Un Dogato complesso: Antoniotto Adorno a Genova di Gabriele Ciaravolo
Antoniotto Adorno è sicuramente uno dei protagonisti della storia genovese, di un rilievo tale che talvolta si è parlato di lui – forse un po’ troppo enfaticamente – come dell’uomo politico più importante dell’Italia di fine Trecento, secondo solo a Gian Galeazzo Visconti. Personaggio ambiguo, complesso, ricco di sfaccettature, è stato visto di volta in volta come brillante statista e improvvisato demagogo, come deciso assertore della potenza genovese ma anche come ambizioso opportunista, pronto a vendere la patria al miglior offerente. Egli è stato, pur con tutte le sue contraddizioni, un personaggio esemplare nella sua atipicità, modello paradigmatico di (e per) tutti quei dogi che cercarono, aggirando le magistrature cittadine, di creare un potere personale in città, con la speranza maldestramente celata di fondare una propria signoria, secondo modalità non troppo differenti rispetto a quelle del resto della penisola. Ma chi era, quindi, Antoniotto Adorno?
Il futuro doge nasce intorno al 1340 da Adornino e Nicolosia della Rocca, rampollo di una delle più ricche famiglie della città, di recente ascesa ma di cospicue sostanze. Gli Adorno, infatti, erano stati a lungo drappieri, impegnati come tali nel settore tessile, e solo da poco si erano convertiti alla mercatura, facendo fruttare i propri capitali nella maona di Chio e in oculati investimenti in quote del debito pubblico cittadino. A ciò si aggiunga che, durante l’adolescenza di Antoniotto, la famiglia raggiunge anche le più alte cariche politiche. Nel 1360 il padre Adornino è tra gli Anziani del Comune, e nel 1363, morto Simone Boccanegra, Gabriele Adorno è il primo del vasto consorzio familiare a raggiungere il dogato.
Negli anni della sua giovinezza Antoniotto riceve un’ottima istruzione, venendo educato alle lettere e all’attività giurisprudenziale, segnalandosi – come sarà del resto anche nel caso del fratello Raffaele – come uno degli uomini più colti della Genova del suo tempo, instancabile poligrafo e abile oratore. Sappiamo ad esempio di alcuni suoi scritti in difesa dei marchesi Del Carretto, un tempo custoditi nella biblioteca ducale di Urbino, sfortunatamente persi a seguito della disgregazione del patrimonio librario montefeltrino, e che cionondimeno, fin dalla natura stessa del loro argomento, si palesano come documenti apertamente politici. È quindi un interesse piuttosto precoce quello che lega il giovane Antoniotto alla politica, cui riserva le sue attenzioni senza tralasciare il mestiere di mercante, come ogni ricco genovese dotato di intraprendenza e fiuto per gli affari. D’altro canto proprio la mercatura permette all’Adorno di allacciare stretti rapporti con l’élite cittadina, e di creare quella ramificata rete di clientele e interessi che avrebbero contribuito in maniera significativa a portarlo al dogato. Nel 1373, ad esempio, il futuro doge arma a sue spese una galea con cui partecipa all’impresa di Cipro guidata da Pietro Fregoso, poi suo acerrimo rivale. Diventa, così, tra i membri fondatori della maona di Cipro, consorzio di privati cui il Comune aveva demandato l’allestimento di una flotta finalizzata a vendicare le offese patite dai genovesi per mano dei ciprioti in cambio della gestione, per un numero finito di anni – poi a più riprese rinnovato – delle risorse commerciali e finanziarie dell’isola, secondo un modello del resto già applicato a Chio nel 1346.
