di Attilio Bartoli Langeli, Sonia Merli.
Tratto da Civiltà urbana e committenze artistiche al tempo del maestro di Offida (secoli XIV-XV), Atti del convegno (Ascoli 2011), a cura di S. Maddalo – I. Lori Sanfilippo, Roma, ISIME, 2013.
Per utilità e decoro della città
Quando parlano delle fontane pubbliche, i più impegnati documenti cittadini (statuti e deliberazioni) sono improntati all’orgoglio. Tra i termini più tipici del lessico comunale, due sono quelli che ritornano a proposito delle fontane: l’utilitas e il decus. L’utilitas (ovvero commodum, ovvero profectus) sta a significare il mettere a disposizione della cittadinanza un bene pubblico1. Nel nostro caso, l’acqua. Facendo una fontana e dichiarandola fatta ad utilitatem civitatis, il Comune afferma che quel fonte, quell’acqua è di tutti e di nessuno; è, insomma, bene comune, uso civico; è una vittoria, piccola o grande non importa, sui tanti particolarismi che segnavano i diritti sulle acque. La fontana è una dichiarazione visibile della pubblicità e della libertà di prelievo dell’acqua, prima riservata ai privati proprietari di pozzi e cisterne. Bonum commune: hai così una riprova della forza espressiva di quella parola latina declinata al neutro, commune, che ha forgiato in maniera indelebile l’Italia delle città2.
L’altro motivo di orgoglio è il decus della città, l’ornamentum di essa, un obiettivo perseguito con attenzioni al contempo estetiche e di funzionalità. La fontana è utile ma deve essere una cosa bella, che impreziosisce il paesaggio urbano: lo sgorgare limpido dell’acqua, il lieve mormorio degli zampilli (iocundo murmure fontes, dice di sé la fontana di Perugia3) danno gioia agli occhi e ai sensi. Lo Statuto di Treviso dice che i fonti, insieme con le acque che scorrono, sono la bellezza della città: «cum pulcritudo sit quedam civitatis Tarvisii fontes, flumina et cagnani»4. Un analogo concetto viene espresso a Siena: «cum copia fontium et aquarum habundantia decoret plurimum civitates»5. La fontana pubblica comunale è un piccolo gioiello, che ingentilisce la, per il resto solenne e grandiosa, politica comunale della bellezza. In particolare lo è la fontana della Piazza grande, in quelle città che decidono di farla. Sappiamo bene quanto impegno misero i Comuni nel creare una piazza che rappresentasse, diremmo oggi, il primato della politica ed esaltasse il prestigio della città, che fosse una sorta di vetrina offerta all’ammirazione dei cittadini e dei forestieri. Quello spazio doveva essere potente, doveva incutere timore e rispetto; e insieme doveva essere cortese e attraente, insomma bello, e perciò spesso venne scenograficamente completato dalla costruzione di fontane monumentali.
Non si vogliono affatto affermare, di queste due direttrici del governo comunale (e in specie popolare), la perfetta coerenza e la sovrana assolutezza ideologica: sia il perseguimento dell’utilitas pubblica, dell’appropriazione dei diritti sulle funzioni e risorse urbane (compresa l’acqua); sia la politica del decus urbano, il riassetto del paesaggio cittadino nel suo complesso e nel suo vertice, la piazza grande, dovevano fare i conti con il preesistente, e dunque si svolsero per compromessi e adattamenti, ebbero accelerazioni in avanti e ritorni indietro. Ma sta di fatto che la fontana questo vuole rappresentare, il successo del Comune e del Popolo nel governare e modellare la città al servizio della collettività6.
Portare l’acqua in città
La fontana dunque unisce l’utile e il dilettevole. Essa è l’emergenza visibile, alla luce del sole, del sistema di approvvigionamento idrico della città7. Per mettere l’acqua a disposizione della cittadinanza, ad alcune città era sufficiente raccogliere e canalizzare le acque sorgive, piovane e d’infiltrazione. Altre città, specie quelle d’altura, posero in atto impegnativi interventi di ingegneria idraulica, che riuscirono più o meno bene e comunque, specie se mal riusciti, furono sempre all’ordine del giorno.
Quelle che l’avevano, rimisero in funzione l’antico acquedotto romano (per esempio Cortona e Tarquinia, per non dire di Roma); altre, che non l’avevano, provarono a farsene uno nuovo “alla romana”, parte interrato e parte sospeso, con arconi e cunicoli, sifoni e condotte forzate. Un’impresa nella quale si cimentarono nel Due-Trecento poche città: Sulmona nel 1256, Viterbo nel 1276, Perugia nel 1278, poco più tardi Orvieto e Spoleto8; e ancora, con acquedotti minori, Assisi, Gubbio e Massa Marittima9. A far fede dell’impegno di simili opere è sufficiente la più ardita, il cosiddetto Ponte delle Torri di Spoleto10.
Quale che fosse la provenienza delle acque, tutte le città realizzarono una rete interrata di condutture per l’adduzione idrica nei diversi luoghi dell’abitato, per servire le esigenze alimentari, igieniche e manifatturiere del popolo. Gli sbocchi dell’acqua alla luce del sole contavano così, accanto alle fontane vere e proprie, piccoli monumenti d’arte, fontanelle e fontanoni, abbeveratoi e guazzatoi, che andavano man mano a ridisegnare e a movimentare il volto della città. Molte informazioni su questo diffuso sistema di fonti forniscono gli statuti cittadini. Ben nota è l’insistenza con la quale ci si adoperò per garantire la manutenzione e l’integrità della rete idrica, per assicurare la limpidezza delle acque chiare (e giù divieti severissimi di fare e gettare turpitudines nei pressi delle fontane o di riversarvi immunditie), per evitare usi impropri e appropriazioni indebite dell’acqua pubblica11. Quanto poi all’installazione di nuovi punti d’acqua e alla manutenzione dei preesistenti, solo la fontana di Piazza e poche altre erano a carico della collettività generale; erano invece a carico dei vicini, della vicinìa le altre, le fontane di contrada12. Altro problema, anch’esso assai presente ai governi cittadini, era quello della reale efficacia delle fontane e fontanelle, non sempre adeguatamente ‘performanti’ dal punto di vista della pubblica utilità e delle esigenze pratiche della collettività13.
Tutto ciò è ben noto, per merito di una bibliografia relativamente abbondante, della quale qui abbiamo fornito solo un assaggio. Qualche maggior difficoltà nel reperimento delle fonti e dei fonti (scusate il bisticcio di parole) abbiamo incontrato per ottenere il nostro scopo, ossia una rassegna delle fontane pubbliche, e in special modo delle fontane di Piazza, secondo i due parametri dello spazio e del tempo. Secondo geografia: l’Italia mediana, tra Toscana, Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo. Secondo cronologia: il Duecento, con prolungamenti fino al Quattrocento. Il fatto è che poche sono le fontane effettivamente impiantate nelle città che siano sopravvissute nella forma originaria e sul sito originario. Parecchi infatti sono i casi di rimozione di fontane, quando ritenute non più rappresentative in contesti urbanistici fortemente rimaneggiati, e ancor più numerosi i rifacimenti e gli spostamenti. La piccolezza in questi casi si è dimostrata un handicap. Ma il campione che presentiamo sembra almeno utile a rappresentare quel che poté avvenire in molte città, anche se non è rimasto documentato né sulla carta né materialmente. Le basi dello studio stanno ovviamente nelle monografie locali e specifiche, poiché manca una trattazione complessiva; a livello generale, piace segnalare l’attenzione che alle fontane riservò Jacques Heers nel suo La ville au Moyen Âge del 199014.
Siena e Viterbo
Ci sono anzitutto città che sembrano perseguire una strategia delle fontane. Per farci capire, altre città (Venezia, Bologna, Pisa…) attuano invece una strategia dei pozzi. Quelle che puntano su una moltiplicazione e dislocazione programmata di fontane sono almeno Siena e Viterbo15. Siena passa attraverso tre fasi, molto precoci16. Inizialmente «aveva raccolto in una prima cintura di fonti suburbane le acque di stillicidio del suo arido sotto suolo»: dunque un fonte per ciascuna porta della città (una delle prime, quella di Porta Ovile). Agli inizi del XIII secolo si dedicava «all’escavazione dei bottini, canali sotterranei che alimentavano le principali fonti cittadine», ossia le fontane dislocate presso i grandi conventi mendicanti, quelli dei domenicani17, minori, agostiniani e servi di Maria, che vedevano così esaltata la loro funzione di ‘punti forti’ urbanistici. Nel 1250 era in grado di programmare l’installazione di fontane anche nei borghi, fino a una distanza di due miglia dalle mura, come attesta il Breve degli officiali di quell’anno18 . Solo all’inizio del Trecento si pensò alla fontana di Piazza, alla quale ci dedicheremo più avanti.
Straordinario, com’è noto, è il caso di Viterbo, detta infatti la città delle fontane, e precisamente delle novantanove fontane (99 è un numero che ricapiterà). Ci basiamo soprattutto sulla monografia di Cecilia Piana Agostinetti del 198519. Per un paio di secoli, Viterbo non fa altro che fontane (si fa per dire, fece anche ben altro); le fa con la sua pietra caratteristica, il peperino. Il tessuto urbano è caratterizzato da piazzette, di forma più o meno regolare, nelle quali compaiono sempre una chiesa e una fontana; un po’ come i campi e campielli di Venezia, una chiesa e un pozzo. A Viterbo ci sono fontane semplici, a vasca rettangolare addossata, poste in prossimità delle porte urbiche; ma nel centro cittadino ce ne sono tante a forma rotonda e monumentale. La più antica è la Fontana del Sepale, Fons Sepalis, poi detta Fontana Grande, attestata fin dal 120620. Nonostante i frequenti rifacimenti, se ne riconosce la struttura originaria: pianta centrale a croce greca, tre vasche sovrapposte sorrette da una colonna centrale terminante con un pinnacolo. Di qui esce l’acqua, che scende da una coppa all’altra attraverso protomi a muso di leone [Fig. 1].
