Tra la costa, la città ed il contado: castelli, domus e casali fortificati nel Lazio templare

Templari negli affreschi di San Bevignate (PG)
Templari negli affreschi di San Bevignate (PG)

di Nadia Bagnarini

Con tutta la cautela consigliata dallo stato frammentario delle testimonianza architettoniche e dalla conoscenza precaria che per gran parte di esse oggi abbiamo, pare di poter concludere, che all’interno dei castelli, i Templari, così come gli Ospedalieri si comportassero da monaci in pochi e peraltro essenziali momenti della loro esistenza: quando assistevano ai riti, celebravano capitoli, o prendevano il loro pasto comune. In altri momenti erano soprattutto guerrieri. Dormivano, si esercitavano alle armi, forse anche praticavano individualmente la preghiera, la meditazione e la penitenza negli spazi anonimi, o militarmente connotati, che la struttura del castello lasciava loro a disposizione.
Con queste parole il compianto prof. Antonio Cadei concludeva uno dei saggi più interessanti sugli insediamenti militari templari in Terrasanta e nella Penisola Iberica; saggio contenuto all’interno degli Atti del convegno tenutosi a Sabaudia nel 2000, dal titolo “L’Ordine Templare nel Lazio Meridionale”(2).
Quel convegno era il naturale proseguimento di quello tenutosi otto anni prima presso la Certosa di Firenze e culminato nel sempre attuale “Monaci in Armi. L’Architettura Sacra dei Templari attraverso il Mediterraneo”(3). Proprio la lettura degli atti di Sabaudia ed in special modo dei saggi di Antonio Cadei e di Giuliano Romalli, dedicato quest’ultimo alla precettoria di S. Maria in Capita in località Bagnorea (4), nel contado viterbese, mi hanno fornito interessanti spunti di riflessione. Infatti, se da un lato, Cadei pur omettendo, forse deliberatamente, l’analisi degli insediamenti fortificati nella nostra penisola, forniva però nel contempo un quadro esaustivo di quello che definiva “l’insediamento peculiare dei Templari, in quanto Ordine militare, ossia il castello”, individuando una particolare tipologia nel castello quadrilatero, dall’altra Giuliano Romalli faceva percepire come una ricerca più dettagliata nel territorio centro — italiano poteva permettere di scorgere in quest’area una dinamica insediativa dell’Ordine che vedeva la formazione di veri e propri borghi rurali fortificati tali da costituire “feudi” autonomi in terra di confine (5).
Di certo però al di là di questa specifica tipologia insediativa, della quale forniremo indicazioni più dettagliate nel corso del presente saggio, in passato, già l’analisi storico artistica di alcuni insediamenti urbani legati all’Ordine del Tempio aveva permesso di individuare peculiari caratteristiche architettoniche, oltre che di natura geomorfologiche tali da poter definire “insediamenti fortificati” a tutti gli effetti le due precettorie urbane intra moenia di S. Maria in Carbonara (6) a Viterbo, e di S. Maria in Aventino a Roma (7).
Circoscrivendo il campo d’indagine all’attuale regione Lazio, è certo che ancor oggi siamo fortemente debitori nei confronti di Giulio Sivestrelli pioniere di una ricerca archivistica scrupolosa e scientificamente ineccepibile che lo condusse nel lontano 1917 a pubblicare la prima mappatura degli insediamenti dell’Ordine (8). Costui ebbe il merito di analizzare presso l’Archivio Segreto Vaticano il celebre rotolus pergamenaceo relativo al processo indetto contro l’Ordine del Tempio nello Stato Pontificio, che nel 1982 sarebbe stato pubblicato in maniera integrale da Anne Gylmour Bryson (9).
Capillari indagini archivistiche legate a sopralluoghi di natura archeologica furono invece alla base delle disamine di Antony Luttrell che nel 1971 confluirono nel saggio “Two Templar-Hospitaller Preceptories North of Tuscania” (10), e di Salvatore Bastianelli (11) e Francesco Correnti per quanto concerne l’insediamento di S. Egidio presso Civitavecchia (12). Bisognerà però attendere gli anni novanta del secolo scorso per percepire un reale progresso negli studi sull’Ordine del Tempio nella nostra regione, quando la cattedra di Storia dell’Arte Medievale dell’Università di Roma La Sapienza, guidata proprio da Antonio Cadei, decise di avviare un progetto di ricognizione delle emergenze artistiche rosso crociate. Era quello, a mio modesto parere, il segno evidente che anche il mondo accademico italiano stava iniziando a convogliare le proprie le forze verso una tematica molto specialistica e verso un territorio particolarmente nevralgico: i Templari, il Lazio e lo Stato Pontificio.
Nel corso degli ultimi anni, inoltre, alle indagini presso gli archivi locali, e presso l’Archivio Segreto Vaticano, si è finalmente compreso il reale valore della documentazione catastale vale a dire dei cabrei e dei processi di miglioramento conservati principalmente presso l’Archivio del Sovrano Militare Ordine di Malta a Roma e alla Valletta. Essi, infatti, sebbene compilati a partire dal secolo XVI secolo offrono allo studioso un imprescindibile spaccato storico artistico dal quale poter partire quando la documentazione prettamente archivistica si dimostra lacunosa ed in alcuni casi assolutamente assente (13).

