Tra Turchi e Protestanti: immaginare le crociate

Luigi IX il Santo, re di Francia
Luigi IX il Santo, re di Francia.

di Alessandro Vanoli.

Quando gli Europei giunsero nel Nuovo Mondo le crociate erano ormai finite da un pezzo. Certo, spesso venivano invocate contro i mori, i Turchi o qualsiasi generico infedele, ma alla fine succedeva ben poco. In fondo, come hanno sottolineato in tanti, già con le crociate di San Luigi (1248-54; 1267-70) era iniziato il definitivo tramonto di quel periodo, «di quella fase aggressiva di una cristianità penitenziale e autosacrificale». Durante i due secoli successivi le crociate, certo, ebbero un peso significativo, ma progressivamente minore. Gli scrittori dei secoli XIV e XV ricordarono spesso che le guerre in Europa ostacolavano la lotta contro l’islam, ma il mondo stava ormai cambiato e tali appelli produssero scarsi risultati. Quando, infine, la crociata scomparve dai trattati di giurisprudenza dell’Occidente, sfumò poco alla volta anche la sua identificazione con la riforma spirituale e di qui, per logica conseguenza, diminuirono le funzioni religiose e sociali ad essa associate: elemosine, lasciti, preghiere.

Quello che sopravvisse fu invece il ricordo della crociata e l’immagine della guerra per la Terra Santa intesi come ideale di vita. Un tema, questo, di cui si occuparono in tanti, specie alla fine del XV secolo, quando la minaccia ottomana cominciò a farsi sempre più concreta. Le parole per descrivere queste nuove battaglie contro i Turchi giungevano in larga parte dal lessico già utilizzato ai tempi delle crociate. Così fu – per fare un esempio particolarmente drammatico – quando, nel 1453, cadde Costantinopoli. Non furono pochi quelli che paragonarono la caduta della Romania al trionfo di una nuova barbarie su una Grecia caduta. Tanto i sovrani europei quanto gli umanisti [1] levarono le loro voci davanti a alla rinnovata minaccia del nemico musulmano, che ora aveva il volto del sultano Mehmed II, ma che per tanti versi, assomigliava moltissimo ai tanti nemici dei tempi delle crociate e della riconquista:

La vita del crudele Mehmed era improntata a questi spietati principi: …abbandonarsi a qualunque scelleratezza con estrema ferocia, credere che nulla a lui sia vietato e che invece sia lecito tutto ciàò che gli piace, ritenere onesta qualsiasi cosa senza distinguere da ciò che è turpe, considerare non vergognoso ciò che la natura proibisce anche ai bruti; nemico della giustizia, il suo animo non aveva alcun sentimento di pietà e di lealtà, ma era dedito all’inganno. […] Nemico della pace gli piacevano le guerre disumane e innanzi tutto egli, empio e barbaro pagano, considerava nel suo cuore il nome di Cristo come il peggior nemico…

Il ritratto del conquistatore di Costantinopoli è opera di un letterato bresciano non troppo noto, un certo Ubertino Pusculo che giunto nella capitale imperiale per imparare il greco ebbe la disgrazia di trovarsi davanti all’esercito ottomano il giorno della conquista [2]. E che tale ritratto sia a dir poco ingeneroso è più che ovvio: in fondo il povero Pusculo dai turchi fu trascinato via in catene e dovette attendere che un mercante fiorentino lo riscattasse (e tralasciamo che dopo tale riscatto al fortunato umanista toccò pure di essere trascinato a Rodi dai pirati…). Il punto rilevante non è questo; sono le parole che contano: nemico della giustizia (Iustitiae infensus), dedito all’inganno (fraudes inerant), amante delle guerre disumane (fera bella placebant), al lettore giunto sino a queste pagine spero sarà ormai chiaro che non è tanto il ritratto di Mehmed II, quanto quello del nemico musulmano, secondo i criteri che i secoli delle crociate e della riconquista avevano contribuito a definire.

