firenze), divise tuttavia dalla difesa di interessi contrapposti e pressate dalla necessità di conciliare le diverse posizioni. I cardinali romani, per esempio, non erano ritenuti adatti per essere eletti, poiché Francesco Tebaldeschi sembrava troppo vecchio, Jacopo Orsini troppo giovane e ambizioso. Alcuni italiani erano da escludere perché provenivano da città ribelli. I cardinali del Limosino, la regione che aveva dato i tre ultimi pontefici, erano avversati da quelli francesi (1). Fu allora che proprio alcuni cardinali del Limosino proposero quale pontefice un uomo molto noto ma che non apparteneva al Sacro Collegio, ossia Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, italiano ma rappresentante della Casa d’Angiò (2).
La candidatura calò sui conclavisti come fulmine a ciel sereno e sembrò la soluzione quasi unanime per conciliare le parti e risolvere i problemi di ordine pubblico. Oltre alle ragioni di opportunità politica, l’arcivescovo era ritenuto un uomo prudente, colto, onesto, di integerrimi costumi. L’unico a non essere d’accordo fu il cardinale Orsini che avrebbe gradito l’elezione di un personaggio vecchio e debole da poter facilmente influenzare, e per guadagnare tempo affinché, una volta morto il nuovo papa, potesse ottenere punti favorevoli in un nuovo conclave (3). L’elezione si svolse in Vaticano mentre il popolo tumultuava al piano sottostante la sala della riunione, e mentre uomini armati picchiavano persino con le lance contro il soffitto. La notizia non fu resa pubblica subito perché il nuovo papa ovviamente non si trovava nel palazzo del conclave e si sperava di poter far accettare il risultato del voto senza provocare incidenti (4). Tuttavia, avendo saputo che l’elezione era avvenuta, la folla riuscì a sfondare le porte della sala, sicura di trovarsi di fronte a un candidato gradito. Non avendo il coraggio di dire chi fosse il nuovo papa, i cardinali fecero rivestire con gli abiti pontifici il vecchio Francesco Tebaldeschi che fu quasi soffocato dall’entusiasmo e dall’abbraccio del popolo. Ma dopo pochi minuti, fu proprio lui a rivelare la verità, suscitando l’ira della folla che aveva invaso il Vaticano. I cardinali in un primo tempo furono costretti a fuggire ma in breve la calma venne riportata in città: ai facinorosi si fece riflettere che era stato comunque eletto un papa italiano (5).
Ma nessuno aveva fatto ancora i conti con il carattere del nuovo pontefice il quale scelse il nome di Urbano VI. Iracondo, ostinato, per certi versi persino crudele, pretendeva dagli altri la rigidità che applicava a sé stesso e che faceva parte della sua natura. “Non mi conoscono -aveva detto al vescovo di Trento mentre ancora il popolo si agitava- se venissero mille spade sulla mia testa non rinunzierei”. E nella sua prima allocuzione egli lanciava un piano di riforme spirituali, lanciandosi contro la corruzione e l’amore per le ricchezze da parte del clero, con accenti tanto fervorosi da destare l’entusiasmo di S.Caterina da Siena. “Babbo mio dolce -gli scriveva la Santa- poneteci rimedio, e date refrigerio alli spasimanti desiderii delli servi di Dio che (…) aspettano che voi, come pastore, mettiate mano a correggere non solamente con la parola ma con l’effetto, rilucendo in voi la margarita della giustizia unita con la misericordia” (6).