Il Lazio e le vie consolari

La scelta dell’odierna regione Lazio non è casuale, poiché ritengo che in essa si possano riscontrare alcune peculiarità architettoniche che, sebbene non paragonabili ai grandi castelli della Penisola Iberica, oppure dell’Oriente Crociato, rappresentano pur sempre un caso particolarmente esemplificativo di come piccoli castelli, ma anche domus e casali, siano forniti di qualificanti elementi architettonici tali da renderli strutture fortificate a tutti gli effetti.
Il nome Lazio nella sua accezione moderna risale ai secoli XV e XVI. Usato dai geografi per designare un territorio meno vasto di quello attuale poiché non comprendente al tempo il settore meridionale della regione sottoposto al regno di Napoli e che venne ricondotto all’interno dei confini regionali solo tra il 1927 ed il 1934. Nel 1927 il celebre archeologo inglese Thomas Ashby circoscriveva e definiva il territorio dell’antico Latium: delimitato a Nord-Ovest dall’Etruria, a Sud-Ovest dal mar Tirreno, a Sud-Est dalla Campania, a Sud dal Sannio e a Nord-Est dalla zona montuosa abitata dai Sabini, dagli Equi e dai Marsi (14). La denominazione di Latium applicata anche alla zona meridionale, cadde però in disuso, perché sostituita già dal VII secolo da Campania, per indicare l’attuale Ciociaria e la diocesi di Tivoli, e da Maritima, per i territori tra i monti Lepini ed il mare e tra Velletri e Terracina. Quest’ultimo centro andava così a costituire il confine meridionale (15).
La regione era inoltre percorsa da un’importante ed articolata rete di vie consolari che create in epoca romana rimasero pressoché invariate in epoca medievale: nel nord ricordiamo le vie Aurelia, Clodia, Flaminia, Amerina e Cassia, quest’ultima con parte del suo tracciato coincidente con la via Francigena. A Nord-Est la via Salaria che si congiungeva con la via Nomentana, la Tiburtina ad est che raggiungeva l’Adriatico, a Sud-Est le vie Prenestina, Labicana, e Appia costituivano un legame con il meridione, mentre l’Ardeatina, l’Ostiense e la Severiana univano Roma al litorale. Delle vie summenzionate le più significative sono senz’altro la via Francigena che permetteva di raggiungere la città eterna, e dell’altra la via Appia con i suoi percorsi pedemontani che con la via Latina permettevano di raggiungere l’odierna Capua, oppure Benevento, ove iniziava il percorso della via Traiana, seguendo la direttrice della quale si
perveniva ai porti della Puglia, dai quali poi ci si imbarcava per la Terrasanta (16). Proprio nei pressi delle vie Francigena, Aurelia e della via Appia che incontriamo la maggior parte degli insediamenti appartenenti all’Ordine del Tempio e che saranno oggetto della nostra disamina (Fig. 1).

I Templari si insediano nella Tuscia viterbese

Sebbene le ricerche archivistiche siano sempre in fieri, ad oggi si è concordi nel ritenere la precettoria balneoregense di S. Maria in Capita come il primo insediamento rossocrociato nella regione, grazie ad una donazione da parte del vescovo Rustico avvenuta tra il 1148 ed il 1170 (17). Il complesso edilizio sorge nei pressi della via consolare Cassia, sulla strada provinciale denominata Pratoleva; un lungo viale alberato, tagliato a circa metà strada da un fossato detto “della Magione”, permette di raggiungere un vasto pianoro leggermente in pendenza, nel quale sono dislocati, in modo non perfettamente parallelo, secondo la direttrice Est-Ovest, l’ala conventuale e l’edificio di culto. La sua appartenenza all’Ordine viene attestata non solo dalle testimonianze rilasciate tra il 7 ed il 10 giugno del 1310 dai testes Guglielmo de Verduno presbyter (18) e dai tre servientes Gerardo da Piacenza, Pietro Valentini19 e Vivolo di Villa San Giustino20, durante il processo indetto contro l’Ordine del Tempio, ma anche grazie ad un registro conservato presso l’Archivio Segreto Vaticano copia redatta nel 1354 da un originale del 1334. Nel registro, infatti, si legge che tra gli introiti e redditi pervenuti al tesoriere Bonsignore de Senis al tempo del genovese Guglielmo Cybo capitano generale del Patrimonio di San Pietro in Tuscia nell’anno 1290 (…) Pro censum viginta libras paparinorum XXIII, die intrante december a facere lemosina domus Sancte Marie in Capita domus Templariorum pro porco quem dicta domus debet omni annum curie in festo nativitatis Domini (…) (21).
Tale registro conferma quanto espresso venti anni più tardi dal serviens Vivolo di Villa San Giustino, che interrogato nel palazzo vescovile di Viterbo il 10 giugno 1310, affermò di aver visto presso la precettoria balneoregense plures pauperes hospitari (…) et iacere, aggiungendo inoltre di ignorare se altri insediamenti dell’Ordine svolgessero la stessa mansione sed utum fierent elemosine ut debebent et hospitalitas servaretur ignorat (22).
Vivolo, in quel facere elemosina, attesta in tal modo una pratica ospitaliera che la storiografia ha sempre considerato poco diffusa presso gli insediamenti dell’Ordine (23), ipotizzabile però in località Bagnorea poiché l’insediamento era collocato nei pressi della via Francigena in un’area che vedeva il transito di pellegrini e viandanti, probabilmente ospitati e accolti in quella domus le cui emergenze architettoniche si individuano nella struttura posta quasi parallelamente all’edificio di culto.
La necessità di accogliere pellegrini e viandanti e nel contempo di salvaguardare il sito da eventuali aggressioni, spiegherebbe la presenza di strutture architettoniche dalla spiccata connotazione difensiva e militare, così come viene attestato nei disegni di un cabreo del 1625 (24). Sono infatti visibili alle spalle della chiesa, i resti di una torre medievale munita di un imponente portale ed affiancata da un consistente tratto di mura di cinta, mentre un’ulteriore sviluppo della muraglia si scorge a ridosso del piccolo fabbricato che affiancava ad est l’oratorio (25) (Fig. 2). Una nuova perizia realizzata nel 1651 così si esprimeva: si vedono al presente vestigia di fabbriche desolate, ed un portone grande a foggia di torrione, che danno inditj manifesti, che anticamente vi fussero di molte habitationi, e che fusse castello, o altro luogo murato (26). Possiamo quindi parlare di un vero e proprio borgo rurale fortificato, dove chiesa e domus privi di elementi di tangenza, erano stati organizzati attorno ad una corte centrale circondata da una cinta muraria munita di accesso turrito.