Ma come ho spesso ripetuto in queste pagine, una cosa sono le parole un’altra le istituzioni. Ci si provò a bandire una nuova crociata contro gli invasori Turchi, anzi, la si bandì pure, il 14 gennaio 1460. Ma poco dopo, nel marzo dello stesso anno, Pio II doveva ammettere che la realtà, per la chiesa, era ormai tutt’altro che rosea:

Se pensiamo di indire un concilio, Mantova ci insegna che è idea vana. Se mandiamo inviati a chiedere aiuto ai sovrani, essi sono derisi. Se imponiamo decime al clero, questo si appella a un concilio futuro. Se emaniamo indulgenze e incoraggiamo la contribuzione di denaro con doni spirituali, siamo accusati di cupidigia. La gente pensa che nostro solo scopo sia di ammassare oro. Nessuno crede a quel che diciamo. Simili a mercanti insolventi, siamo senza credito [3].

Insomma, si poteva pure dichiarare guerra al turco, ma era prevedibile ormai che gli effetti sarebbero stati scarsi. E questo per molti motivi, non ultimo il fatto che in quel nuovo Mediterraneo alle soglie di una nuova era, si poteva cominciare a guardare i nuovi padroni di Costantinopoli come una potenza politica simile a tutte le altre d’Europa o come importanti partner commerciali. Esempio tra i tanti questa missiva della Signoria fiorentina al principe turco del 6 agosto 1460, dove il problema è, di fatto, quello di intendersi sullo sfruttamento dei mercati ex-bizantini:

Al Turco. Poiché i nostri cittadini che in passato erano soliti navigare fino a Bisanzio, città vostra, conoscono la vostra clemenza, onestà. Giustizia in tutte le cose e l’eccezionale [vostro] amore per la nostra città […] vogliamo quindi pregarla e scongiurarla con questa brevissima lettera affinché voglia accogliere benevolmente e difendere da ogni molestia o insidia quegli uomini che adesso giungono di nuovo a Bisanzio con le nostre navi, e permettere che essi commercino alle stesse condizioni alle quali gli altri mercanti sono soliti commerciare… [4]

Insomma, se da una parte l’autorità pontificia poteva ben poco contro questa nuova minaccia, dall’altra la guerra contro gli infedeli assunse sempre di più i tratti di un ideale di vita, di una volontà lontana, ormai, da qualsiasi istituzionalizzazione ecclesiastica. Da più parti, anzi, affiorava l’idea che la resistenza all’invasione musulmana in terre cristiane fosse legittima, certo, a patto però che essa non si facesse per motivi religiosi: lo affermò Giovanni di Segovia da parte cattolica, lo avrebbero ribadito successivamente Erasmo e Lutero. E’ noto che le posizioni di Lutero in materia di musulmani siano state particolarmente complesse. Non mi ci soffermerò se non per accennare a un fondamentale cambio di prospettiva che si compie in poco meno di un decennio: attorno al 1520 aveva, infatti, sostenuto che «Combattere contro i Turchi è opporsi a Dio, il quale visita le nostre iniquità per mezzo loro» [5]; una dozzina di anni dopo le cose erano evidentemente molto cambiate, se è vero che in un suo scritto del 1529 Lutero ammetteva che ogni cristiano fosse autorizzato a combattere contro i Turchi, ma che dovesse essere la mano secolare dell’imperatore Carlo a guidare questo scontro [6].

In quei primi decenni del ‘500, insomma, la secolarizzazione della guerra santa divenne, un po’ paradossalmente, sia la principale causa della disintegrazione delle crociate come ideale, sia il ponte attraverso il quale l’ispirazione e l’entusiasmo per la guerra contro gli infedeli poté raggiungere chi si opponeva per motivi confessionali alle crociate tradizionali [7].

Da parte cattolica, è naturale, non si trattò di un processo rapido: questa serie di tendenze si scontrava con istituzioni ancora profondamente legate alla tradizione. Le bolle crociate di Leone X (1513-21), Pio V (1566-72) e Gregorio XIII (1572-85) si rifacevano anacronisticamente, infatti, a una chiesa occidentale ancora unita e alle crociate di due o tre secoli prima. Il che non vuol dire che non aumentassero i dubbi: Paolo III (1534-49) provò a far limitare dal Concilio di Trento le bolle di indulgenza per le crociate; mentre nel 1567 Pio V abolì la vendita delle indulgenze, compiendo un passo decisivo nel processo di secolarizzazione della “guerra giusta”. Parallelamente l’elaborazione di leggi secolari internazionali in materia di guerra, da parte di teorici come Gentili (m. 1608) e Grozio (m. 1645) negava con sempre più chiarezza la possibilità di una giustificazione religiosa come sufficiente giusta causa.