Ma ben presto gli atteggiamenti di Urbano dovettero far cambiare idea a molti suoi sostenitori. Implacabile se qualcuno osava contraddirlo, il papa dominò la Corte pontificia con la paura. Egli non si fermava dinanzi a niente e a nessuno, agendo con estrema durezza e con comportamenti a volte estremi, facendo dubitare persino sullo stato della sua salute mentale. Non solo i cardinali sospettati di tradimento furono imprigionati, torturati e probabilmente uccisi; ma anche il re di Sicilia venne scomunicato da Urbano. Anzi questi nutrì il neppure nascosto intento di sostituire il sovrano con un proprio nipote. Rimase famoso il caso dei sei cardinali che nel 1384 avevano manifestato perplessità nel seguirlo a Napoli per portare avanti la sua contesa con il re Carlo III. Il papa, stabilitosi nel castello di Nocera, li fece gettare in un sotterraneo dove i prigionieri vennero lasciati in preda al freddo, alla fame e ai vermi. Dalla rocca egli si affacciava due o tre volte al giorno per scagliare la scomunica contro il re che considerava ribelle. Deciso a partire alla volta di Genova, volle trascinare i prigionieri sfibrati al suo seguito. Uno fra loro, l’arcivescovo dell’Aquila, non riusciva nemmeno a reggersi in piedi, e perciò suscitò le sue ire, venne colpito a morte e abbandonato per strada (7). Una volta arrivato a Genova, i cardinali furono nuovamente rinchiusi, con le mani e i piedi incatenati, in celle anguste da dove non uscirono mai più. Anzi, anche due altri membri del Sacro Collegio arrivati in città per ottenere la loro liberazione furono accusati di essere i mandanti di una congiura contro il papa e costretti a fuggire. Poco dopo i cardinali prigionieri, nonostante le richieste di clemenza, vennero uccisi. Secondo la ricostruzione dell’avvenimento svolta da Mario Prignano, l’esecuzione “avvenne, nella massima segretezza, in una notte di dicembre. Nessuna comunicazione fu data alle autorità genovesi e neppure ai membri della curia pontificia, che solo alcuni giorni dopo, quando Urbano decise di partire per Lucca, si accorsero che del suo seguito non facevano più parte i cardinali in catene. Sulla morte cruenta che il papa aveva deciso di riservare loro fiorirono subito molte dicerie.
Nel suo diario, Dietrich, il segretario del pontefice, potè solo appuntare che «pochi giorni prima di lasciare Genova il papa ha dato ordine che i cardinali venissero ammazzati. Alcuni riferiscono che siano stati gettati in mare, altri che siano stati sepolti vivi in una fossa piena di calce nella stalla dei cavalli del papa e che poi i loro corpi siano stati bruciati e ridotti in cenere. Comunque stiano le cose, non sono stati più visti». Tra coloro che pretendevano di sapere come fossero morti Ludovico Donati, Giovanni da Amelia, Bartolomeo da Cogorno, Marino del Giudice e Gentile di Sangro vi fu anche chi giurò che erano stati sgozzati e i loro corpi essiccati e rinchiusi in certe valigie che, in preda a una specie di follia macabra, il papa avrebbe deciso di portarsi sempre appresso. Anni dopo, un chierico che era appartenuto al seguito di Urbano VI, Gobelino, avrebbe scritto in un libro di memorie di avere saputo, da una persona che era stata presente alla sepoltura, che i cardinali erano stati «sgozzati nel carcere durante la notte e di nascosto sepolti nella stalla dei cavalli». Ma ci sarebbero voluti più di quattro secoli per scoprire casualmente, durante alcuni lavori di scavo sotto la Commenda di San Giovanni di Pré, cinque piccole lettighe sepolte sotto terra, con i resti di cinque scheletri. Una mano premurosa si era preoccupata di posare al fianco di ognuno il sigillo con le insegne cardinalizie” (8).