I Templari arrivano nell’Urbe:
S. Maria in Aventino e gli insediamenti in Campania e Marittima

Se consideriamo veritiera la notizia riportata dal vescovo Ottone di Frisinga nei Gesta Friderici I Imperatoris, secondo il quale nel settembre del 1159 il magister fratrum templi Hierosolymitani in Monte Aventino cum suis fratribus avrebbe omaggiato il neo eletto antipapa Vitore IV, potremmo considerare contemporaneo all’insediamento balneoregense, quello romano di Santa Maria in Aventino (27). Se non fosse per una parziale caduta d’intonaco avvenuta nella facciata occidentale della domus, che ha permesso di rinvenire una tecnica muraria in mattoni di riutilizzo con stilatura di letti di malta che non travalica mai, in ambito romano, il 1200, ad oggi sarebbe veramente arduo ricostruirne la facies medievale. Non sono comunque ancora emerse particolari strutture difensive quali feritoie oppure spalti lignei, ed è anche probabile che esse non torneranno mai alla luce, poiché ritengo che la sua naturale posizione geomorfologica sul colle omonimo, a ridosso delle mura aureliane, su una rupe che si affacciava direttamente sulle sponde del fiume Tevere, la rendeva realmente e naturalmente inoppugnabile. La domus appare, infatti, in tutte le vedute che immortalano il colle Aventino dalla metà del Cinquecento in poi, come un tozzo parallelepipedo disposto parallelamente rispetto all’edificio di culto, ma in una posizione di leggero sfalsamento, e legata al sottostante corso del Tevere grazie ad una rampa che si dipartiva da via Marmorata (Fig. 3). Pistilli sottolinea nel suo saggio il profondo legame che intercorreva tra la domus ed il sottostante corso del fiume, imprescindibile per mantenere i rapporti con le dipendenze della precettoria romana nella Marittima che diventavano difficilmente raggiungibili via terra in particolari periodi dell’anno per la presenza delle paludi pontine (28).
Sembra quindi a questo punto non essere casuale se il primo documento che accerta la presenza templare sull’Aventino risale al 2 agosto 1211 quando papa Innocenzo III, per sedare una controversia con i cluniacensi, concedeva in enfiteusi ai fratres militiae Templi di S. Maria in Aventino la chiesa di S. Maria in Soresco sul lago di Paola (29), quindi proprio nei pressi delle paludi pontine.
La Sorresca (30), che rappresentava la più importante proprietà extramoenia della precettoria romana, sorge sull’umida penisola del lago di Sabaudia, ed era collegata alla viabilità interna, ovvero alle vie Severiana ed Appia, tramite una strada di modeste dimensioni che ancora oggi si diparte alle spalle del complesso edilizio.
Sulla base dell’attestazione documentaria sappiamo che la domus e l’edificio di culto, erano difese da una cinta muraria che oltre a collegare i fabbricati tra di loro era anche munita di un ponte levatoi che permetteva l’attraversamento di un fossato (31). Chiaro elemento di natura difensiva a cui si aggiungono un antemurale, ed una torre a ridosso dell’edificio di culto, poi utilizzata come torre campanaria (Fig. 4).
Per quanto concerne l’ala residenziale, costituita da materiale eterogeneo congiunto con abbondante malta, essa è collocata ad est dell’edificio di culto, con andamento ad esso perpendicolare senza elementi di tangenza. Si tratta di un lungo parallelepipedo su due piani, simile ad una grangia cistercense. E’ ipotizzabile che al piano superiore, diviso in due ambienti, vi si accedesse in origine, attraverso una scala in legno retraibile che si dipartiva dalla corte centrale.
Le modeste dimensioni dell’insediamento fanno comunque propendere per una struttura in grado di ospitare una modesta comunità rossocrociata, dedita sia allo stoccaggio dei prodotti ittici, che alla salvaguardia di un punto nevralgico della costa, di riferimento per i navigli che percorrevano la rotta della costa del Tirreno centro meridionale (32).
Per tutto il periodo in cui la Sorresca rimase in possesso della precettoria romana dell’ Aventino, rappresentò, come già evidenziato, la sua più importante proprietà extramoenia ed il suo valore accrebbe quando fu affidato ai Templari anche il controllo del promontorio del Circeo. Di tale investitura ci informa un atto del 3 maggio 1259 mediante il quale i Templari cedevano il locus fortificato di San Felice e il tenimentum di S. Maria della Sorresca, e tutte le proprietà della Marittima al vicecancelliere e notaio pontificio Giordano Pironti. In cambio l’ordine riceveva un casale situm in districtu Urbis in contrata que vocatur Piliocti. La transazione avvenuta al tempo del gran maestro d’Italia Pietro Fernandi, indicava come conditio sine qua non il non reclamare in futuro ulteriori indennizzi. L’atto in oggetto cita testualmente il locum Sancti Felicis cum omnibus iuribus et pertinentiis suis et spetialiter cum domibus, turri. La torre a cui fa riferimento il documento, e che gli storici fanno risalire all’operato dei Templari, è il mastio quadrangolare su due livelli che sfruttava il podio di un monumento antico parte integrante di un castello con recinto quadrangolare disposto “nell’angolo del ridotto verso ilnucleo abitato che domina dall’alto di un terrazzamento artificiale risalente all’età romana” e che permetteva di avere un’ampia veduta sulla costa sottostante (33) (Fig. 5).
All’operato dei Templari sono da riportare le sopravvivenze monumentali che precedono il 1301, anno in cui il centro fu acquistato dai Caetani; il rettilineo fronte occidentale delle mura intervallato da semitorri quadre, e la parte inferiore del solido mastio quadrangolare. Quest’ultimo denota una tipologia insediativa estranea al mondo della Marittima e che si inserisce invece perfettamente nel linguaggio dell’architettura militare maturato nei decenni precedenti nell’Oriente crociato e nelle zone di riconquista della penisola iberica. Essi quindi proporrebbero, come afferma Pio Francesco Pistilli, un linguaggio molto attardato soprattutto se confrontato con le soluzioni applicate dopo il 1230 nei fortilizi federiciani o ristrutturati dall’ordine teutonico per conto dell’imperatore svevo nella confinante terra di lavoro (34).
Le vicende degli insediamenti templari di San Felice e della Sorresca si interrompono bruscamente il 3 maggio del 1259; di certo il valore dei beni pontini veniva stimato superiore rispetto a quello del casale situm in contrada qui evocator Piliocti, attuale Tor Pagnotta nei pressi della via Laurentina, con cui venivano permutati.
Del casale collocato a pochi chilometri a Sud di Roma, sussistono ancora, completamente decontestualizzati, pochi lacerti di una torre che doveva essere parte integrante del casale fortificato omonimo, così come mostra un disegno del seicentesco Catasto Alessandrino, all’interno di una tenuta agricola che permetteva, secondo le testimonianze del teste templare Fra Vivolo di Sancto Justino, anche di esercitare l’ospitalità ai poveri (35) (Fig. 6).