Ne seguirono molte altre. Una rapida elencazione di quelle fatte nella prima metà del Duecento può dare un’idea del fenomeno: degli inizi del secolo sono le fontane di piazza del Comune o piazza Nuova (distrutta nel 1243) e di Pianoscarano; si ebbero poi le fontane di San Tommaso (più tardi detta della Morte); del Palazzo dei Papi; della Crocetta o di Santa Maria in Poggio (teatro di un miracolo di santa Rosa); di San Giovanni in Zoccoli (1246); di piazza delle Erbe; di San Faustino (dopo il 1251); della Rocca. Si arriva al 1255, quando ne furono fatte tre. Lo riferisce il cronista quattrocentesco Niccolò della Tuccia, che ben esprime che cosa rappresentassero le fontane per la cultura comune dei viterbesi: «1255. […] Anche fu fatta una fontana nel chiostro di San Francesco e un’altra nella piazza di Sant’Angelo, e preser l’acqua nella strada di Roma. Anche fu fatto un palazzo a S. Lorenzo e lo domandorno il Vescovato, e il primo Francesco Raniere […] gli fece fare una bella fontana, e fu fatta alle spese del Commune acciò venisse volontà al papa di stare in Viterbo, dove non era mai venuto se non per passaggio»21.
Non solo le fontane di città, ma anche le fonti esterne avevano da essere pregevoli: lo Statuto viterbese del 1251 impone agli abitanti della contrada di San Sisto di fare a loro spese fuori della porta urbica un «fontem pulcherrimum et bene muratum», già denominato Fonte della Rosa22. Nelle fontane viterbesi si riscontra, come dominante elemento iconografico e plastico, il leone; e leonine di solito sono le protomi dalle quali sgorga l’acqua. Il che dipende sì dal fatto che il leone è l’animale simbolo di Viterbo, ma anche dal tòpos leonino di tutta la produzione consimile a livello europeo23. Meglio non uscire dal seminato, pare dire Niccolò della Tuccia: «1470. […] E in quell’anno fu principiata una bella fonte nella piazza del Comune di Viterbo con sei compassi e sei cannelli, che gettavano acqua. In cima alla fonte fu posto un Ercole mal fatto, formato come una vil feminella. Li mastri che la fecero erano fiorentini, e non intesero bene detto lavoro, secondo mio giudicio»24.
Due strutture fondamentali
Le fontane urbane di Viterbo hanno a terra una vasca a pianta circolare, poligonale o cruciforme; al centro di essa s’innalza una colonna, dal vertice della quale sgorga l’acqua. Sono fontane libere e visibili da tutti i lati. Su questa base comune, si distinguono due tipi: la fontana “a fuso”, con la sola colonna verticale, composta e terminante in vari modi; e la fontana “a coppe sovrapposte” (come la fontana del Sepale che si è descritta), con la colonna che sorregge altre vasche rotonde, di solito due. Questa seconda è il modello più caratteristico, la fontana “alla viterbese”, destinata a notevole fortuna. La tradizione della fontana a coppe sovrapposte, formatasi così precocemente e corroborata dalla fama dei maestri fontanari viterbesi (che furono spesso chiamati altrove per prestare la loro opera), s’irradiò soprattutto verso est, nelle città, nell’ordine, dell’Umbria, delle Marche, dell’Abruzzo; e di qui verso sud. Esemplare più famoso, la Fontana di Perugia. Non attecchì invece il tipo della fontana rotonda, in direzione settentrionale, verso le città toscane. Qui domina la tipologia – peraltro presente anche a Viterbo, nelle fonti periferiche e in quelle minori – della fontana a edicola, addossata a una parete, con una o più vasche di forma rettangolare o emisferica, a vista frontale. La fontana a edicola può essere aperta oppure strutturarsi in forma di loggia ad arcate ogivali. Ma le variazioni che s’innestano su questo tipo sono molto numerose. Leggiamo la descrizione delle fontane senesi proposta da Italo Moretti: «Alcune delle maggiori fonti di Siena (Branda, Nuova, d’Ovile, di Follonica, di Pescaia) ebbero una struttura architettonica a protezione delle vasche, costituita da un loggiato quadrilatero, con volte impostate su due o tre arcate a sesto acuto o a tutto sesto (Fonte di Pescaia), aperte sulla fronte principale, talora di grande eleganza formale (Fonte Nuova) da ricordare modelli cistercensi; in qualche caso l’edifico si conclude alla sommità con il solito ricorso di arcatelle pensili e merlatura, come nella più grande e forse più antica Fonte Branda (seppure con interventi di varie epoche) e nella Fonte di Pescaia, successivamente sopraelevata»25 [Fig. 2].
Fontane libere e circolari, e fontane addossate: queste le due strutture fondamentali. Quanto al primo tipo, riservandoci di accennare a Perugia più avanti, consideriamo le fontane di Fabriano e di Gubbio, l’una brevemente e l’altra più diffusamente.
Fontane circolari
Nella platea Comunis di Fabriano, come altrove, il riassetto del tessuto urbano e la ridefinizione dello spazio pubblico in chiave monumentale passano per l’edificazione del Palazzo del podestà (anni 1255-1260) e della grande fontana pubblica ottagonale (1285 circa)26. Pochi anni dopo la Fontana Maggiore di Perugia – di cui replica forma e dimensioni, ma non l’ornamentazione e le scritte incise – la fontana di Piazza costituisce un ulteriore esempio di opera pubblica realizzata in nome del decoro e del bene comune, il cui valore civico permane anche dopo la perdita dell’autonomia comunale27.
Quanto meno singolare è il caso di Gubbio: una fontana dentro il Palazzo pubblico28. La segnalava già Leandro Alberti a metà Cinquecento: «In questa nuova Città, fra gli altri nobili edifici, si vede il Palagio, ove dimorano li Priori, fabricato con grand’arteficio, nel quale (oltre all’altre singolari opere che in esso si ritrovano), èvi una fontana, che salisce sopra tutti gli edifici d’esso, e getta abbondanti e chiare acque nel mezzo d’una largha sala, con gran piacere de’ riguardanti. E condutta etiandio l’acqua di detta fontana per tutte le stanze del detto [Palagio]»29. La novità eugubina sotto il profilo idraulico consiste nell’adduzione dell’acqua ai piani alti di un edificio; per farne che? per alimentare una fontana al chiuso, al centro di un salone al secondo piano del palazzo, con una funzione estetica (per il «piacere de’ riguardanti») ma anche, a quanto pare, di servizio, poiché da essa l’acqua arrivava agli altri locali del palazzo [Fig. 3].
Il palazzo è il Palazzo del Popolo, detto dei Consoli (così erano chiamati a Gubbio quelli che altrove erano i Priori), edificato a partire dal 1332 su un’ardita piazza pensile capace di reggerne la mole a dispetto dello scoscendimento della montagna30. Evidentemente già in fase di progettazione era previsto che esso fosse dotato di un sistema di adduzione e distribuzione idrica31. L’unico fatto simile che si riscontri in Italia è, manco a dirlo, viterbese: si tratta della fontana nella loggia del Palazzo dei Papi, una loggia sopraelevata32. Ma di una fontana al chiuso – la loggia viterbese è aperta e soleggiata – non se ne conosce nessun’altra.
La fontana di palazzo era nata all’aperto, come dimostra la notevole usura dell’invaso. Paolo Micalizzi, il maggiore storico dell’architettura urbana di Gubbio, ritiene che questa fontana fosse l’originario fons arenghi, verosimilmente posto a ornamento dell’antica piazza del Comune. Non è identificazione da poco, poiché il riuso, la “monumentalizzazione” della fontana pubblica avrebbe un surplus di valore: l’operazione lascerebbe intendere «la definitiva sanzione del trasferimento (reale e simbolico) dell’autorità di governo dall’antica ‘platea’ alla nuova residenza consolare» (Micalizzi). Si veniva cioè a stabilire una stretta connessione tra l’acqua, tradizionalmente intesa come fonte di vita e come forza motrice capace di alimentare le attività produttive della comunità, e il potere politico, per il tramite di una metaforica «fonte del potere» (idem). Senza voler ridurre la brillantezza di quest’interpretazione, ci permettiamo un breve excursus, fondato anche su attestazioni inedite (si vedano i documenti riportati nell’appendice allegata a questa relazione), che forse mette in dubbio l’identità tra il fonte di Palazzo e l’ex fonte dell’Arengo. Il che comunque non inficia il fatto fondamentale e solitario: sicuramente una antica fontana, fosse o non fosse quella dell’Arengo, fu portata da uno spazio aperto a un interno chiuso.