La stessa S.Caterina avrebbe poi dovuto ricordare al papa che era necessario mitigare il suo fervore, raccomandandogli di fare “le cose con modo e non con senza modo e con cuore tranquillo”, mitigando “un poco per l’amor di Cristo crocifisso quelli movimenti sùbiti che la natura vi porge: con la virtù sana date il botto alla natura” (9). Ma ella non andò oltre. Anzi, quando la Chiesa fu divisa dallo scisma, rimase fedele a Urbano VI condannando i cardinali ribelli. “O miserabili -scrisse loro- non sapete voi che, se i venti fanno andare un poco a vela la navicella della Santa Chiesa, ella non perisce, né chi si appoggia a lei? Volendovi voi innalzare, voi siete immersi; volendo vivere, voi cadete nella più perversa morte che cadere possiate; volendo possedere ricchezze, voi diventate mendici e cadete in somma miseria; volendo voi tenere lo Stato, voi il perdete. Fatti siete a voi medesimi: ecco poi, che il veleno prendete per voi, e perché il date in altrui (…). Voi siete posti per dilatare la fede: e voi la spegnete, contaminandola per le scisme che per voi si levano; siete posti per lucerne poste in sul candelabro per alluminare i tenebrosi: e voi siete quelli che nella luce gettate le tenebre” (10).
I cardinali francesi, infatti, nell’agosto dello stesso anno 1378 si erano riuniti ad Anagni. Qui, sicuri dell’appoggio del re di Francia, degli altri porporati rimasti ad Avignone e protetti da un esercito composto da bretoni e guasconi, sotto il comando del cardinale Roberto di Ginevra in marcia verso il Lazio, pubblicarono una dichiarazione in cui esposero i fatti che li avevano costretti all’elezione di Urbano VI e convocarono il Sacro Collegio nella stessa città. Il papa stesso propose allora di sottoporre la validità della sua elezione a un concilio; ma ormai la rottura era avvenuta. Trasferiti a Fondi sotto la protezione della regina di Napoli, gli scismatici elessero pontefice proprio il giovane Roberto di Ginevra il quale fino ad allora era apparso più uomo di armi che di religione, e che in passato si era reso colpevole di un terribile eccidio contro i ribelli di Cesena. Egli prese il nome di Clemente VII, originando così la grande divisione della Chiesa cattolica (11).
Tutti questi elementi, dunque, sembravano indebolire dalle fondamenta la struttura ecclesiale. E per una società abituata a tenere nella massima considerazione i concetti del giusto e dell’ingiusto, dalla guerra alla legittimità dei troni, diveniva ora indispensabile per le due parti motivare i propri diritti con tutte le ragioni giuridiche che i canonisti avrebbero illustrato. La violenza minacciata dal popolo fu a lungo ritenuta elemento invalidante dell’elezione di Urbano VI, nonostante ancora sul letto di morte il vecchio cardinale Tebaldeschi avesse giurato che le votazioni del conclave si erano svolte senza tener conto delle influenze esterne e che gli elettori avevano manifestato la loro effettiva volontà (12).
Chi ha agito secondo giustizia e chi alla giustizia si è ribellato? Quanto è avvenuto all’interno della Chiesa sembra costituire per gli uomini del tempo, lo svolgimento di eventi che superano la volontà umana e si inquadrano in un vasto piano divino, di cui ci si sforza di comprendere gli aspetti e le finalità. Gli uomini penetrano in questo progetto ultraterreno spesso solo a causa dei loro peccati che sono i motori della Giustizia celeste. Peccati che affrettano una resa dei conti dai contorni escatologici, manifestata nel mondo con multiformi dimostrazioni.
Il Trecento, del resto, il secolo in cui si scatenano le tensioni all’interno della Chiesa, contiene tutti i prodromi dei futuri cambiamenti sociali e naturali. La fine del mondo medievale non avviene impercettibilmente, così che le comunità possano abituarsi ai nuovi modi di vivere, di pensare, di alimentarsi. Si verificano invece mutamenti che provocano inquietudine, agitano le città e le campagne, sovvertono gli ordini costituiti, sono avvertiti quasi sensibilmente nel cielo o nell’aria, si infiltrano in mezzo alla popolazione seminando morte e paura. Il sole sembra non riscaldare più la terra come negli anni di cui i più vecchi hanno memoria. La neve e i venti freddi scendono fino alle valli meridionali. Le messi non maturano e le vigne inaridiscono. Le lastre di ghiaccio impediscono la navigazione, e le tempeste si abbattono con intensità inaudita su coste e spiagge, risucchiando città e terre.