La Tuscia viterbese: il secondo momento di penetrazione dell’Ordine

La Tuscia viterbese propaggine settentrionale dell’attuale regione Lazio, aveva nella precettoria di Santa Maria in Carbonara di Viterbo il suo centro propulsore.
Durante il processo indetto contro l’Ordine del Tempio sulla sua porta fu affissa, il 20 dicembre del 1309, la cartam sive membranam contenente le citazioni, inoltre le testimonianze rilasciate da tre servientes, attestarono la sepoltura, nella chiesa, del gran precettore frate Artusius de Pocapalgia e l’indizione di un capitolo dell’Ordine presieduto dal gran precettore del Patrimonium Beati Petri in Tuscia frà Guglielmo Cernerio (36).
Al loro arrivo i cavalieri rossocrociati si stanziarono presso un edificio di culto preesistente, che alcune caratteristiche di natura architettonica e stilistica permettono di datare all’ultimo quarto del XII secolo, realizzando, di contro, ex novo, attorno al 1250, l’edificio residenziale (domus) che collocato perpendicolarmente rispetto alla chiesa, attraverso l’interpolazione di una torre a pianta quadrata, che alle finalità difensive univa le caratteristiche di ambiente di collegamento tra l’ala conventuale e l’edificio di culto, doveva avere la funzione di vera e propria struttura difensiva, come mostrano sul versante orientale l’accesso volante, le mensole a sostegno di uno spalto ligneo, e le piccole feritoie di cui una ancora ben conservata nel prospetto meridionale (Fig. 7). La domus venne costruita su due unici livelli terminanti in un terrazzamento piano, circondato su tre lati da uno spalto ligneo il cui fine era quello della difesa piombante del presidio. Al secondo piano, si accedeva sia attraverso l’accesso “volante” nel versante orientale, sia attraverso le scale realizzate nella torre. L’intera struttura doveva essere poi illuminata da una serie ridottissima di feritoie, uniche aperture che andavano ad alleggerire la muratura in peperino sul prospetto meridionale (37).
La chiesa di Santa Maria in Carbonara non fu la sola a ricevere l’affissione delle citazioni, poiché il 20 dicembre del 1309 gli inquisitori stilarono un vero e proprio elenco delle chiese templari che avrebbero ricevuto sulle loro porte le carte di comparizioni, tra cui San Benedetto di Burleo, Santa Maria di Castell’Araldo, San Savino, Santa Matteo nei pressi di Corneto, San Giulio nei pressi di Civitavecchia e Santa Maria del Tempio nei pressi di Valentano.
Dell’insediamento di Burleo, che i commissari, durante l’inchiesta pontificia del 1373 definirono destructo e completamente abbandonato (38), rimangono solo, in prossimità del fosso omonimo, i lacerti di un muro isolato costituito da piccoli blocchi tufacei allettati con sottili strati di malta in ricorsi regolari che si sviluppa secondo l’asse Est-Ovest per una lunghezza di m 8,65 circa, cui corrisponde uno spessore murario di m 0,95. Secondo Giuliano Romalli, a cui si deve l’individuazione di questa sopravvivenza monumentale, si tratterebbe del lato lungo settentrionale di un edificio a pianta rettangolare, che si apriva al pianterreno attraverso una serie di feritoie rettangolari e comunicava con l’esterno tramite un accesso volante posizionato al secondo livello, proprio sulla testata orientale del fabbricato (39). Dell’insediamento, di cui era parte integrante anche un edificio cultuale dedicato a San Benedetto ora non più visibile, si hanno scarse notizie; ne risulta precettore nel 1290 un certo Johannes de Briscio (40) e nel 1298 il rector Burlegi, con i precettori delle case templari di Castell’Araldo e San Savino, figura tra i rappresentanti dei comuni, dei feudi e dei monasteri convocati al parlamento di Montefiascone dal rettore del Patrimonium Rinaldo Malavolti (41).
Quel che è certo è che Burleo, con le sue alte mura, e con l’annessa chiesa dedicata a San Benedetto, rientrava in una nuova tipologia insediativa creata dai Templari nell’area limitrofa alla città pontificia di Viterbo; un insediamento rurale che sfruttava le risorse del territorio ma che nel contempo era caratterizzato anche da qualificanti strutture difensive.