Ma il fatto che sul piano giuridico e politico la crociata fosse sempre meno probabile, non toglie che la sua memoria continuasse ad esercitare un diffuso fascino e che, anzi, sotto la spinta della frattura luterana ritrovasse pure una certa vitalità, almeno sul piano retorico. Così capitò sempre più spesso che in ambito cattolico si proponessero espliciti accostamenti tra protestanti e Turchi, come quello presentato senza troppi giri di parole da Mosco di Armentières nella sua introduzione alla Historia Orientalis di Giacomo di Vitry [8]:

Da qui infatti il lettore capirà quale sia stato in quel tempo il culto di Dio e delle cerimonie sacre, ricevuto dagli antenati e mantenuto con somma costanza. Da qui vedrà anche quanto turpi e quanto discordi dalla retta ragione siano ste allora la vita e la dottrina di Maometto. Da qui prenderà anche le armi contro gli altri eretici posteriori a Maometto, come i Luterani e gli altri evangelici pseudoprofeti. Infatti il luteranesimo ha non pochi punti della sua falsa dottrina connessi con il maomettanesimo (sic)…

Inutile dire che analogo trattamento finirono col ricevere i cattolici in ambito protestante. Già Lutero stesso era stato chiaro nell’assimilare i papisti ai Turchi e, come abbiamo appena visto, il suo rifiuto dei fondamenti giuridici e teologici legati all’impresa d’oltremare non aveva implicato necessariamente la sua condanna di un conflitto contro gli infedeli. Queste posizioni si sarebbero naturalmente ripresentate in molta riflessione protestante successiva. Valga per tutti l’esempio importante di John Fox, il quale nella sua History of the Turks (1566) ricordava che i musulmani erano i “nemici di Cristo”, anche se «l’encomiabile desiderio di combattere l’infedele era stato» – ovviamente… – «corrotto dal cattolicesimo romano» [9].

Ad argomentare sull’importanza dell’idea di crociata in ambito protestante si finirebbe lontano e – in parte almeno – fuori tema. Preferisco risparmiare al lettore ulteriori riferimenti a erudite opere di teologia o giurisprudenza, limitandomi a ricordare che anche lo stesso Shakespeare fu piuttosto chiaro quando fece dire al suo Enrico IV che, di fronte al sangue versato in lotte fratricide, meglio sarebbe stato impegnarsi per il recupero del sepolcro di Cristo [10]. Niente più che un accenno, dicevo, ma utile per ricordare, semmai ce ne fosse bisogno, che nelle mutate condizioni politiche del XVI secolo il tema della crociata si fece popolare al di là delle divisioni politiche e religiose, divenendo materia di teatro, di letteratura, di finzione poetica:

Ma fu de’ pensier nostri ultimo segno
espugnar di Sion le nobil mura,
e sottrarre i cristiani al giogo indegno
di servitù cosí spiacente e dura,
fondando in Palestina un novo regno,
ov’abbia la pietà sede secura;
né sia chi neghi al peregrin devoto
d’adorar la gran tomba e sciòrre il voto.

Questo passo della Gerusalemme liberata [11] è piuttosto noto e mi ci soffermo solo brevemente: sono le parole di esortazione rivolte da Goffredo di Buglione ai principi crociati affinché – dopo sei anni dall’inizio dell’impresa – rompano finalmente gli indugi, abbandonino i troppo allettanti affetti terreni e muovano una buona volta contro Gerusalemme. Certo, i personaggi del Tasso, Goffredo di Buglione o l’immaginario Rinaldo, si muovono in un Oriente favoloso che ha più che vedere con i mondi incantati che aveva narrato Ariosto piuttosto che con qualsiasi realtà storica [12], ma a noi la cosa non importa più di tanto: il poema si diffuse in Europa, fu letto e tradotto, contribuendo non poco ad alimentare il successivo immaginario sulle crociate. Senza alcuna possibilità di approfondire, mi limito a rimandare il lettore alla lunga filiera di canzoni guerresche, di tanto in tanto qui evocate: la Chanson de Roland, Amadis de Gaule, lo stesso Don Chisciotte (almeno da un certo punto di vista) e naturalmente i nostri Ariosto e Tasso; un elenco che non spiega nulla, ma che ci racconta, almeno, di quanto lo scontro con i mori seppe, in quel tempo, dominare l’immaginario.