Sono le conseguenze del cambiamento climatico che lentamente trasforma il clima europeo dopo un optimum durato alcuni secoli e che si conclude già nel corso del Duecento. La Groelandia diventa una meta quasi impossibile da raggiungere e si perdono i contatti con gli insediamenti della grande Isola. L’Inghilterra termina la sua produzione di vino. L’Islanda rischia di spopolarsi. Nel corso della prima parte di questo periodo spaventose catastrofi si abbattono sull’Europa. Dopo la grande carestia del 1315-1321 e la peste del 1348, già abbastanza lontane dai ricordi degli uomini dello scisma, i cambiamenti metereologici andavano provocando fenomeni fino allora inauditi. La tempesta più violenta del Trecento sconvolse l’Olanda e l’Inghilterra nel 1362, con mareggiate che raggiunsero anche l’interno dei due Paesi e fecero oltre 25.000 vittime. Fu allora che le onde scavarono il lago interno all’interno dei Paesi Bassi che fu bonificato solo nel corso dell’Ottocento. Poi, la “tempesta perfetta” si scatenò nel 1413 sul Mare del Nord e fu seguita da numerose altre che causarono 100.000 morti fino al 1446 (13). Nell’autunno del 1333 si disse che un eremita di Vallombrosa aveva avuto la visione di un gruppo di demoni armati in marcia. Secondo le voci che diffusero il fatto, l’eremita li interrogò sulla loro meta ed essi risposero che si recavano a Firenze per sommergerla a causa dei suoi peccati. E fu quello l’anno del “diluvio di Firenze”, poiché il 1 novembre vi si abbatté un terribile alluvione, con pioggia, fulmini e tuoni spaventosi, causando danni, crolli e terrore (14).
E poi, che cosa erano quelle “faci infocate nel cielo” che furono viste in Svizzera nel 1395? Forse pioggia di meteoriti cadenti? e che accadde a Bologna nel 1399? Un terremoto, quell’anno, scosse la città in un giorno d’estate, e contemporaneamente “nell’aria apparve una trave di fuoco ardente, che con grandissimo spavento ne andava al Cielo volando”. Ancora nel 1409 l’eclisse di Luna inquietò l’Aragona e fu seguita nello stesso giorno da un violento terremoto (15).
I semi marciscono, le messi inaridiscono, le terre cessano di essere produttive per anni interi in tutta Europa. L’incubo della fame percorre vaste regioni, senza che si possano adottare provvedimenti e senza che possano diminuire i pesi annuali previsti per gli agricoltori. Sono gli anni delle grandi rivolte contadine e operaie che agitano il secolo in tutta Europa e che dunque non vengono solo causate dalle inquietudini sociali ma da cause esterne e naturali, cui spesso non si può porre rimedio.
Inquietanti notizie di disordini provocati da contadini poveri e diseredati in Francia e nelle Fiandre percorsero l’Europa occidentale nella seconda metà del Trecento. Il “tumulto dei Ciompi” sconvolse Firenze nel 1378, ad opera dei lavoranti della lana impoveriti dalla crisi economica. Poi i contadini inglesi, guidati da Wat Tyler, John Balle e Jack Straw, tentarono di rivoltarsi contro le strutture feudali nel corso di una rivolta che insanguinò l’isola agli inizi degli anni ’80 del secolo. Fra il 1386 e il 1391 la rivolta “dei Turchini” nel Canavese tenne in scacco le forse dei nobili locali: contadini che si ribellavano non certo per coscienza di classe, come a lungo suppose la storiografia marxista, ma per naturale insoddisfazione di intere comunità, incapaci di elaborare altre forme di protesta (16).