Alcune analogie con Burleo si riscontrano nel borgo fortificato di Castell’Araldo, a soli tre chilometri da Marta, prospiciente l’argine sinistro del corso del fiume omonimo, ove sono stati ripristinati, grazie ai recenti restauri, sia la piccola chiesa dedicata a Santa Maria delle Grazie, ad aula unica con abside rettilinea, sia i lacerti di alte e spesse mura corrispondenti al fianco settentrionale di un edificio a pianta rettangolare con il prospetto meridionale corrispondente a quello rivolto originariamente verso l’interno dell’edificio, poiché reca ancora evidenti le impronte dell’intera articolazione in alzato (Fig. 8). L’ala residenziale prevedeva la sovrapposizione di ben tre livelli, di cui quello inferiore voltato a botte, a seguire un lungo salone coperto da un impalcato ligneo e munito di un accesso volante ed infine un ultimo livello diviso internamente in due ambienti con almeno due finestre, una all’interno di ciascun vano (42).
Sulla destra del fiume Marta, tra Marta e Tuscania, e probabilmente nei pressi della via consolare Clodia, nell’attuale località nota come Castel Bronco, si trovano le poche vestigia, ricoperte da una fitta vegetazione, riferibili all’abbazia e al castello di San Savino. Nel 1373 la chiesa risulta annessa a San Leonardo di Tuscania, insieme a quella di Sant’Antonio, ma entrambe ‘sunt destructe’. L’indagine condotta dalla British School nel lontano 1975 offre interessanti spunti di riflessione, riportando infatti alla luce un vero e proprio complesso fortificato alla stessa stregua di Castell’Araldo e della Rocca di S. Felice Circeo. Una particolare tipologia insediativa, quindi, che si differenziava sensibilmente dalle precettorie urbane ‘intramoenia’ caratterizzate da edificio di culto ed ala residenziale. L’insediamento di San Savino era caratterizzato, infatti, sia da un castrum sia da un’abbazia alla quale era annesso un edificio di culto. Il castrum costruito su di un altopiano pianeggiante sul punto meridionale di un ampio crinale dal quale era separato da un fosso, era controllato da una fortificazione a pianta rettangolare, di oltre 20 metri per lato, dalle spesse mura, realizzate con pietrame non omogeneo ma regolarizzato da abbondante malta, e da una torre di 10 metri quadrati dalle spesse mura, forse realizzata anteriormente al castello. A Sud-Ovest della rupe si trovava l’abbazia, ambiente rettangolare dalle modeste dimensioni (circa 35 metri quadrati). La chiesa fu oggetto di una visita apostolica il 2 gennaio del 1574 che così la descrive: (…) Dicta die continuans visitationem pervenit ad/ Ecclesiam Sancti Savini extra et prope muros/ dictae Civitati qua est Reverenda Camera Apo- stolica et vidit/ quod dirura erat solum modo pars ecclesia ubi sunt/ tres tribunae erecta manet vidit quod […] […]/ [funes] erant [tam] (43).Della chiesa di San Matteo a Corneto purtroppo non rimane traccia se non nella toponomastica moderna nell’attuale località “Casale San Matteo”, e in alcune carte topografiche di fine settecento ove si scorgono le rovine di una torre, un fontanile ed un fosso dedicati a San Matteo. Ancora una volta, però, l’analisi dei cabrei seicenteschi permette di ripristinare, almeno in parte, la facies medievale di questo importante insediamento templare. Infatti in un cabreo del 1628 conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze (44), l’area in oggetto viene identificata con la denominazione di Prati alla Torre di San Matheo, e sotto la denominazione di “torre di S.to Mateo” s’individua in realtà un complesso edilizio articolato in due corpi di fabbrica distinti, ma comunicanti, ovvero un blocco principale di pianta rettangolare, al quale si affianca un fabbricato minore. Sono gli stessi elementi che ritroviamo nel successivo cabreo del 1669, che consente di individuare nel fabbricato principale la torre di San Matteo che potremmo definire la vera e propria domus fortificata su due piani, dal coronamento merlato, ed una sorta di edicola situata alle spalle di esso da identificarsi, invece, con l’edificio di culto su pianta rettangolare (45).
L’insediamento templare, caratterizzato quindi dalla chiesa e dalla domus collocate prallelamente l’una rispetto all’altra ma in posizione leggermente sfalsata, a cui si associava probabilmente anche la presenza di una torre interpolata che permetteva un collegamento verticale tra le due strutture, sorgeva in un’area particolarmente strategica nei pressi della via Aurelia a circa tre chilometri in direzione Nord-Ovest dal porto di Corneto in una strada di grande passaggio sia di viaggiatori e mercanti sia di merci, con tutto l’indotto economico-finanziario che ciò poteva comportare.