I primi anni ’70 segnano anche l’ingresso in politica di Antoniotto, ormai trentenne, per cui è testimoniato l’incarico di Vicario della Riviera di Levante tra il 1371 e il 1374, ma è nel ’78 che la sua carriera conosce un’improvvisa accelerata, che amplifica a dismisura le sue non immodeste ambizioni. In quell’anno così cruciale per la storia d’Italia, segnato tra le altre cose dall’elezione a papa di Urbano VI, dall’assunzione della signoria pavese da parte di Gian Galeazzo Visconti e dal tumulto dei Ciompi, Genova conosce la prima delle tante stagioni di instabilità politica che la caratterizzeranno fino alle Leges Novae del 1528. Certo, non si può dire che fino ad allora la Superba fosse stata esente da bruschi e repentini cambi di governo, come ad esempio in occasione dell’abbandono del dogato da parte dello stesso Simon Boccanegra, fondatore della nuova magistratura, nel 1344, o la rinuncia del potere di Giovanni Valente qualche anno più tardi, nel 1353. Quello che rende il 1378 così particolare nella storia del Comune genovese e determinante per i suoi sviluppi futuri è la violenza con cui Domenico Fregoso, allora detentore della carica, viene costretto ad abdicare, nonché, soprattutto, le modalità di pressione cui ricorrono i nemici del doge, che non si fanno scrupolo a ricorrere alla plebe come massa d’urto da manovrare per soddisfare la loro ambizione. Così, a seguito della sommossa popolare da lui abilmente orchestrata, Antoniotto è eletto doge per la prima volta il 17 giugno 1378. Tuttavia, come spesso avverrà d’ora in poi, il suo dogato è quanto di più effimero si possa concepire, e il giorno stesso della sua assunzione è costretto a rinunciarvi in favore di Nicolò Guarco, suo alleato contro il Fregoso, evidentemente dotato di migliori agganci e di un maggior ascendente sul popolo.
Tra i primi provvedimenti del Guarco vi è proprio quello di esiliare Antoniotto a Savona, volendo disfarsi di un avversario infido e influente. A tal punto arriva l’ambizione dell’Adorno che non esita al fianco dei veneziani nella guerra di Chioggia, ultimo e più famoso atto del conflitto che ormai da tempo opponeva la città di San Marco alla Superba. La stipula della pace di Torino, l’8 agosto 1381, che pone fine al conflitto tra le due potenze, mette anche a tacere il tentativo di Antoniotto di rientrare in patria sull’onda di un’auspicata vittoria veneziana. Ma non avrebbe tardato molto ad ottenere, per altre vie, quel che desiderava.
Il Guarco infatti, nel tentativo di allargare il proprio fragile consenso, aveva riammesso i nobili agli uffici pubblici, da cui erano stati espressamente esclusi dalle regulae del 1363. La sua apertura, tuttavia, non aveva avuto altro effetto che quello di inimicarsi il popolo, diffidente verso la nobiltà, la quale, del resto, nonostante gli avvicinamenti del Guarco, si mostrava piuttosto diffidente nei suoi riguardi, mantenendo un certo riserbo, dovuto tra le altre cose dalla chiusura ermetica del dogato, che continuava ad esser esclusivo appannaggio dei popolari. È facendo leva sull’isolamento del doge che Antoniotto macchina, da Savona, il suo rientro in patria, in ciò coadiuvato dai Fregoso, rimasti a Genova, adesso alleati dell’esule contro il doge. Il primo tentativo insurrezionale facente capo all’Adorno, se anche viene sventato dal Guarco, ciononostante riesce a soddisfare, sul lungo periodo, le ambizioni di Antoniotto, richiamato in patria proprio dal suo acerrimo rivale, evidentemente timoroso delle macchinazioni d’oltre frontiera dell’Adorno, secondo quel vecchio detto che vuole sicuro tenersi quanto più stretti possibili i nemici. Vi furono probabilmente anche altre ragioni nella revoca del bando. Forse il tentativo di ingraziarsi la plebe, che iniziava a guardare con sempre più insistenza ad Antoniotto come un suo capopopolo, o forse altri, più sottili, calcoli politici. Ciò che è certo, è che quella inconsulta decisione del Guarco gli costò il dogato.