Ha ben ragione S.Vincenzo Ferrer nell’attraversare tanti luoghi d’Europa mettendo in guardia le popolazioni dal provocare i castighi divini. Chi avrebbe potuto negare la verità delle sue parole, di fronte a segni così evidenti nel cielo e sulla terra? Assumeva dunque davvero le sembianze dell’Angelo dell’Apocalisse, il grande Santo, e giustamente lo si raffigurava con le ali, il fuoco che si poggiava sul suo capo, la tromba con cui annunciare il Giudizio di Dio.
Ma non è solo lui a scorgere nell’apparente disordine della natura il riflesso del disordine degli animi. Era anche il cardinale Pietro Blau, creato da Benedetto XIII nel suo primo concistoro, ad annunciare che l’anticristo sarebbe venuto sulla terra con il suo carico di disordini e rovine. Pietro non rimane inerte di fronte alla crisi nella quale vede agitare il mondo. E così si adopera per la cessazione di uno scisma che ormai lo tormenta, e si sforza per ottenere quelle dimissioni dei due papi rivali di cui tanto si parla, chiedendo anche lui che un concilio elegga un terzo uomo che finalmente ristabilisca l’unità. Ma di fronte al deciso rifiuto di Benedetto XIII, egli stesso non potrà che ripiegare tristemente proprio sul terzo contendente, e poi definitivamente solo su sé stesso, e cercare un ordine nel mondo, procedendo da un sembiante di ordine esteriore che proprio in quegli anni assume contorni precisi e articoli dettagliati.
Mi riferisco all’unico ordine possibile: quello che dovrà accompagnare lui stesso e i suoi confratelli all’incontro con Dio. Per i suoi funerali che Pietro fissa secondo un cerimoniale minuziosamente descritto nel testamento, egli riprende e perfeziona in tutti i particolari le altre lunghe funzioni funebri che la consuetudine sta ordinando in quei secoli. Si tratta di cerimonie che da un lato confermano l’alta dignità del cardinalato; dall’altro, stabiliscono che esistono pur sempre una serie di certezze, procedenti dalla devozione, dalla preghiera, dalla giustizia: caratteri che si conservano in alcuni uomini, i cardinali, appartenenti a una Chiesa tormentata e divisa ma pur sempre Istituzione divina e santa.
E così quell’ordine turbato dalle contese giuridiche e politiche, dai disordini che giungono fino alle sacre stanze del Vaticano, ritrova il suo corso nei sontuosi funerali dei porporati. Pierre Blau, preceduto e seguito da molti suoi confratelli del Sacro Collegio, stabilisce minuziosamente quel che deve essere eseguito dopo la sua morte. Quante messe devono essere celebrate, quante torce devono essere accese, quante elemosine versate; vuole che un drappo nero e una croce ricoprano il luogo della sua sepoltura per la durata della novena funebre; che ventiquattro poveri mangino nella sua casa il giorno dopo i funerali, e che altri cento vi siano accolti l’ultimo giorno della novena (17). Ecco ricomposto non solo un corpo umano ma anche un corpo sociale, raccolto intorno all’uomo che ricopre una dignità sacra.
I cardinali, del resto, costituiscono un corpo unito anche se si trovano su fronti contrapposti. Non viene forse proclamato da anni che ad essi, da qualunque dei due pontefici contendenti siano stati creati, spetta riunirsi per eleggere un terzo e definitivo papa? La potestà della Chiesa spetta dunque ad essi, quasi che in un qualsiasi momento la potestà di Pietro possa rimanere sospesa, come avviene nel caso di morte del successore di Pietro, e trasferita dal legittimo papa (non importa più individuare chi sia) a questo Collegio. Giovanni Monaco, canonista fedele di Bonifacio VIII aveva affermato che “durante la Vacanza della Sede apostolica la plenitudo potestatis risiede presso il ceto dei cardinali” (18). Concetto ripetuto e perfezionato da numerosi altri Autori del XIV secolo che confermavano la capacità del Collegio cardinalizio di poter effettuare nomine importanti. Tanto che si può affermare come le decisioni dei canonisti consolidino “il prestigio ecclesiologico del cardinalato e sono nello stesso tempo sottese da una chiara presa di coscienza della continuità della Chiesa romana” (19).