Fontane, pigne, alberi
Per tornare alle fontane circolari di Viterbo, frequente è la terminazione della colonna portante con una pigna, dalle cui scaglie esce l’acqua di adduzione33. Per questo elemento ci affidiamo per brevità a quanto scritto da Irmgard Voss nell’Enciclopedia dell’arte medievale34. Il prototipo della fontana a pigna è il càntaro romano che, trovato nei pressi del Pantheon (per questo dà il nome a quel rione), fu poi trasferito nell’atrio della basilica di San Pietro; oggi è ai Musei Vaticani, nel cortile appunto della Pigna. L’esempio medievale maggiore è la fontana a pigna che stava nell’atrio della Cappella palatina di Aquisgrana. Nell’iconografia cristiana, la pigna è il simbolo dell’albero della vita e in particolare è simbolo fallico e della fertilità; cosicché, anche se non c’entra nulla, il pensiero, un po’ malizioso, va alla Fonte Nova di Massa Marittima, una fontana ad arconi la cui parete di fondo di sinistra è occupata da quel famoso dipinto a secco, databile tra la fine del Due e l’inizio del Trecento, riportato alla luce nell’anno 2000. Esso rappresenta otto donne, quattro buone a destra e quattro cattive a sinistra, sotto un grande albero dal quale pendono venticinque organi maschili, mentre sulle loro teste svolazzano delle nere aquile imperiali [Fig. 4a-b]. Piovono le interpretazioni35. Però, caspita, la connessione tra una fontana e un dipinto è assai rara; e doveva capitarci proprio questo murale molto sui generis, per dirla eufemisticamente.
A tutt’altro albero rinvierebbe la fontana dell’Arringo di Ascoli Piceno, antenata delle due fontane ottocentesche che ornano oggi la piazza: essa prese il posto dell’olmo, l’albero sotto il quale si pronuncia giustizia e si discute del bene comune. Scrive Heers: «Ad Ascoli Piceno […] la tribuna dell’arengo […] venne eretta molto tempo dopo che fu piantato l’olmo in piazza della cattedrale: la cronaca parla di questo magnifico albero di più di trecento anni, abbattuto nel 1369 da un terribile vento: su quest’area venne poi installata la Fonte dell’Olmo»36. Quanto alla cronologia, siamo rassicurati dallo Statuto di Ascoli degli anni 1377-1496, che cita di passaggio la Fonte de lu Arrengho: la corsa per il palio dell’Assunta si corre «da lu piano de Porta Romana per la strata dericta perfine ad Sancto Rasmo et de là perfine a la fonte de lu Arrengho»37. Si rischia di girovagare per fontane e di non finirla più. Conviene infine considerare le tre fontane di città dell’Italia mediana più famose: in ordine cronologico d’impianto, la Fontana delle Novantanove cannelle dell’Aquila (1272), la Fontana Maggiore di Perugia (1278), la Fonte Gaia di Siena (1343 e 1419).
Tre fontane-capolavori
La fontana dell’Aquila 38 fu fatta nel 1272 in una forma ben diversa da quella odierna: un solo prospetto, con lieve inflessione al centro; quindici sole cannelle. I quindici mascheroni in pietra antropomorfi e zoomorfi si devono al firmatario dell’opera, Tancredi da Pentima, uno scultore sulmonese seguace di Nicola Pisano. In tempi successivi si allungò il prospetto originario e si aggiunsero i due laterali; così le cannelle di tempo in tempo diventarono prima 20, poi 33, poi 93, poi 99: ed ecco le Novantanove cannelle, che hanno soppiantato il nome originario di Fonte della Rivera [Fig. 5]. La storia dell’approdo al fatidico 99 merita di essere raccontata. Alla fine del Cinquecento le cannelle, per occupare regolarmente i tre prospetti, erano arrivate a 93. Poco tempo dopo l’erudizione locale cominciò a lavorare sul numero 99: 99 le parrocchie della città, 99 i popoli in cui si divideva la cittadinanza, 99 infine i castelli che concorsero alla fondazione della città. E più d’uno contò, alla grossa, non 93 ma 99 cannelle. Dopo il 1861, il Comune decise: hanno da essere 99, e aggiunse le ultime sei, senza nemmeno ornarle con un mascherone posticcio. Quelle sei cannelle, strette e nude, sono il tocco finale di una manipolazione progressiva che ottiene «il riaggancio al mito civico, e a suo modo “nazionale”, del Novantanove»: così Ferdinando Bologna, che ha messo magistralmente le cose a posto nel suo bel libro del 1997. Perugia, 1278 [Fig. 6]:
Cum fons Platee civitatis Perusie miro constructus ordine et edificio suisque sculturis, celaturis atque structuris speciose ornatus, omnibus perquam maxime admirandus existat, qui quantum honoris, ornatus, ac decoris predicte civitati de cetero tribuat et afferat, nemo est qui ignoret. […] Cuius quidem fontis aqua de Monte Paciano per tria miliaria a civitate distante satis cum difficultate et maximo dispendio ad eundem fontem deducta fuit. In quo quidem monte aqua ex multiplici vena in unum collecta locum muro undique satis amplo circundatum, “conserva magna” vulgo nuncupatum, in satis abundanti copia tenetur et cohercetur. Ex indeque per aqueductum plumbeum miro, amplo et in convallibus altissimo, per colles et montes, per subterraneos meatus et cuniculos ascendentem in ipsum fontem miro ordine et modo permagnifice deducitur. Quod quidem opus centum et sexaginta milibus florenis auri (prout in antiquis Perusine civitatis annalibus scriptum reperitur) constructum ingeniose fuit.
Con questo vero e proprio inno all’acquedotto di Monte Pacciano e alla Fontana Maggiore si apre il libro IV dello Statuto di Perugia a stampa del 1528, che tratta soprattutto del pubblico ornato39. La Fontana nacque nel 1278 come coronamento terminale di un’impresa straordinaria, appunto l’acquedotto, costato un’infinità di tempo e di denaro, «una delle più imponenti opere idrauliche del Medioevo occidentale» a dire di Romalli40. Capocantiere un religioso, il silvestrino fra Bevignate; responsabile dell’acquedotto il ductor acquarum veneziano Boninsegna; scultori, i due Pisani, il vecchio Nicola e il giovane Giovanni; autore delle parti in bronzo (e in particolare della stupefacente vasca superiore), l’ottimo fonditore Rubeus.
Insomma, i migliori ingegni disponibili nell’Italia di allora. Punto di partenza fu una riunione consiliare del 16 agosto 1277, che attribuì appunto a fra Bevignate il compito di decidere il tracciato urbano dell’acquedotto, in quale parte della piazza dovesse essere fatto il fonte e come lo si sarebbe fatto («ac etiam quomodo et qualiter dictus fons fieri debeat et de apparatu necessariorum pro ipso fonte faciendo»)41. Punto d’arrivo – almeno di arrivo dell’acqua, se non di chiusura del cantiere – la notizia cronistica:
«1278. In quisto millessimo, dì xiij de ffebraio, venne l’acqua de Monte Pacciano e’lla fonte de la piaçça de Peroscia» 42 . Sei mesi soltanto, un tempo miracolosamente breve; ma così è43. Per farsi, oltre che committente, autore, per ottenere una cosa che fosse insieme una meraviglia e un programma politico, il Comune e Popolo di Perugia dovette affidarsi a una mente pensante (è stato fatto il nome di Bovicello notaio, cancelliere e dictator del Popolo)44, capace di intessere immagini e parole in una trama fittissima di significati simbolici45: alcuni elementari (e sono le formelle, con relative didascalie, della vasca inferiore), altri, cioè le statuette con relativi cartigli e l’iscrizione in 24 versi della vasca superiore, così sofisticati e ardui che nessuno ci capì niente, per sette secoli e più46. Un bell’esempio di quelle strategie così delineate da Maria Monica Donato:
«nella mediazione visiva del potere – dei suoi simboli sacri e secolari, dei temi di cronaca come delle parole d’ordine e dei grandi princìpi – si era disposti a investire molto in denaro, in dottrina di giuristi e letterati, in talento e fatica d’artisti», facendo evidentemente affidamento «sulla rilevanza d’immagine e l’efficacia comunicante dei risultati»47.
A Siena la fontana di Piazza48 fu il coronamento non di una grande impresa ingegneristica e idraulica, ma di una grande impresa architettonica e urbanistica: la progettazione della piazza del Campo – quella piazza che secondo i Senesi è «la più bela che si truovi»49. La si deliberava nel maggio 1309, motivandola col fatto che «intra li studii et sollicitudini e’ quali procurare si debiano per coloro, e’ quali ànno ad intendere al governamento de la città, è quello massimamente che s’intenda a la belleça de la città, et de le principali belleçe è di ciascuna gentile città che abiano alcuno prato overo luogo a deletto et gaudio de li cittadini et de’ forestieri»50.
Siamo nel pieno del governo dei Nove, capace di fissare in pochi decenni e in modo permanente quei tratti ancora oggi inconfondibili del tessuto urbano. Alla progettazione della fontana si giunse più tardi, nel 1334, arrivando a inaugurarla nel 1343. Essa prese il nome significativo di Fonte Gaia, Fons Gaius, e l’artefice, maestro Iacobo di Vanni Ugolini, ebbe l’onore del soprannome “Giacomo dell’Acqua”. Era tuttavia una fontana modesta: «non molto grande», è scritto nella cosiddetta cronaca di Agnolo di Tura del Grasso51.
Fu nel 1408, chiuso il breve episodio della dedizione a Giangaleazzo Visconti, che il governo senese (gli ufficiali di Balia e il capitano del Popolo) commissionò a un artista del calibro di Jacopo della Quercia il rifacimento della Fonte Gaia52. Un rifacimento che si volle splendido e solenne, senza badare a spese 53 . Ne venne un monumento completamente nuovo in senso tipologico ed estetico [Fig. 7]. A ornamento della Fontana stanno le virtù teologali e cardinali, accompagnate dalla Sapientia, la saggezza del buon governo – riscontro esterno dei contenuti dipinti ottant’anni prima da Ambrogio Lorenzetti all’interno del Palazzo comunale. Le due figure intere poste ai lati, che volevano significare chissà che cosa, furono subito intese come Rea Silvia e Acca Larentia: così, oltre ai valori morali e civici, alla città si rivendicava (in concorrenza con Firenze) la nobile e antica ascendenza romana 54 . Perché l’opera fosse finita occorse molto tempo, undici anni:
«1419. La Fonte dell chanpo di Siena si fornì di fare con fighure di marmo, con altro bello ornamento come si vede, co’ mollta abondantia di acqua, le quali fighure furno fatte per maestro Iacomo di maestro Pietro della Ghuerca da Siena. E lui conpose la Fonte e fe’ tutte le figure e altri intagli come si vede; ancho maestro Francesco di Valdambrino da Siena fece una di dette figure; e maestro Sano da Siena murò la fonte d’intorno l’anno 1419»55.