Rientrato a Genova, il nostro ambizioso protagonista non perde tempo e, di concerto con Pietro Fregoso e Leonardo Montaldo, assalta il palazzo ducale, costringendo lo sventurato Nicolò Guarco, rivelatosi un doge di grande acume politico nelle vicende esterne ma di scarsa perspicacia in quelle interne, a rifugiarsi a Finale, lasciando il capoluogo ligure nelle mani dei suoi rivali. Questi ultimi, cacciato il comune nemico, iniziano a contendersene l’eredità, divorandosi in accese gelosie che portano all’elezione a doge di Federico da Pagana, ormai più che sessantenne, dalla carriera politica lunga e prestigiosa ma privo del sostegno necessario a garantirsi il potere in quell’epoca di torbidi. Così, eletto il 7 aprile 1383, è immediatamente costretto a rinunciare all’incarico, pur essendo uomo di fiducia di Leonardo Montaldo, avendo toccato con mano l’impossibilità di agire in autonomia rispetto alle pressioni degli altri contendenti, soprattutto Antoniotto Adorno. È nel pieno di questa confusione che, con un colpo di mano, è proprio il Montaldo ad ottenere il dogato, con la promessa di esercitarlo per soli sei mesi, in modo tale da pacificare la città e poi, quale novello Cincinnato, ritirarsi a vita privata. In realtà, inutile a dirlo, lo manterrà fino alla morte, che avverrà piuttosto prematuramente, dopo poco più di un anno di insperato buon governo. Egli riporta a Genova la pace promessa, e riesce ad acquietare i suoi nemici cooptandoli nella gestione del Comune. Revoca il bando con cui erano stati colpiti i Guarco, permette all’Adorno di risiedere in città e di ricoprire addirittura il ruolo di Anziano, la più importante carica del Comune accanto a quella di doge. Dà poi prova della sua magnanimità nella liberazione di Giacomo di Lusignano, prigioniero dei genovesi dal ’74 e diventato re di Cipro in cattività dopo la morte del nipote, non senza prima avere ottenuto cospicui vantaggi politico-economici per i genovesi. Nonostante tutte le sue qualità, tuttavia, non può nulla di fronte alla terribile epidemia di peste che flagella la città nell’estate del 1384. Impegnato direttamente negli aiuti alla popolazione si spegne, vinto dal male, il 14 giugno, dopo tre lunghi giorni di agonia.
Il giorno immediatamente seguente, il 15 giugno, Antoniotto Adorno, rimasto incredibilmente mansueto durante i quattordici mesi di governo del Montaldo, ottiene finalmente il tanto agognato incarico di doge. È questo, finalmente, il vero e proprio dogato di Antoniotto, che esercita ininterrottamente il potere per sei anni, marchiando indelebilmente di sé la vita cittadina per oltre un decennio, destinato – come vedremo – a ricoprire quel ruolo altre due volte. In questi anni conduce una politica spregiudicata, volte solo in minima parte ad accrescere le fortune del Comune, essendo sempre presente, in ogni azione dell’Adorno, l’ambizione di accrescere le proprie fortune e consolidare il proprio casato. In quest’ottica non tarda a liberarsi dei propri oppositori, e di chiunque potesse in qualche modo mettere in discussione la sua egemonia. Il primo a fare le spese dei tentativi autocratici del nuovo doge è Nicolò Guarco, precedente detentore della carica, che viene rinchiuso nelle carceri del castello di Lerici e qui muore, per stenti, quello stesso anno.
Nello stesso tempo, Antoniotto cerca di presentarsi come restauratore della potenza genovese sul mare, promuovendo la Superba nell’agone internazionale. È a questa duplice esigenza ad esempio che risponde la celebre impresa di Nocera, concordata con il pontefice attraverso la mediazione dei Fieschi, ora alleati del neo-doge e pronti a far leva sul loro prestigio in Curia per la stipula di un accordo con Urbano VI, che promette onori e ricchezze ai genovesi in cambio della sua liberazione per mare dalla città campana. Così dieci galee al comando di Clemente Fazio liberano il papa da Nocera, che fa il suo ingresso trionfale a Genova il 23 settembre 1385. La città gli riserva un caloroso benvenuto, ma ben presto i rapporti tra il Prignano, il cui carattere irascibile e violento era ben noto ai contemporanei, e il doge iniziano a guastarsi, non ultimo per il desiderio di Antoniotto di proporsi come mediatore nello scisma che da sette anni ormai opponeva Roma e Avignone, proprio a seguito dell’elezione pontificale dell’arcivescovo di Bari. Le ambizioni del doge vengono puntualmente frustrate dal papa romano che, dopo aver concesso al Comune alcuni feudi ecclesiastici in cambio dell’ospitalità, abbandona Genova, con la solita furia, il 16 dicembre 1386.