Fu questa riconosciuta dignità e potestà cardinalizia che venne ritenuta elemento essenziale per la composizione dello scisma. Si diceva allora che la terza Potenza europea, oltre il Papato e l’Impero, fosse l’università di Parigi, a causa della fama di cui godevano i suoi studiosi. E sulle soluzioni dello scisma, il suo rettore presentò al re Carlo IV un memoriale in cui si proponevano l’abdicazione dei due papi, la costituzione di una commissione che decidesse a quale dei contendenti spettasse il diritto di regnare, la convocazione di un concilio cui partecipassero i cardinali delle due parti. Pare che Clemente VII, una volta apprese queste proposte, rimanesse profondamente addolorato, ed in effetti fu colpito da un colpo apoplettico che gli tolse la vita nel settembre dello stesso anno. L’università di Parigi suggerì allora che non gli fosse dato alcun successore. Ma al suo posto venne invece eletto il cardinale spagnolo Pietro de Luna che prese il nome di Benedetto XIII.
Un uomo dal carattere deciso e convinto delle proprie ragioni, tanto che fu in grado di resistere sia a un concilio nazionale del clero francese che gli chiedeva di dimettersi insieme al papa dell’obbedienza romana, sia al pericoloso assedio di cinque anni che egli subì dentro Avignone circondata da truppe francesi (20). Allorché Benedetto occupa il soglio pontificio, le fortune dell’obbedienza avignonese sembrano già precarie, eppure sono supportate da parecchi sostenitori, tanto che l’Aragona è ancora pronta ad accoglierlo come papa, e il Ducato di Savoia gli rimane fedelmente attaccato.
In un primo tempo, Benedetto cerca di tener testa a quanti ritengono necessarie le sue dimissioni commissionando al famoso teologo Leonardo Rossi da Giffoni, francescano creato cardinale da Clemente VII, un’opera dottrinale che, secondo la mentalità dell’epoca, deve difendere i suoi diritti pontifici di fronte alle crescenti contestazioni. Nacque così il trattato Utrum via renuntiationis, opera teologica e polemica che mette in piena luce le capacità dell’Autore e le sue saldissime basi culturali. Clement Schmitt rileva che l’opera è frutto di un teologo che profonde un pensiero tutto originale (21). Tranne poche citazioni tratte da S.Agostino, S.Gerolamo, Vincenzo di Beauvais, dai Decretali di Gregorio IX, la dimostrazione delle sue tesi è infatti affidata all’elaborazione delle parole e degli esempi delle Sacre Scritture, seguendo i simbolismi biblici che egli ammirava e la loro applicazione ai numeri e a un potenziale significato allegorico. Così, il cardinale esclude l’abdicazione di Benedetto XIII perché contraria alle sette virtù; respinge il concilio e il compromesso perché conformi ai sette pericoli; solleva sette obiezioni alla sottrazione di obbedienza; pone sette principali argomenti come sostegno delle sue ragioni.