Anche a Jacopo della Quercia, come al suo predecessore, toccò il privilegio di un nuovo nome, Jacopo della Fonte56. Qualche considerazione comparativa sulle tre grandi Fontane. Il primo dato è comune. Le tre opere sono tutte e tre firmate: Tancredi da Pentima, i Pisani (insieme con gli altri artefici della Fontana di Perugia), Jacopo della Quercia. Esse sono opere d’arte, testimonianze insigni – quanto alle loro componenti plastiche – della scultura italiana. Se su Jacopo della Quercia non c’è da spender parole, merita dire che la fontana aquilana e quella perugina risalgono a quell’esperienza felicissima di travaso di esperienze tra il Regno federiciano e la Toscana comunale che può riassumersi sotto il nome di Nicola Pisano. Giova allora ricordare che lo stesso Nicola si era misurato agli esordi della sua carriera con la realizzazione degli apparati decorativi di una fontana: la Fonte dei Canali o delle Serpi in amore di Piombino, fatta nel 1247 per iniziativa della dominante Pisa, della quale Nicola scolpì nel marmo le cinque (oggi quattro) protomi con i cavalli e i molossi57.
Opere d’arte e opere di città.
A Perugia e Siena le fontane nascono come espressione di una robusta, attrezzata e ambiziosa cultura civica; a Perugia, in particolare, quella finalità è perseguita sia a livello iconografico (come a Siena) sia e soprattutto nel solenne corredo epigrafico, che ne fa davvero un unicum. Il problema è che di quell’ammirevole ma illeggibile serie di segni (e poi, quei così ardui versi in latino), di quel ricercatissimo assemblaggio di immagini e di cartigli si perse subito il senso: e restò soltanto la bellezza. Il dictator della Fontana, sia stato o non sia stato Bovicello, diede a tal punto fondo alla sua subtilitas che fallì il suo compito. Molto più diretto, sebbene sempre allusivo (come d’abitudine), il linguaggio messo in atto a Siena da Jacopo della Quercia. Tutto diverso il caso delle Novantanove cannelle dell’Aquila: qui si trattò della costruzione lunga e progressiva, prima casuale poi sempre più convinta, da parte della città di un significato simbolico a un fonte che in origine non aspirava se non alla bellezza e alla praticità. Dare un senso civico alla fontana, farne il simbolo della città: operazione in fin dei conti riuscita, ma a prezzo della manipolazione profonda, dettata dall’erudizione locale, dell’opera d’arte.
Terzo aspetto, la funzione urbanistica della fontana: e qui veramente l’Aquila è fuori quadro, per la posizione periferica del suo fonte – a maggior ragione significativo, allora, l’apparato plastico. Ma Perugia e Siena fanno evenienze opposte: per dirla in maniera molto semplificata, a Perugia viene prima la fontana e poi la piazza, a Siena avviene il contrario. Mentre infatti Siena, come si è detto, delibera nel 1309 la piazza del Campo, completa la costruzione del palazzo pubblico e solo a partire dal 1334 pensa alla fontana, a Perugia la fontana costituisce in modo programmatico il nucleo scenografico di una platea magna ancora in fieri: il Palazzo pubblico è di là da venire. E non da sola: aperto ancora il cantiere della fontana de capite platee, il Comune affida al subtilisimus et ingeniosus magister Arnolfo di Cambio (tanto per non smentire la sua volontà di prendere il meglio) la fontana de pede platee, completata nel giro di un paio d’anni. Scrive Maria Rita Silvestrelli che è «con l’acqua che il Comune di Perugia traccia la via della progressiva appropriazione dell’acropoli e fissa con due fontane i poli di estensione e di trasformazione della piazza»58.
Non solo: per quanti cambiamenti e adattamenti subisca il paesaggio della platea magna, la Fontana rotonda (perché quella di Arnolfo era invece costituita da una vasca rettangolare addossata) fungerà sempre da ombelico della città, punto di confluenza o se si vuole di partenza delle cinque vie regales che percorrono la città e, attraverso le cinque porte, si proiettano fino all’estremo del contado59.
Costituita da una vasca inferiore con gradini di accesso per prelevare l’acqua e da una vasca inferiore composta da formelle con figure umane scolpite60, la fontana di Arnolfo – per venire all’ultimo punto che vogliamo toccare, la capacità di durata delle fontane – non visse più di una ventina d’anni61. Sminuita dalla cronica carenza di acqua corrente, «che ne vanificava significati e destinazione d’uso», alla fine del Duecento fu smontata per far posto a un nuovo palazzo: destino di tanti manufatti, anche pregevoli, divenuti effimeri per la voracità del Comune duecentesco e primo-trecentesco e riutilizzati in altro modo62. Invece la Fontana Maggiore è sempre rimasta lì, uguale a se stessa, almeno nelle intenzioni di chi ne intraprese periodicamente la manutenzione e il rimontaggio. Essa è stata salvata dalla sua centralità urbanistica, e ancor più dall’essere assurta a monumento simbolo della città, ricordo perenne del secolo d’oro della Augusta Perusia.
Anche la Fonte Gaia senese si è mantenuta, ma ha subìto svariate modifiche, ultima la sostituzione dell’originale, musealizzato, con una copia: il che indica che il monumento è stato salvaguardato in forza soprattutto del suo valore artistico intrinseco (quando se ne parlò per la Fontana di Perugia ci fu una sollevazione popolare). Lunga, infine, anche la durata della Fontana delle Novantanove cannelle dell’Aquila, che ha resistito anche al terremoto recente – e sta lì a dire che l’Aquila esiste, non è una città morta. Ma la sua è stata una vita assai mobile, in crescendo, con la moltiplicazione da 15 a 99 delle sue bocche d’acqua per ragioni di storia e di storiografia. Proprio nel 1861, quando il Comune dell’Aquila aggiunse le sei cannelle “mancanti”, a Perugia si avanzò la proposta di smontare la Fontana Maggiore e di trasferirla dalla platea magna allo spazio apertosi dopo l’abbattimento della Rocca Paolina63, per celebrare il recupero della libertà dall’oppressione papalina64. Non se ne fece nulla, ma sia la proposta che il rifiuto furono una conferma dello strettissimo rapporto creatosi fra il monumento e i cittadini di Perugia. Entrambe le vicende, quella aquilana e quella perugina, poi, mostrano quanto l’Unità, di cui celebriamo i centocinquant’anni, abbia risvegliato gli orgogli municipali, le fedeltà alle piccole patrie. Se sia buon segno o cattivo segno, non lo sappiamo.
Le fontane sono non soltanto il frutto di imprese esornative del tessuto cittadino di cui commisurare, a seconda dei casi, l’investimento economico, l’elevata qualità estetica, il valore degli artisti incaricati di realizzarle, l’unicità di un’opera senza precedenti e spesso senza seguito. La loro natura, al contempo funzionale e urbanistica, è infatti, come si è visto, spesso legata a un intento propagandistico, ragione per cui il nesso fondamentale tra il contesto storico-politico in cui il committente si trova ad agire e il prodotto finito è proprio l’intenzione che il manufatto veicola o, ancor meglio, la retorica che esso tradisce65. Se dunque gli artefici non sono mai meri esecutori rispetto alla domanda e alle aspirazioni della committenza, è pur vero che da quella domanda sono almeno condizionati: tanto più nel caso delle istituzioni comunali mature, quando l’ispirazione ‘pubblica’ dell’opera procede di pari passo con una esplicita linea propagandistica elaborata e promossa giust’appunto dal ceto di governo66.
Partendo dunque dal nesso “istituzionale” fra arte e potere di burckhardtiana memoria, quello che si constata tra Due e Trecento è il sorgere in ambito comunale di una «nuova arte politica» che vede non solo nella pittura, come ampiamente dimostrato da Maria Monica Donato67, ma anche nei corredi decorativi delle fontane un fecondo ambito di applicazione nel quale dispiegare quel «lessico politico per immagini»68 di cui parla la studiosa. Lessico efficacemente retorico e “massmediatico” – che risente peraltro di un significativo ampliamento dei soggetti iconografici in senso profano69 e dell’integrazione di eloquenti iscrizioni in versi – e dunque in grado di soddisfare le tante esigenze comunicative della vita politica comunale, celebrando successi e stigmatizzando cattivi comportamenti, additando modelli e consacrando simboli e valori in cui la città potesse identificarsi70.
Note
1 Due soli esempi, da Orvieto. Nella seduta consiliare del 20 giugno 1301 si delibera il restauro della fontana di Sant’Angelo con la seguente motivazione: «pro evidenti utilitate Comunis et quia ad publicam spectat utilitatem fontes habundantes aqua habere in civitate»; tre anni dopo, il 22 giugno 1304 gli abitanti del rione di Santo Stefano chiedono «pro honore dicte nostre civitatis et publica utilitate atque commodo adiacentium» un restauro generale dell’acquedotto. Cfr. L. Riccetti, La città costruita. Lavori pubblici e immagine in Orvieto medievale, Firenze 1992, pp. 165-166, 167.