L’intera vicenda quindi, che non a caso L. M. Levati, nella sua classica opera dedicata ai dogi genovesi, descrive come guidata “più dallo spirito d’ambizione che dallo spirito di pietà”, si risolve in un nulla di fatto per l’Adorno, frustrato nei suoi grandiosi progetti, rivelatisi irrealizzabili di fronte all’opposizione di quel pontefice vigoroso ed energico, geloso dell’autonomia ecclesiastica al punto di farsi nemico incallibile di chiunque provasse a limitarla, sia pure del suo liberatore; il quale, d’altra parte, deve fare i conti con una classe dirigente – quella genovese – dagli interessi difformi e contrastanti, incapace di raccogliersi in un sol corpo attorno ai propositi di Antoniotto, impossibilitato così a fare pressioni di qualunque sorta sul papa.
Il fallimento della politica ecclesiale non impedisce però al doge di accrescere le sue posizioni in città e nel Dominio, incrementate da un vasto programma di acquisizioni feudali e territoriali che ne fanno un grande signore fondiario, indagate di recente da Emmanuel P. Wardi, che ne mette in luce, nonostante l’apparente disorganicità, l’intima coerenza, volta per l’appunto a garantire una forte base patrimoniale all’Adorno e al suo casato. Per quanto, infatti, buona parte dei feudi ottenuti da Antoniotto si riveleranno con il tempo assai fragili, crollando dopo breve tempo, egli è in realtà apripista di una politica di radicamento sul territorio che troverà poi i suoi continuatori proprio negli Adorno e, forse ancora di più, nei Fregoso. Dai feudi di volta in volta ottenuti dietro denaro sonante, Antoniotto – o, più avanti, chi per lui – può ottenere importanti risorse economiche, e, più ancora, fondamentali riserve di uomini su cui fare affidamento nella corsa per il dogato.
Più gravide di conseguenze per l’immediata stabilità politica del dogato Adorno sono i contraccolpi delle imprese tunisine. Nel 1388 promuove una spedizione finalizzata alla conquista dell’isola di Gerba, nella parte sud-orientale del golfo di Gabès, di primissima importanza strategica per assicurare le vie di comunicazione con l’Egitto – dove molti erano gli interessi genovesi – e il Levante mediterraneo, allora sempre più nelle mani dei turchi. La flotta genovese, guidata da Raffaele Adorno, fratello del doge e accorto uomo politico, tra i personaggi più colti e influenti della società genovese di fine secolo, riconquista con relativa facilità l’isola – anche grazie all’apporto di galee siciliane e pisane –, ma è costretta ben presto a cederne il controllo a Manfredi Chiaramonti, ammiraglio siciliano, per 36.000 fiorini. L’anno seguente il fallimento di una nuova spedizione genovese, cui partecipano contingenti piuttosto significativi di navi inglesi e, soprattutto, francesi, indebolisce notevolmente il prestigio del doge in patria, che deve fare fronte a numerose congiure e cospirazioni ai suoi danni.