Secondo Leonardo, l’abdicazione contrasta con la Fede: rinunciare al pontificato significherebbe lasciar posto ad impenitenti, ed al rischio di veder trasferiti i loro errori a tutta la Chiesa. L’elezione di Urbano VI, egli sostiene, fu illegittima perché decisa da disordini che calpestarono i diritti degli elettori. Celestino V rinunciò al soglio spontaneamente; nel caso di Benedetto, invece, si tratterebbe di un rinnegamento della verità, come Pietro fece tre volte con Gesù Cristo . Un eventuale concilio poteva considerarsi inutile: i partecipanti vi sarebbero convenuti non per decidere sulla verità ma per portare avanti le proprie ragioni; e nel caso in cui i partigiani del papa di Roma, colui che Leonardo considera scismatico, fossero riusciti ad ottenere una maggioranza, si sarebbe avuta solo una maggioranza numerica apparente, in realtà vittoria dell’ingiustizia e dell’eresia. Il concilio, del resto, è inabile a decidere sui diritti del papa: è il settimo argomento di Rossi. In un’epoca tormentata che dovrà ancora subire le incertezze del concilio di Basilea e la sua pretesa superiorità sul pontefice, Leonardo già afferma che i rappresentanti conciliari non hanno il potere di emettere alcuna sentenza sulla persona del papa, dal momento che il “potere delle chiavi” non è trasmissibile dal basso verso l’alto. Rossi respinge pure le vie del compromesso e dell’arbitrato, sempre a causa dell’incompetenza degli arbitri. Il papa non può essere quindi costretto ad aderire a queste soluzioni ingiuste. Dovrebbero invece essere convocati singolarmente teologi e giuristi, esaminati i loro pareri e confrontati con la verità, come fece Daniele nel difendere la casta Susanna dalle accuse dei calunniatori.
Ma l’arma della controversia ebbe scarso peso. Nel maggio 1395 i duchi di sangue reale, zii e inviati del re di Francia iniziarono a premere pesantemente su un Benedetto XIII sempre restio alle sue dimissioni. Tuttavia, ad eccezione del fedelissimo cardinale di Pamplona, tutti i porporati avignonesi si pronunciarono in favore della doppia abdicazione da parte dei due papi contendenti, anche perché lo stesso Benedetto aveva promesso in conclave che si sarebbe sottomesso al parere della maggioranza del suo collegio cardinalizio. E anche Leonardo venne meno alle ragioni che aveva esposto nel trattato schierandosi dalla parte del sovrano francese, e testimoniando pure che il papa avignonese aveva rinnovato la sua volontà di rinuncia al momento dell’elezione. Il papa si pose quindi su una posizione difensiva di fronte alla Corte che premeva sul clero per ottenere la sottrazione di obbedienza che fu votata nel giugno 1398. Fra i cardinali vi fu appunto Leonardo Rossi che, per giustificare il suo gesto compose il nuovo trattato Ex septuplici medio, in cui si spingeva persino ad accusare Benedetto di eresia e scisma. Infatti, sosteneva, avendo pronunciato in conclave un giuramento rivelatosi come simulato, al solo fine di ottenere più facilmente il pontificato, egli si dimostrava un simoniaco, spergiuro e motivo di scandalo per la Chiesa. Alle risposte dei sostenitori di Benedetto XIII, Leonardo replicava con la nuova opera Pro fundatione, in cui denunciava come colpevoli di attentato all’unità contro la Chiesa sia il papa di Roma che quello di Avignone. C’è da dire, però, che quando l’ostinazione di Benedetto riuscì a riguadagnare temporaneamente le simpatie dell’opinione pubblica francese, Leonardo fu pronto a schierarsi ancora una volta con lui, ricevendone di nuovo benevolenza e concessione di benefici, fino alla morte che forse avvenne verso il 1407. Certo, il pontefice non agiva così paternamente perché colpito dal ravvedimento del cardinale; ma ormai gli conveniva manifestare buona volontà per non crearsi altri nemici, all’interno di un campo di battaglia sempre più insidioso.