2 Cfr. gli atti del recente convegno Il bene comune: forme di governo e gerarchie sociali nel basso medioevo. Atti del XVLIII Convegno storico internazionale (Todi, 9-12 ottobre 2011), Spoleto 2012. Nell’ampia bibliografia precedente, ci limitiamo a citare E. Crouzet-Pavan, «Pour le bien commun»… À propos des politiques urbaines dans l’Italie communale, in Pouvoir et édilité. Les grands chantiers dans l’Italie communale et seigneuriale, Rome 2003, pp. 11-40.
3 A. Bartoli Langeli – L. Zurli, L’iscrizione in versi della Fontana Maggiore di Perugia, Roma 1996, p. 85. La corretta lezione del primo verso dell’iscrizione va segnalata, perché la vulgata precedente (e tuttora persistente) portava un incomprensibile iocundum vivere
fontes.
4 Gli statuti del comune di Treviso (secc. XIII-XIV), a cura di B. Betto, Roma 1984-1986 (Fonti per la Storia d’Italia, 109, 111), I, p. 138: cap. CLXVIII, De reaptatione foncium et fluminum.
5 F. Bargagli Petrucci, Le fonti di Siena e i loro acquedotti, Siena-Firenze-Roma 1903, rist. anast. Siena 1974, II, p. 20; citazione da D. Balestracci, L’acqua a Siena nel Medioevo, in ‘Ars et Ratio’. Dalla torre di Babele al ponte di Rialto, cur. J.-C. Maire Vigueur – A. Paravicini Bagliani, Palermo 1990, pp. 19-31: 30-31.
6 Cfr. S. Merli, Fonti e fontane dell’Umbria, Perugia 2000, pp. 91-96.
7 Fondamentale in merito è D. Balestracci, La politica delle acque urbane nell’Italia medievale, «Mélanges de l’École Française de Rome – Moyen Âge», 104/2 (1992), pp. 431-479. Si hanno molti approfondimenti specifici: per esempio, quanto all’Italia centrale, G. Cherubini, Lo sfruttamento dell’acqua negli Statuti della Marca meridionale, in Arti e manifatture nella Marca nei secoli XIII-XVI. Atti del XXI Convegno di studi maceratesi (Matelica, 16-17 novembre 1985), «Studi maceratesi», 21 (1988), pp. 27-39; A. Lanconelli – R.L. De Palma, Terra, acqua e lavoro nella Viterbo medievale, Roma 1992 (Nuovi Studi storici, 15).
8 Come risulta dall’attenta disamina di G. Romalli, L’acquedotto medievale di Perugia e l’adduzione idrica nelle realtà comunali centroitaliane, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca. Costruire, scolpire, dipingere, decorare. Atti del convegno internazionale di studi (Firenze-Colle di Val d’Elsa, 7-10 marzo 2006), cur. V. Franchetti Pardo, Roma 2006, pp. 317-330: 321-322, con belle descrizioni, precisazioni cronologiche e bibliografia. Le date fornite nel testo sono quelle ricordate dalle città per celebrare la conclusione dei lavori, che poté arrivare anche a notevole distanza di tempo dalla prima decisione: per esempio a Perugia la costruzione dell’acquedotto fu deliberata nel 1254 e portata a termine più di vent’anni dopo.
9 Per Assisi: Dare acqua ad Assisi. Gli acquedotti antichi da Panzo, cur. M. Barbanera, M.A. Carloni – F. Santucci – O. Stefanucci, Perugia 2004 (Deputazione di storia patria per l’Umbria, Appendici al «Bollettino», n. 20). A Massa Marittima e Gubbio si accennerà più avanti.
10 Celebre già alla metà del Trecento, quando Fazio degli Uberti lo ricordava fra le cose mirabili del Dittamondo: «il ponte di Spoleti ancor mi piace» (lib. III, cap. X). L’opera grandiosa era non solo condotto idrico ma anche ponte fra due montagne (il colle Sant’Elia e il Monteluco); la sua fondazione «è concordemente ancorata a quella della nuova cinta delle mura cittadine», in costruzione dal 1296 (Romalli, L’acquedotto medievale di Perugia cit., p. 322).
11 Merli, Fonti e fontane cit., pp. 113-139.
12 Cfr. Balestracci, La politica delle acque cit., p. 466, che ricorda come a Bologna nel corso del Duecento vicinìe e contrade sono impegnate nella manutenzione dei pozzi urbani. Quanto alle fontane, cfr. lo Statuto di Fabriano del 1415, ove si parla di «fontes qui facti fuerint per formam statuti per homines contrate secundum dictam contratam»: Lo statuto comunale di Fabriano (1415), edd. G. Avarucci – U. Paoli, Fabriano 1999, p. 293.
13 André Guillerme (Puits, aqueducs et fontaines: l’alimentation en eau dans les villes du nord de la France, X e -XIII e siècle, in L’eau au Moyen Âge, Aix-en-Provence 1985 [Senefiance, 15], p. 191) «fait remarquer que les fontaines médiévales ne pouvaient pas, en raison de l’étroitesse des canalisations, avoir un débit supérieur à dix litres par minute. Le filet d’eau était généralement si mince que les utilisateurs leur avaient donné des surnoms aussi révélateurs que “Pissotte” ou “Pissellotte”»; così C. Gouédo-Thomas, Les fontaines médiévales. Images et réalité, «Mélanges de l’École Française de Rome – Moyen Âge», 104/2 (1992), pp. 507-517: 513. Un esempio nostrano: a Perugia c’è tuttora la fontana del Piscinello (Merli, Fonti e fontane cit., p. 59).
14 J. Heers, La città nel medioevo in Occidente. Paesaggi, poteri e conflitti, trad. it. cur. M. Tangheroni, Milano 1995 (ed. orig. La ville au Moyen Âge en Occident. Paysages, pouvoirs et conflits, Paris 1990), pp. 337-353. Il paragrafo è intitolato La fontana, simbolo d’autonomia o dono del principe, e fa parte del capitolo Il bene comune: sollecitudine o pretesto?
15 Fuori del nostro ambito d’interesse l’esempio maggiore è quello di Genova: una decina di fonti allineati sulla Ripa, che assicurano il rifornimento del porto e dei magazzini portuali; ben dentro la città, la famosa Fontana Marosa (altrettanto famosa che ignota); all’estremo opposto, verso l’entroterra, accostate alle mura, quattro modeste fontanelle che servono i borghi e i sobborghi della città. Balestracci, La politica delle acque cit., p. 463.
16 Ibid., pp. 462-463 (qui i brani virgolettati). Sull’argomento si vedano inoltre Balestracci, L’acqua a Siena cit.; D. Balestracci – L. Vigni – A. Costantini, Memoria dell’acqua. I bottini di Siena, Siena 2006. Una breve panoramica in P. Cammarosano, Siena, Spoleto 2009 (Il medioevo nelle città italiane, 1), pp. 126-127.
17 Presso San Domenico è Fonte Branda, motivo di un forte orgoglio civico che si protrae nel tempo, se un anonimo cittadino, rivolgendosi nel 1397 alle magistrature, ricordava che «tutti e’ forestieri che ci vengono [a Siena] vogliono vedere Fontebranda»; e ancora nel 1417 il Concistoro del Comune definisce la stessa fonte «una delle più belle et fructuose fonti d’Italia»: Balestracci, L’acqua a Siena cit., p. 31.
18 Breve degli officiali del comune di Siena compilato nell’anno MCCL al tempo del podestà Ubertino da Lando di Piacenza, ed. L. Banchi, «Archivio Storico Italiano», ser. III, 3/2 (1866), pp. 3-104: 93, cap. XLVII, De tribus electis super fontibus inveniendis et construendis extra civitatem ad duo miliaria.
19 C. Piana Agostinetti, Fontane a Viterbo. Presenze vive nella città, Roma 1985. Cfr. anche Lanconelli – De Palma, Terra, acqua e lavoro cit., pp. 6-7. Si ringrazia per le molte indicazioni forniteci Eleonora Rava.
20 Si parla di una data anteriore, 1192 (così anche Piana Agostinetti, Fontane a Viterbo cit., p. 56), frutto in realtà di un equivoco indotto da Pinzi, poi chiarito da Lanconelli – De Palma, Terra, acqua e lavoro cit., p. 6. Un’epigrafe oggi non più leggibile farebbe risalire al 1212 il completamento del manufatto ad opera di due maestri scalpellini, ma Attilio Carosi ne dubita. Le scritte leggibili attestano un rifacimento completo della fontana nel 1279 e un ulteriore restauro nel 1424: A. Carosi, Le epigrafi medievali di Viterbo (secc. VI-XV), Viterbo 1986, pp. 86-89. Sulla fontana del Sepale, ottimo l’articolo di Chiara De Santis del 1997 Fontana Grande: storia e particolarità, leggibile online all’indirizzo http://www.biblio-tecaviterbo.it/rivista/1997_3/De_Santis.pdf
21 Cronache e statuti della città di Viterbo pubblicati e illustrati da Ignazio Ciampi, Firenze 1872, p. 31.
22 Ibid., p. 544: cap. 200, Quod potestas faciat fieri fontem Rose cum abbeveratorio.
23 Cfr. I. Voss, Fontane, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, VI, Roma 1995, pp. 271-277: 272.
24 Cronache e statuti della città di Viterbo cit., p. 98.
25 I. Moretti, Siena. Architettura, in Enciclopedia dell’arte medievale, X, Roma 1999, pp. 631-641: 640.
26 R. Sassi, La data e l’artefice perugino della fontana maggiore di Fabriano, «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche», ser. 7, 4 (1949), pp. 71-82; Sassi, Un altro documento per la storia della fontana romanica nella piazza maggiore di Fabriano, ibid., ser. 7, 6 (1951), pp. 41-44.