Non molto distante da Corneto, sulla strada che oggi collega Civitavecchia a Tolfa, a circa 700 metri a Nord-Est dalle Terme Taurine, si erge, nel bel mezzo di un pianoro, quella che un tempo fu la torre difensiva, poi campanaria dell’insediamento di San Giulio seu Sant’Egidio di Civitavecchia. Anche in questa precettoria il fratello di mestiere Vivolo de Villa Sancti Justini, dichiarò di aver visto elargire delle elemosine, dato da mangiare ed ospitare povera gente. Ritengo plausibile che i poveri fossero ricevuti ed accolti nell’ambiente limitrofo all’edificio di culto, le cui vestigia sono state riportate alla luce, poi però immediatamente interrate, durante gli scavi del 1940 e descritte nei suoi libretti da Sebastiano Bastianelli, il quale era però convinto di avere davanti a se l’edificio di culto. Alla chiesa, edificio a navata unica con abside semicircolare e strette lancette ad illuminare l’interno, come mostra un cabreo compilato tra il 1613/1618, era annesso uno splendido campanile il solo ad ergersi, sebbene ormai completamente decontestualizzato, nei pressi delle Terme di Taurine. Salvatore Bastianelli ha lasciato, in uno dei suoi libretti di appunti, la descrizione della torre così come doveva apparire ai suoi occhi durante lo scavo del 1940: Nel lato nord del campanile, si osserva un arco, che sembra esser stata l’antica porta. Dovendosi fare dei restauri al detto campanile l’ufficio per la Conservazione dispose che venisse fatto un saggio per vedere cosa fosse quell’arco. Il saggio è stato spinto fino a circa m. 1,50 e cioè fino a quando è stata rinvenuta la risega delle fondazioni, e ha dato come risultato che trattasi di un arco di sostegno.
Francesco Correnti, considera invece l’arco con ghiera rastremata identico a quello della porta d’accesso al Castello dell’Abadia di Vulci, quindi la porta d’accesso alla torre.
Di certo la splendida decorazione della torre che va ad ornare il marcapiano tra l’attuale secondo e terzo piano in nenfro a damier (46) originario della Piccardia, sopra quattro archetti su peducci, fa di questa torre un vero e proprio gioiello di architettura medievale, databile al secondo quarto del Duecento (Fig. 9).
Quel che è certo è che la presenza di sottili feritoie sui tre prospetti ancora integri della torre/campanile, attestano che essa in origine svolgeva la funzione di torre difensiva, o comunque di avvistamento. Anche l’interno rispetta fedelmente la scansione degli spazi e l’alleggerimento strutturale tipico di una torre difensiva; tre i piani originali, di cui il primo coperto da una volta a crociera, ancora integra, poggiante su costoloni a tutto sesto, su una vela della quale si apre una botola per accedere al piano superiore, del quale si è persa la copertura originaria probabilmente in legno. Se la presenza della decorazione a damier attesta una sua derivazione da stilemi prettamente francesi, l’evidente analogia con la torre del campanile della chiesa di San Giusto a Tuscania testimonia, invece, dal punto di vista meramente architettonico, così come l’utilizzo del “macco”, calcare sabbioso giallo-biancastro, ben connesso con abbondante e salda malta, il radicamento ad una tradizione prettamente locale (47).
Nei pressi della moderna frazione Villa delle Fontane, in posizione isolata e panoramica sul Lago di Bolsena, fuori dal centro abitato, sorge il complesso di Santa Maria del Tempio a Valentano. L’insediamento si articola in tre edifici, oggi comunicanti tra di loro: la chiesa e l’edificio conventuale costituito da due blocchi edilizi. L’oratorio, noto anche come Santa Maria de Nempe (probabile corruzione della parola Tempio), a navata unica, chiuso in origine da un’abside semicircolare, mostra sul fianco sinistro un passaggio (ora murato) che permette di accedere direttamente al lungo parallelepipedo di chiara fattura ottocentesca. Infatti i cabrei seicenteschi e settecenteschi conservati presso la Biblioteca del Sovrano Mi- litare Ordine di Malta a Roma e presso la National Library of Malta non solo sono privi proprio del settore dell’edificio parallelo alla chiesa, ma mostrano inoltre, al contempo, una torre diruta alle spalle delle due strutture “(…) E dietro detta Casa vi sono Casalini antichi del tutto rovinati” (48) (Fig. 10). E’ Ipotizzabile che la torre facesse parte delle sopravvivenze medievali, e costituisse ancora una volta quel perno tra domus ed ecclesia riscontrata anche in altri insediamenti.