Del resto, anche se più coerente e a lungo fedele rispetto a Leonardo, un altro fra i più famosi cardinali di Benedetto XIII lo aveva profondamente deluso. Era Antoine de Challant, savoiardo, onorato per tutta la vita ecclesiale con numerosi benefici come gli arcidiaconati di Reims e di Chartres. Egli era stato uno tra i sostenitori del papa avignonese di fronte al suo sovrano Amedeo VIII per convincerlo a non aderire all’assemblea francese che aveva deciso di privarlo dell’obbedienza. E proprio in questa occasione Antoine, già cancelliere di Savoia, era stato creato cardinale. Un cardinale apparentemente fedele, anche durante la visita del 1406 in Francia dove fu accolto male dalla Corte che desiderava solo assicurazioni sulla volontà dell’abdicazione di Benedetto. Fu ancora lui a consigliere il papa a lasciare l’Italia dove si sperava in un suo incontro con il contendente romano Gregorio XII, e a seguirlo poi a Perpignano per sostenerlo nel corso di un concilio che nel 1409 avrebbe dovuto esaminare le sue ragioni. Poco dopo, però, egli stesso ne abbandonava l’obbedienza, per poi diventare un partigiano del concilio di Pisa che avrebbe eletto il terzo papa Alessandro V. Secondo Bonifacio Ferrer, fratello di S.Vincenzo e deciso avversario dello Challant, questi avrebbe abbandonato Benedetto perché grazie alla sua influenza e al fatto di essere suddito di una terza Potenza, sperava di essere eletto pontefice dai cardinali riuniti nella città toscana (22).
Dunque, Benedetto colleziona delusioni, e si fa più guardingo e prudente con il passare degli anni. Le nomine cardinalizie si diradano e vengono concesse ad uomini di sempre minore prestigio; e del resto, non doveva essere certo facile trovare il suicida politico che nel mezzo di una brillante carriera ecclesiale accettasse di diventare il cardinale di un pontefice ormai quasi recluso in una rocca lontana.
Gil Sanchez Munoz fu uno tra i pochi ecclesiastici di rango che rimasero fedeli al papa avignonese. E fu eletto papa egli stesso da tre cardinali superstiti dell’obbedienza a Benedetto XIII quando questi, ormai isolato politicamente, morì nel 1423. Il quarto, Jean Carrier, in disaccordo con la scelta dei suoi confratelli, avrebbe eletto un diverso candidato, creando così uno scisma nello scisma.

Note

Cf. Storia d’Italia, V, Milano 1965, p. 1293
F.GREGOROVIUS, Storia di Roma nel Medioevo, IV, Roma 1988, p. 245.
Ibidem.
Ibidem.
Cf. Storia d’Italia, V, cit., p. 1293.
Id., pp. 1293-1294.
Cf. GREGOROVIUS, cit., pp. 260-262.
Cf. M.PRIGNANO, Urbano VI. Il Papa che non doveva essere eletto, Milano 2010, in Ilgiornale.it.
Cf. Storia d’Italia, V, cit., p. 1294.
Id. pp. 1294-1295.
Id., p. 1294.
Ibidem.
Cf. B.FAGAN, La rivoluzione del clima, Milano 2001, pp. 69 e ss.
Cf. Storia d’Italia, VI, cit., pp.1345-1346.
Cf. M.BONITO, Terra tremante, Napoli 1691.
Cf. A. BARBERO, Medioevo – le prove tecniche del Quarto Stato, in La Stampa, 6 dicembre 2009.
Cf. A. PARAVICINI BAGLIANI, Il corpo del Papa, Torino 1994, p. 251.
Id., p. 221.
Id., pp. 222-223.
Cf. Storia d’Italia, VI, cit., p. 1377.
Cf. C. SCHMITT, La posizione del Cardinale Leonardo da Giffoni O.F.M. nel conflitto del Grande Scisma d’Occidente, Giffoni Valle Piana 1989.
Cf. F.-C. UGINET, voce Challant, Antoine de, in Dizionario biografico degli Italiani, XXIV, 1980.

Carmelo Currò

È nato a Salerno dove vive. Laureato in Scienze Politiche e Lettere Moderne, si interessa di genealogia e Storia della Chiesa. È giornalista, storico e ispettore onorario Ministero Beni Culturali.

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