27 Insiste su questo aspetto J.-B. Delzant, ‘Instaurator et fundator’. Costruzione della signoria urbana e presenza monumentale del Comune (Italia centrale, fine del Medio Evo), «Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria», 108 (2012), pp. 271-338 (ed. orig. in The Power of Space. Cities in Late Medieval/Early Modern Italy and Northern Europe, cur. M. Howell, in corso di stampa): pp. 320-321. Delzant in particolare enfatizza le disposizioni sulla manutenzione della fontana contenute nello Statuto del 1415, quando la città era sotto il dominio dei Chiavelli: Lib. V, capp. II-III, De non ledendo fontem platee. Cfr. Lo statuto comunale di Fabriano cit., pp. 289-291.
28 Per quanto segue fa testo il saggio di P. Micalizzi, Gubbio. Storia dell’architettura e della città, Gubbio 2009, specialmente pp. 123-125. Di qui, specie da p. 124, i brani virgolettati riportati più avanti.
29 L. Alberti, Descrittione di tutta Italia, In Venegia, Appresso Pietro de i Nicolini da Sabbio, MDLI, pp. 73-74. Citato da Micalizzi, Gubbio cit., p. 124.
30 Si veda la bella monografia di M. Belardi, Il Palazzo dei Consoli a Gubbio e il centro urbano trecentesco, Perugia 2001. Della costruzione del Palazzo si parla nello Statutum Comunis et Populi civitatis, comitatus et districtus Eugubii. Con le aggiunte del 1376, ed. A. Menichetti, Gubbio 2002, pp. 64-65 (Lib. I, cap. C: De ordine tenendo circha edifficationem palatii novi et platee et cisterne).
31 «La realizzazione di uno dei più ambiziosi progetti urbanistici dell’inizio del Trecento […] non riguardava soltanto la costruzione del palazzo dei Consoli e del palazzo Pretorio (quest’ultimo mai portato a termine), ma anche la creazione di una piazza pensile e la realizzazione di un acquedotto, il Bottaccione, che doveva condurre acqua fino all’interno del palazzo dei Consoli»: M.E. Savi, Gubbio, in Enciclopedia dell’arte medievale, VII, Roma 1996, pp. 140-146: 141.
32 Dal lato di Gubbio, propone l’apparentamento Micalizzi, Gubbio cit., p. 124. Viceversa e prima, dal lato di Viterbo, Laura Pace Bonelli sottolinea come la «soluzione ardita e carica di significati politici» della fontana della loggia papale «non trovò sostanzialmente riscontri nell’edilizia pubblica dell’Italia centrale durante il Medioevo, con la significativa eccezione del palazzo dei Consoli di Gubbio (sec. 14°) dove, analogamente, fu costruito un acquedotto per alimentare la fontana interna all’edificio» (Viterbo, in Enciclopedia dell’arte medievale, XI, Roma 2000, pp. 709-717: 715). Sulla fontana della loggia dei Papi cfr. Piana Agostinetti, Fontane a Viterbo cit., pp. 44-47.
33 A Viterbo il simbolo della pigna ricorre nelle fontane duecentesche di S. Tommaso, detta della Morte, di S. Faustino, di S. Maria in Poggio e di Pianoscarano.
34 Voce Fontane, citata a nota 23, pp. 271-272.
35 Massa Marittima. L’albero della fecondità, Massa Marittima 2002; G. Ferzoco, Il murale di Massa Marittima, Firenze 2005; A.S. Hoch, Duecento Fertility Imagery for Females at Massa Marittima’s Public Fountain, «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 69/4 (2006), pp. 471-488; E.M. Longenbach, A fountain bewitched. Gender, sin, and propaganda in the Massa Marittima mural, The University of North Carolina at Chapel Hill 2008. Si veda il sito http://gradworks.umi.com/14/52/1452979.html. Nella saggistica generale, la prima citazione si deve a G. Ortalli, Comunicare con le figure, in Del vedere: pubblici, forme e funzioni, cur. E. Castelnuovo – G. Sergi, Torino 2004 (Arti e storia del Medioevo, III), pp. 477-518: 497.
36 Heers, La città nel medioevo cit., p. 462. La fonte che egli cita di passaggio è la Cronaca Ascolana di Francesco Bartolini di Arquata.
37 Statuti di Ascoli Piceno, edd. G. Breschi – U. Vignuzzi, Ascoli Piceno 1999-2004, I, p. 268: Libro II, cap. VI.
38 Monografia di riferimento: F. Bologna, La fontana della rivera all’Aquila detta delle Novantanove cannelle, L’Aquila 1997; le parole che, riportate, chiudono questo capitoletto, sono a p. 22.
39 Statuta Auguste Perusie, Perusiae, in aedibus Hieronymi Francisci Chartularii, 1523-1528, f. IIr, Lib. IV (1528), proemio: «[…] Hinc est quod maiores nostri hoc quarto volumine statutorum, quod circa civitatis ornatum potissime versatur, primum de ipso fonte titulum preponere voluerunt». E subito il cap. I verte «De fonte plateęet eius aqueductu, conservis et venis ac de cisternis et puteis certo modo faciendis».
40 Romalli, L’acquedotto medievale di Perugia cit., p. 317. Fondamentale, prima, M. R. Silvestrelli, «Super aquis habendis in civitate». L’acquedotto di Montepacciano e la Fontana Maggiore, in Il linguaggio figurativo della Fontana Maggiore di Perugia, cur. C. Santini, Perugia 1996, pp. 73-161.
41 Documento pubblicato per la prima volta da G. Nicco Fasola, La Fontana di Perugia, Roma 1951, p. 57 (Archivio di Stato di Perugia, Archivio Storico del Comune di Perugia, Consigli e riformanze, 5/3, c. 21r).
42 F.A. Ugolini, Annali e cronaca di Perugia in volgare dal 1191 al 1336. Testo, commentario, annotazioni linguistiche, «Annali della Facoltà di lettere e filosofia della Università degli studi di Perugia», 1 (1963-1964), pp. 141-337: 154.
43 Dissente nettamente dalla communis opinio (che è anche di Silvestrelli e nostra) Bruno Toscano: Percorsi arnolfiani (scritto con Vittoria Garibaldi), in Arnolfo di Cambio. Una rinascita nell’Umbria medievale. Catalogo della mostra (Perugia e Orvieto, luglio 2005-gennaio 2006), a cura dei medesimi, Cinisello Balsamo (Mi) 2005, pp. 13-21: 16-18. La chiave, a nostro avviso impraticabile, è l’attribuzione di tutte le notizie del 1277 (come quella riportata sopra) non alla prima fontana ma alla seconda, non alla fontana dei Pisani ma alla fontana di Arnolfo, che sarà completata nel 1281; sulla quale cfr., nel medesimo volume, M. R. Silvestrelli, Acqua per la città. Lo spazio perduto della fontana di Arnolfo, pp. 113-119.
44 Sulla figura di Bovicello, cfr. S. Merli – A. Bartoli Langeli, Un notaio e il Popolo. Notizie su Bovicello Vitelli cancelliere duecentesco del Comune di Perugia, «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano e Archivio Muratoriano», 101 (1997-1998), pp. 199-303; A.
Bartoli Langeli, Dettatore e poeta. Bovicello (Perugia, 1250-1304), in Bartoli Langeli, Notai, Roma 2006, pp. 211-236.
45 Ortalli, Comunicare con le figure cit., pp. 496-497.
46 A. Bartoli Langeli – N. Giovè Marchioli, Le scritte incise della Fontana Maggiore, in Il linguaggio figurativo della Fontana Maggiore di Perugia, cur. C. Santini, Perugia 1996, pp. 163-195; Bartoli Langeli – Zurli, L’iscrizione in versi della Fontana Maggiore cit.
47 M. M. Donato, Dal ‘Comune rubato’ di Giotto al ‘Comune sovrano’ di Ambrogio Lorenzetti (con una proposta per la “canzone del Buon governo”), in Medioevo: immagini e ideologie. Atti del Convegno internazionale di studi (Parma, 23-27 settembre 2002), cur. A. C. Quintavalle, Milano 2005, pp. 489-509: 489.
48 Sulla quale si veda ora La Fonte Gaia di Jacopo della Quercia. Storia e restauro di un capolavoro dell’arte senese, cur. E. Toti – S. Dei, Firenze 2011. Interessano soprattutto i saggi di D. Balestracci, Le Virtù in Piazza. Genesi e realizzazione della Fonte Gaia, pp. 23-35; e Dei, La Fonte e la Piazza cit., pp. 37-61.
49 Documento citato da Moretti, Siena. Architettura cit., p. 640; nella Enciclopedia dell’arte medievale precede E. Guidoni, Siena. Urbanistica, pp. 625-631, con ampio spazio dedicato al Campo. Bastino queste voci per dar conto della bibliografia sulla Piazza senese.
50 Così nel volgarizzamento statutario del 1309 – 1310. Il Costituto del Comune di Siena volgarizzato nel MCCCIX-MCCCX, ed. S. Mahmoud Elsheikh, Siena 2002 (Fondazione Monte dei Paschi di Siena, Fonti e Memorie, 1), II, p. 147: Lib. III, cap. 291, Di fare uno prato intra le porte di Camollia.
51 Cfr. Balestracci, Le Virtù in Piazza cit., p. 26 (qui la citazione della Cronaca senese attribuita ad Agnolo di Tura del Grasso detta La Cronaca Maggiore); Dei, La Fonte e la Piazza cit., p. 59 note 1 e 3.