Bibliografia

Gran parte del testo è ripreso, anche in questo caso, dal mio Le parole e il mare, Aragno, Torino 2005.

Una buona introduzione ad alcuni dei temi trattati è in J. Riley-Smith, Breve storia delle crociate, Mondadori, Milano 1994

Sul tema della percezione dell’islam al tempo della Riforma non c’è molto – almeno in italiano – in tedesco si veda l’importante opera di H. Bobzin, Der Koran im Zeitalter der Reformation, Beirut 1995, per Lutero in particolare pp. 90-97.

[1] Si veda su questo R. Schwoebel, The Shadow of the Crescent: The Renaissance Image of the Turk, Nieuwkoop 1967.
[2] Ubertino Pusculo, Costantinopolis, II, 261-78, in A. Pertusi (a cura di), La caduta di Costantinopoli. Le testimonianze dei contemporanei, Milano 1976, pp. 201-3.
[3] Cit. in J. Riley-Smith, Breve storia delle crociate, Milano 1994 (ed. ingl. New Haven-London 1987), pp. 307-8.
[4] Cit. in F. Cardini, Il movimento crociato, Firenze 1972, pp. 120-21.
[5] Tale posizione è riportata al punto 34 della bolla bontificia Exurge Domine, emanata da Leone X il 15 giugno 1520 per condannare una serie di tesi luterane.
[6] Vom Kriege wider die Türken, in D. Martin Luthers Werke, Weimar 1883, 30, II, 173.
[7] Tyerman, L’invezione delle crociate, cit., p. 165.
[8] Jacobi de Vitriaco,… libri duo, quorum prior orientalis, sive hierosolymitanae, alter occidentalis historiae nomine inscribitur. Omnia nunc primum studio & opera D. Francisci Moschi,… e tenebris & amp; situ in lucem edita, Douai 1597, Praefatio ad lectorem.
[9] J. Foxe, Acts and Monuments, a cura di S.R. Cattley, London 1837-41, IV, pp. 18-21; 120-21.
[10] The History of Henry the Fourth, I,1: “Therefore, friends, as far as to the sepulchre of Christ – whose soldier now, under whose blessed cross we are impressed and engaged to fight – forthwith a power of English shall we levy”.
[11] Gerusalemme liberata, I, 23.
[12] Altro caso di bibliografia sterminata. Sulle fonti della Gerusalemme liberata si vedano almeno il classico di G. Getto, Nel mondo della «Gerusalemme», Firenze 1968, inoltre L. Caretti, Tasso e Ariosto, Torino 1977; E. Raimondi, Il dramma nel racconto. Topologia di un poema, in Id., Poesia come retorica, Firenze 1980; C. Scarpati, Tasso, i classici e i moderni, Padova, 1995.

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Alessandro Vanoli

È nato a Bologna il 18-9-1969. Si è laureato in storia della filosofia medievale presso l’Università di Bologna dove successivamente si è specializzato in storia con Valerio Marchetti. Ha studiato arabo presso la Bourguiba University di Tunisi ed ebraico a Bologna. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia sociale europea presso l’Università di Venezia sotto la guida di Giorgio Vercellin, con una tesi su Pratiche e immagini della guerra tra Cristianità e Islam nell’alto medioevo spagnolo (secoli X-XI). È attualmente docente a contratto di Politica comparata del Mediterraneo presso l’Università di Bologna (sede di Ravenna) e docente a contratto di Cultura Spagnola presso l’Università Statale di Milano.

Ha svolto ricerca presso università e centri scientifici in Germania (2000), Tunisia (1999, 2000, 2004), Argentina (2004), Spagna (1999, 2000, 2005).

Ha insegnato arabo classico dal 2000 al 2004 presso il Centro Poggeschi di Bologna.

È membro dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (ISIAO). È membro dell’Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG). È membro del consiglio accademico della Maestría en Diversidad Cultural della Universidad Nacional de Tres Febrero di Buenos Aires (Argentina). È membro del comitato scientifico della rivista Religioni e società. È collaboratore della casa editrice Rizzoli con particolare riguardo alle pubblicazioni di ebraistica e islamistica.

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