Le castellanie

All’interno del piano di consolidamento del potere pontificio nel Lazio, rientrano a pieno titolo agli inizi del XIII secolo le castellanie. Il papato aveva infatti deciso di provvedere direttamente al controllo del territorio attraverso l’utilizzo di castellani di fiducia, evitando in tal modo di confidare su alleanza politiche, alcune volte molto incerte. Per tale motivo Papa Gregorio IX il 16 gennaio 1234 aveva stilato un elenco delle castellanie che non dovevano essere alienate, ma gestite direttamente dalla Santa Sede, spesso con l’ausilio dell’Ordine del Tempio (49). Tra di esse ricordiamo solo a titolo meramente esemplificativo le castellanie della Rocca dell’Abbadia di Vulci , di Trevi nel Lazio, di Lariano ed Ariccia. Nel primo caso nel 1283 il castellano incaricato fu Uguccione da Vercelli, cubiculario papale e futuro Gran Precettore della provincia templare Italia, a cui succedette Fra Paolo, proveniente dal vicino Castel Ghezzo, insediamento fortificato attestato nell’entroterra a Nord di Tarquinia, ove compare come castellano nel 1294 e nel 1295. Figura quella di Fra Paolo di particolare riguardo tanto che quattro anni prima era stato nominato castellano di Cencelle e di Monte Cocozzone, entrambi situati sui monti della Tolfa. Per quanto concerne la castellania di Trevi nel Lazio, Urbano IV ne affidò la custodia, tra il 1263 ed il 1265, a frate Martino de Ordine Militie Templi familiari nostro, mentre il castrum di Lariano, vedeva in frate Raimondo, attivo negli anni Sessanta del Duecento, un abile castellano, tanto che 20 febbraio del 1298 riceveva l’incarico con il confratello Mauro, da parte di
Bonifacio VIII della custodia del fortilizio e della vicina Ariccia (50).