52 Tutta la documentazione in merito è raccolta da J. Beck, Jacopo della Quercia, New York 1991, vol. II.
53 Come dimostra la «petitio operariorum super fonte campi noviter construendo» inoltrata il 18 gennaio 1415 ai Priori e al Capitano del popolo della città per porre rimedio a quei «defecti» che «il decto lavorìo pate». Poiché infatti «nella decta allogagione della fonte non si fece mentione come la parte di fuore d’essa fonte dovesse essere facta, che è quella parte che più s’à a vedere; e non mutando altrimenti e’ maestri la faranno piana e biancha, la quale chosa sarebbe diforme al bello lavorìo che viene dalla parte dentro», gli operarii chiedono l’esborso di un’ulteriore somma di 400 fiorini rispetto ai 2000 pattuiti all’atto dell’affidamento dell’incarico; somma che vada anche a coprire l’incremento della superficie complessiva della fontana, «acciocché il lavorìo della decta fonte abbia sua perfectione et sua ragione et sia al contento de’ cittadini, altrimenti el decto lavorìo seguirà secondo l’alogagione e sarà sozo». La somma aggiuntiva fu versata il 4 agosto successivo. Cfr. ibid., docc. 25-26 (pp. 347-350), 54 (pp. 365-366), 56 (p. 367), 82 (pp. 383-385).
54 Sul primo aspetto: M. Caciorgna, ‘Difficilis est cura rerum alienarum’. La Fonte Gaia di Jacopo della Quercia e altri esempi di iconografia politica nell’arte senese, in Il Buono e il Cattivo Governo. Rappresentazioni nelle Arti dal Medioevo al Novecento. Catalogo della mostra (Venezia, 15 settembre – 12 dicembre 2004), cur. G. Pavanello, Venezia 2004, pp. 44-69. Sul secondo: la stessa, Moduli antichi e tradizione classica nel programma della Fonte Gaia di Jacopo della Quercia, «Fontes», IV-V, 7-10 (2001-2002), pp. 71-142. Dei, La Fonte e la Piazza cit., pp. 48-54. Efficace la sintesi di Sara Dei, La Fonte e la Piazza cit., pp. 40-54: paragrafo intitolato Il programma iconografico della Fonte Gaia: celebrazione del Buon Governo e recupero delle origini romane.
55 Così la cronaca di Paolo di Tommaso orafo, cit. da Beck, Jacopo della Quercia cit., doc. 92 (p. 390; interpunzione nostra).
56 Nella redazione del 1550 de Le vite del Vasari si legge: «Tornatosene poi a Siena, et in quella dimorando, dalla Signoria di detta città gli fu fatta allogazione della superba fonte di marmo fatta su la piazza publica dirimpetto al palazzo loro, la quale opra fu di prezzo di ducati duo milia e dugento; et in quella usò artificio e bontà, che gli diede tanto nome che sempre fu nominato, e vivo e morto, Iacopo de la Fonte Sanese» (G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori et architetti, edd. L. Bellosi – A. Rossi, Torino 1986, p. 242). Così invece nella versione riveduta del 1568: «Perciò che la Signoria di Siena, risoluta di fare un ornamento ricchissimo di marmi all’acqua che in sulla piazza avevano condotta Agnolo et Agostino sanesi l’anno 1343, allogarono quell’opera a Iacopo per prezzo di duemiladugento scudi d’oro; onde egli, fatto un modello e fatti venire i marmi, vi mise mano e la finì di fare con molta sodisfazione de’ suoi cittadini, che non più Iacopo della Quercia ma Iacopo della Fonte fu poi sempre chiamato» (Beck, Jacopo della Quercia cit., Appendix 2, II, p. 570).
57 Cfr. A. Giuliano, Le fonti alla marina di Piombino, in Studi normanni e federiciani, cur. A. Giuliano, Roma 2003, pp. 123-128; R. Belcari, La fonte dei canali alla Marina di Piombino. Approvvigionamento idrico, committenza e maestranze alla metà del Duecento, in Reti d’acqua. Infrastrutture idriche e ruolo socio-economico dell’acqua in Toscana dopo il Mille. Atti della III Giornata di studio del Museo civico Guicciardini di Montopoli in Val d’Arno (Montopoli in Val d’Arno, 19 maggio 2007), cur. M. Baldassarri, San Giuliano Terme 2008, pp. 113-130; La fonte dei canali alla Marina di Piombino. Storia e restauro, cur. M. T. Lazzarini, Ospedaletto 2010.
58 Silvestrelli, Acqua per la città cit., p. 114.
59 Alla fine del Duecento il Comune di Popolo si fa carico della ridefinizione amministrativo-urbanistica della città vecchia, come risulta da un capitolo statutario del 1295, «Que dicantur vie regales», nel quale, «ad tollendam ambiguitatem viarum regalium et pla-tee», si definiscono esattamente i confini della piazza del Comune e il tracciato delle cinque grandi strade cittadine che dovevano unire le cinque porte della cinta muraria al forum Comunis, inteso dunque come elemento generatore dei più importanti assi della viabilità urbana: Perugia, Archivio di Stato, Archivio Storico del Comune di Perugia, Statuti, 12, frammento n. 2, Lib. IV, cap. XXXIX, c. 71v. Anche lo Statuto in volgare del 1342 (Statuto del Comune e del Popolo cit., II, p. 126, Lib. III, cap. 74: La distintione de la piacça e de le strade regaglie) e quello a stampa del 1523 (Statuta Auguste Perusie cit., f. VIIIra, Lib. III, add. al cap. 11: De insultu) descrivono l’andamento delle vie regali cittadine sempre partendo dalla piazza del Comune.
60 Di grande utilità la ricognizione bibliografica fornita da Romalli in merito alla fortuna critica della “fontana di Arnolfo”: L’acquedotto medievale di Perugia cit., p. 328 nota 2. Cfr. inoltre, insieme col catalogo indicato a nota 43, V. Pace, Arnolfo a Roma e in Umbria. Certezze e problemi, in Arnolfo di Cambio e la sua epoca cit., pp. 117-126: pp. 118-119.
61 C. Cutini, Breve fortuna della fontana del “buon governo”, in Arnolfo di Cambio. Una rinascita nell’Umbria medievale cit., pp. 121-125. Di qui, p. 124, la citazione che segue.
62 Come risulta, nel caso specifico, dal verbale della seduta consiliare del 19 agosto 1308, in occasione della quale i priori e i camerari delle Arti, chiamati a deliberare «de lapidibus qui fuerunt de fonte pedis platee», stabilivano che tale materiale dovesse essere reimpiegato per «facere scalas» nella cappella di Sant’Ercolano. Cfr. Balzani, I documenti, ibid., pp. 141-147: 147.
63 Il 16 maggio 1861 l’ingegnere fiorentino Pietro Campovele, chiamato dal sindaco Reginaldo Ansidei a pronunciarsi in merito ai nove progetti di ‘riqualificazione’ dell’area presentati dai vari concorrenti, sottolineava come tra i primi lavori da eseguire «appena stabilito il piano architettonico da mandarsi ad effetto», c’era senz’altro «il traslocamento della classica fontana di Giovanni da Pisa nel mezzo di detta piazza, togliendola dal posto indistinto dove attualmente si vede. Nella testata poi superiore del corso, in prossimità della chiesa del duomo, collocarvi il monumento scultoreo al nostro amatissimo sovrano». Cfr. F. Bozzi, La distruzione della Rocca, in La Rocca Paolina di Perugia. Studi e ricerche, Perugia 1992, pp. 225-251: 238. L’idea peraltro era stata formulata già agli inizi dell’Ottocento – come ricorda con malcelato sarcasmo Luigi Bonazzi – da alcuni nobili perugini, i quali, «non avendo altro da pensare, proposero di trasportare la fonte di San Lorenzo in piazza Rivarola; progetto che fece ridere tutto il paese, e a cui troncò ogni nervo un opuscolo di Vermiglioli» (L. Bonazzi, Storia di Perugia dalle origini al 1860 [1875-79], Perugia 1960 (rist. anast.), II, p. 432).
64 Cfr. P. Belardi – S. Merli, La piazza. Da spalto fortificato a cerniera immateriale, in Il Palazzo della Provincia di Perugia, cur. F.F. Mancini, Perugia 2009, pp. 53-89.
65 B. Brenk, Committenza e retorica, in Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committenti, Torino 2003, pp. 3-42: 3.
66 Ortalli, Comunicare con le figure cit., p. 498, che sottolinea come «poiché … era il mondo della politica e della gestione della cosa pubblica che aveva più di ogni altro la possibilità e insieme la necessità di trasmettere progetti e convinzioni, proprio quel mondo si trovò a comunicare con le figure oltre che con lo scritto e la parola … finendo con l’alimentare un robusto circuito iconico laico, ufficiale e pubblico».
67 Che ha ben studiato l’uso politico delle immagini nelle città italiane del basso Medioevo e che sottolinea come, nel quadro di «un variegato tessuto di immagini politiche che interessa tutta l’Italia comunale», in città come Firenze e Siena si dà vita «a una “politica in figure” duttile, diramata, attentamente meditata ed orchestrata, persino martellante», Donato, Dal ‘Comune rubato’ di Giotto cit., p. 489.
68 M. M. Donato, ‘Cose morali, e anche appartenenti secondo e’ luoghi’: per lo studio della pittura politica nel tardo Medioevo toscano, in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, cur. P. Cammarosano, Roma 1994, pp. 491-517: 492.
69 La stessa, ibid., p. 495. Cfr. inoltre Ortalli, Comunicare con le figure cit., il quale nel paragrafo L’immagine «laica» nel basso Medioevo e le novità dell’Italia dei Comuni sottolinea come «i nuovi modi di utilizzo dell’immagine si presentassero con particolare capacità innovativa nell’Italia centro-settentrionale, che viveva precocemente e con maggiore intensità l’esperienza dei comuni cittadini» (p. 487).
70 Dopo la consegna del testo siamo venuti a conoscenza della tesi di laurea di Laura Visentin, Alle fonti del Medioevo. Catalogo delle fontane pubbliche dal XIII al XIV secolo in Italia, tesi di laurea in storia dell’arte, relatore prof. Guido Tigler, a.a. 2008-2009, che speriamo di veder presto pubblicata. Anche perché da parte nostra non sarebbe stato giusto, nell’attesa, recepire le molte indicazioni in essa contenute che avrebbero arricchito questa relazione.
APPENDICE
Documenti sulla Fontana dell’Arengo e sulla Fontana del Palazzo dei Consoli a Gubbio
Quando si cominciò a costruire il Palazzo del Popolo, la Fontana dell’Arengo stava ancora nella sua piazza: lo provano alcune deliberazioni comprese nel periodo tra il luglio 1326 e il febbraio 1338 [App., nn. 1-4]; lo prova ulteriormente lo Statutum comunis et populi di Gubbio dello stesso 1338, dove si ordina la manutenzione del fons Arenghi et eius aqueductus [nn. 5-7]. Nel 1349, quando il Consiglio cittadino delibera più volte circa il prolungamento dell’acquedotto di piazza fino al palatium Populi [nn. 8, 10-11] – e quindi la fontana in oggetto o era già stata portata all’interno o era in procinto di esserlo –, la Fontana dell’Arengo è ben viva e presente nel tessuto urbano, se è vero che essa dava addirittura il nome a una delle contrade del quartiere di Sant’Andrea [n. 9]. Ma, andando avanti, quella stessa fontana era ancora in funzione nella contrada 24 anni dopo: il fons Arenghi è indicato al primo posto tra le opere che cadono sotto la responsabilità dei due superstites delle fontane e dei condotti della città [n. 12]. Con Riformanze si cita: Sezione di Archivio di Stato di Gubbio, Fondo comunale, Riformanze. Dobbiamo le notizie tratte da Riformanze 4, cc. 113v e 108r, ad Alberto Luongo, che ringraziamo per averci sottoposto un suo articolo dal titolo I notai della curia vescovile di Gubbio nel Trecento: prime considerazioni, che comparirà nel prossimo numero del «Bollettino della Deputazione di Storia patria per l’Umbria».
1. 1326 agosto 3 (Riformanze, 1, cc. 34v-35v)
Il consiglio generale del Popolo, dei capitani delle Arti, dei consoli dei mercanti e dei cento del Popolo è chiamato a pronunciarsi in merito al «conductus sive aqueductus per quem venit sive labitur aqua ad fontem Arenghi […] in locis pluribus devastatus».
2. 1326 agosto 16-17 e 20 (Riformanze, 1, cc. 40v, 42r, 44rv)
I consigli cittadini devono deliberare «de quadam bona et legali persona eligenda in superstitem et custodem conductus fontis Arenghi et ipsius fontis et qui dividat, det et mictat aquam tam ad dictum fontem Arenghi quam ad fontes fovei et Sancti Iuliani»; viene eletto per sei anni come custode Sander Tenti, di cui si indicano dettagliatamente le mansioni.
3. 1327 gennaio 28 (Riformanze, 1, c. 170v)
Si delibera che una certa vena d’acqua «conducatur per aqueductum ad aqueductum qui venit ad fontem Arenghi».
4. 1338 gennaio 15 (Riformanze, 2, c. 201r)
Il Consiglio elegge un «superstitem et officialem Comunis Eugubii ad lavandum et remoliendum fontem Arenghi et conductum ipsius».
5. 1338 (Statutum Comunis et Populi civitatis, comitatus et districtus Eugubii, ed. cit. in nota 30 al testo, p. 55)
Lib. I, cap. LXX: «Quod gonfalonerius et consules cum capitaneis Artium possint providere super habundantiam aque et teneantur quolibet mense revidere aqueductum». Questo è il dispositivo: «Providimus statuentes quod domini gonfalonerius et consules populi semel in mense ad minus debeant videre aqueductum fontis Arenghi et revideri facere; et ubi esset devastatum faciant reactari et reparari; et etiam alias fontes civitatis Eugubii faciant revideri, reactari et reparari, si indigent reactatione et reparatione, expensis comunis. Et dicti domini gonfalonerius et consules una cum capitaneis et gonfaloneribus Artium et consulibus mercatorum possint ordinare quod habundantia aque sit in civitate Eugubii per omnem modum et viam que eis videbitur; et in predictis possint expendere de avere comunis Eugubii illam pecunie quantitatem que eis videbitur».
6. 1338 (Statutum Comunis, p. 59)
Lib. I, cap. LXXXIIII: De actando et manutenendo fontem Arenghi et eius acqueductum et viam aqueductus; p. 55.
7. 1349 aprile 22 (Riformanze, 4, cc. 53r-54r)
Si stabilisce, facendo riferimento al capitolo LXX dello Statuto [sopra, n. 5] che «pro reactatione et reparatione aqueductus fontis Arenghi expendantur et expendi ac solvi possint et debeant de pecunia dicti Comunis de mensibus maii et iunii proxime ventur(is) usque in quantitatem quinquaginta librorum ravennatensium»; si aggiunge: «ad quam reactationem et reparationem fieri faciend(as) domini gonfalonerius et consules possint eligere unum vel plures superstites ad predicta».
8. 1349 giugno 20 (Riformanze, 4, c. 112r)
Si delibera di concedere una proroga «superstitibus operis aqueductus fontium palatii Populi» rispetto al «terminus eis datus ad faciendum fieri dictum opus hinc ad kalendas augusti proxime venturas, cum haberi vel inveniri non possint magistri qui faciant dictum opus».
9. 1349 giugno 24 (Riformanze, 4, c. 113v)
Al quarto posto fra le contrade del quartiere di Sant’Andrea viene nominato il vessillifero ovvero gonfaloniere «vexilli fontis Arenghi cum signo eiusdem fontis Arenghi quod stare debet ad fontem Arenghi et in platea ante ecclesiam Sancte Crucis». Delle tre chiese eugubine intitolate alla Santa Croce stava nel quartiere di Sant’Andrea quella di Santa Croce de Vexis, che evidentemente doveva affacciarsi su un lato della piazza pubblica. Le altre due chiese si trovavano nel quartiere di San Pietro e fuori delle mura urbiche. Del «vexillum cum signo fontis Arenghi» si parlava anche poco prima (c. 108r, alla data 13 giugno 1349).
10. 1349 luglio 21 (Riformanze, 4, c. 155rv)
Si delibera, «ad hoc ut aqueductus fontium palatii Populi […] perficiatur et ad finem deducatur optatum, ita quod aqua veniat ad dictos fontes», che i soldati e gli ufficiali del podestà e del capitano, su richiesta dei «superstites dicti operis» possano «realiter et personaliter constringere summarie et de facto omnes et singulos magistros, muratores, carpentarios, caminetarios (sic), virgolatores, manovales et alios quoscumque homines actos et necessarios ad laborandum vel aliquod laborerium faciendum in dicto et pro dicto opere perficiendo». Nella stessa seduta si delibera inoltre di prorogare il «terminum datum et ordinatum ad faciendum et fieri faciendum dictum aqueductum et ipsius opus et laborerium hinc ad kalendas mensis februarii proxime accessuras».
11. 1350 gennaio 23 (Riformanze, 4, c. 367rv)
Si concede a «magister Bartholus magistri Christofori et magister Ventura magistri Iohannis», che «cum reverentia requisiverunt […] quod dent et dari faciant canellos sive tombolos de plumbo, astragum, collam, calcinam et alia eis necessaria» per il completamento «operis aqueductus fontium palatii Populi», un’ulteriore proroga di due mesi.
12. 1375 maggio 29 (Riformanze, 5, c. 80r)
Vengono nominati per un anno due superstites di varie fontane e dei condotti della città: al primo posto il fons Arengni.
Grazie al sostegno del Mediocredito dell’Umbria, che ha finanziato la ricerca, ha pubblicato Fonti e fontane dell’Umbria, Perugia, Quattroemme, 2000; su incarico del Comune di Perugia ha scritto i testi di tre dei cinque itinerari della guida storico-artistica Perugia città d’arte, a cura di F. Dufour, Perugia, EFFE Fabrizio Fabbri Editore, 2002.
In collaborazione con Attilio Bartoli Langeli ha partecipato all’edizione di fonti statutarie e consiliari relative al Comune di Perugia, al Collegio della Mercanzia e allo Studium Perusinum, pubblicate nelle collane tematiche della Deputazione di Storia patria per l’Umbria, di cui è socia corrispondente.
Nel 2005, su incarico del Comune di Perugia, ha organizzato il convegno internazionale Milites Templi. Il patrimonio monumentale e artistico dei templari in Europa, di cui ha anche curato nel 2008 la pubblicazione degli atti per conto della Volumnia editrice. Dal 2009 al 2012 si è occupata delle attività di promozione e valorizzazione del complesso templare di San Bevignate (PG).
Dal 2012 coordina, insieme al prof. Andrea Augenti dell’Università di Bologna, le attività di ricerca relative al castello di Carbonana (Gubbio), i cui esiti dal punto di vista storico-documentario saranno a breve pubblicati in una prima monografia dal titolo Il castello eugubino di Carbonana e i suoi signori, Deputazione di storia patria per l’Umbria.
Dal 2008 svolge, insieme al collega Andrea Maiarelli, la sua attività di ricerca all’interno di Scriptorium s.n.c. con sede a Perugia.
Contatto e-mail: sonmerli@tin.it