Note

1 Ringrazio sentitamente per alcune interessanti indicazioni e consigli gli amici Elena Bellomo, Emanuel Buttigieg ed Enzo Valentini, e la dott. Maroma Camilleri della National Library of Malta.
2 Cadei, 2003, p. 32.
3 Cadei & Ascani, 1995.
4 Romalli, 2003, p. 323 e n. 45; Bagnarini, 2005, pp. 29–44.
5 Romalli, 2003, p. 323
6 Bagnarini, 2010; Romalli, 2005, pp. 37–68.
7 Pistilli, 2003, pp. 157–200.
8 Silvestrelli, 1917, pp. 491–539
9 Gilmour Bryson, 1982, 2007, pp. 209–228.
10 Luttrell, 1971, pp. 90–124.
11 Associazione Archeologica Centumcellae, 1988.
12 Correnti, 2005, pp. 196–201. Si deve a Enzo Valentini l’identificazione della chiesa di S. Egidio con quella templare di S. Giulio, così come appare negli atti del processo indetto contro l’ordine del tempio. Valentini, 2008.
13 Bellomo, 2013.
14 Ashby, 1970.
15 Rossi, 1996, pp. 587–595.
16 Bagnarini, 2011.
17 Bagnarini, 2005, pp. 31–32.
18 Gylmour Bryson, 1982, pp. 163–169, 171–186.
19 Gylmour Bryson, 1982, pp. 200–212, 248.
20 Bagnarini, 2005, pp. 30–31
21 Bagnarini, 2011, pp. 105–116.
22 Gylmour Bryson, 1982, p. 93.
23 Nicholson, 2007, pp. 195–207; Forey, 2003, pp. 109–141; Barber, 2000, pp. 148–168; Nicholson, 2012, pp. 193–206.
24 National Library of Malta, Cabreo della Commenda dei SS. Giovanni e Vittore in Selva di Montefiascone (1625), AOM 5602, f. 33v.
25 Romalli, 2003, pp. 322–323.
26 Archivio del Sovrano Militare Ordine di Malta a Roma, (ASMOM), Cabreo della Commenda di S. Lucia di Viterbo (1651), Cabrei 131, f. 26.
27 Gallavotti Cavallero, Montini, 1984; Pistilli, 2003, pp. 157–200.
28 Pistilli, 2003, p. 163.
29 Ciammaruconi, 2003, pp. 73–74.
30 Cristino, 2003, pp. 103–156.
31 Cristino, 2003, p. 116; Bagnarini, 2013. 32 Bagnarini, 2011b.
33 Pistilli, 2003, p. 177.
34 Pistilli, 2003, pp. 174–179.
35 Gilmour Bryson, 1982, pp. 220–221.
36 Bagnarini, 2012, pp. 241–249.
37 Nei decenni immediatamente successivi, il blocco turrito dell’ala residenziale fu ampliato attraverso l’aggiunta di un ulteriore livello, che assunse i connotati di un vero e proprio piano residenziale, sottolineato dalla presenza, nei tre prospetti visibili, di coppie di bifore, di cui solo quelle presenti nel versante occidentale mostrano qualificanti elementi decorativi ad indicare una vera e propria facciata di rappresentanza.
38 Luttrell, 1971.
39 Romalli, 2012, pp. 181–185.
40 Bagnarini, 2011, pp. 105–116.
41 Fabre, 1887, p. 182.
42 Romalli, 2012, pp. 182–183.
43 Archivio Segreto Vaticano (ASV), Congregazione Ve- scovi e Regolari, Visita Apostolica, busta 32, ff. 18v–19r.
44 Alla soppressione del governo francese i documenti relativi all’antico Priorato di Pisa di cui dipendeva in età moderna la commenda di Corneto, confluirono presso l’Archivio di Stato di Firenze, nel fondo Corporazioni religiose soppresse dal Governo francese.
45 Romalli, 2012, p. 173.
46 Viollet-Le-Duc, 1868, pp. 24–25. 47 Bagnarini, 2013.
48 National Library of Malta, 1611 Cabreo della Commenda di S. Magno di Gradoli Italian Malta Series II, AOM 5640, f. 193r.
49 Auvray,1896: col. 945, doc. n. 175.
50 Ciammaruconi, 2003, pp. 85–87.

nadia.bagnariniNadia Bagnarini (Roma, 1975) si è laureata in Lettere e Filosofia, indirizzo Storia dell’Arte medievale, presso l’Università “La Sapienza” di Roma, con una tesi sulla precettoria templare di Santa Maria in Carbonara di Viterbo, relatore prof. Antonio Cadei. E’ diplomata in Archivistica presso la Scuola dell’Archivio Segreto Vaticano e dell’Archivio di Stato di Roma, con i quali collabora attualmente nel riordino di fondi storici. E’ borsista presso la Scuola Dottorale “Riccardo Francovich”, Storia e Archeologia del Medioevo, Istituzioni e Archivi, dell’Università degli Studi di Siena con una tesi dal titolo “Il fondo dell’Abbazia delle Tre Fontane ad Aquas Salvias presso l’Archivio Vaticano: inventario analitico e storia istituzionale”. Svolge inoltre l’attività di operatore didattico-storico dell’arte presso il Servizio Educativo della Galleria Borghese di Roma e del Polo Museale della Città di Roma e collabora con la Galleria Doria Pamphilj di Roma. Da anni si occupa dello studio storico architettonico degli insediamenti degli Ordini religioso-militari nell’Italia centrale, con particolare riferimento all’Umbria e al Lazio, partecipando a convegni nazionali ed internazionali. Autrice della monografia “L’insediamento templare di Santa Maria in Carbonara a Viterbo. Dalla facies medievale alle trasformazioni moderne. Storia e Architettura” (Edizioni Penne e Papiri, Tuscania, 2010), e curatrice con Cristian Guzzo della rivista “Deus Vult. Miscellanea di studi sugli Ordini militari”. Ha contribuito, tra l’altro, alla messa a punto dell’itinerario Arna Templare. Attualmente si sta occupando della ricostruzione storico archivistica di alcune famiglie aristocratiche umbro-romane che saranno oggetto di convegni e pubblicazioni.
Contatta l’autrice.
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