La paranoia di Antoniotto lo isola sempre di più, e lo porta ad agire impulsivamente, inimicandosi ulteriormente un’aristocrazia sempre più ostile e un popolo sempre più distante dal suo vecchio paladino. Tra le azioni più contestate del doge vi è l’imprigionamento di Pietro Fregoso, l’eroe di Cipro, che inasprisce ulteriormente le tensioni in città. Di fronte al malcontento crescente, constatata l’impossibilità di una resistenza inutile e dispendiosa – sia in termini umani che economici – l’Adorno decide spontaneamente di rinunciare al potere il 3 agosto 1390, ritirandosi a Loano, da dove ben presto cospirerà ai danni del nuovo doge, Giacomo Fregoso.
Giacomo, figlio dell’ex doge Domenico e nipote di Pietro, è un uomo paziente, riservato, lontano dagli intrighi della politica. Egli, di indole buona e morigerata, non è in grado di reggere la città in un’epoca così convulsa e tormentata, subendo passivamente le trame dei suoi nemici, in primo luogo Antoniotto, che non a caso fa leva sull’inadeguatezza del nuovo doge per rientrare a Genova. Domanda fin da subito al Fregoso il rientro in patria, che gli sarebbe pure concesso da quella figura così pavida e mansueta, se non fosse stato per l’assoluta intransigenza degli Anziani, che rifiutano categoricamente di revocare il bando all’Adorno, che sceglie di conseguenza la via delle armi. Con l’apporto determinante dei Del carretto, marchesi di Finale, nel ponente ligure, cui lo legavano interessi politico-economici oltreché familiari, intessuti nel corso di sapienti anni di avvicinamento, recluta un piccolo esercito personale a Sestri Levante, rientrando a Genova nell’aprile del 1391. Giacomo Fregoso abbandona volontariamente il seggio dogale, e tale è il giudizio che Antoniotto ha di lui che non solo non lo tratta da nemico, ma anzi offre un banchetto diventato celebre in suo onore, con cui manifesta tutta la propria disistima nei riguardi del predecessore, prendendosi gioco della classe politica a lui ostile.
Inizia così il terzo, brevissimo, governo di Antoniotto, durato poco più di un anno. È il dogato più fosco dell’Adorno, dove più forti sono le resistenze degli oppositori e onnipresente è la paranoia del doge, che si sente minacciato in ogni dove, continuamente insidiato dai suoi nemici. Malgrado i buoni risultati in politica estera, dove spicca il trattato pattuito nell’ottobre 1391 con il sultano di Ifriqiya, che si impegna a non porre alcun genere di ostacolo al commercio e alla navigazione genovese, a nulla vale, nell’agone cittadino, il rovesciamento diplomatico della disfatta tunisina di appena due anni prima. Così come inutile a rafforzare il prestigio del doge in patria si rivela il fondamentale ruolo di mediatore che egli svolge tra Gian Galeazzo Visconti e Firenze, che porta a una pace di compromesso nel gennaio 1392. Anzi, questo palese avvicinamento di Antoniotto al duca di Milano costituisce un’altra spia dell’incertezza del suo potere in patria, dal momento che cerca un tutore di rilievo nella figura del Conte Verde, da cui non a caso l’Adorno acquista il feudo di Castelnuovo Scrivia, in posizione strategicamente determinante a ridosso dei valichi che collegano Genova alla pianura lombarda.
Il momento di più profonda disaffezione di Genova nei confronti del suo doge è però legato alla sua condotta verso Savona, percepita come estranea agli interessi genovesi, minacciati dalla spregiudicatezza con cui Antoniotto affronta la ribellione della città, insorta contro la Dominante per marginali questioni giurisdizionali. La linea dura del doge non è condivisa dai cittadini della Superba, che imputano la rigorosità dell’Adorno ad interessi personali, contestandogli il fatto di essersi arrogato un’autorità che non gli spettava. Egli, in tutta risposta, fa decapitare due cittadini accusati di avere tramato a suo danno, ed imprigiona ancora una volta il solito Pietro Fregoso, rinchiudendolo nel carcere di Novi Ligure, senza risparmiare nemmeno il povero Giacomo Fregoso, incarcerato nel castello di Lerici. Ma la famiglia su cui più di tutte si riversa l’odio del doge è quella dei Viale, il cui più illustre esponente, Antonio, è vescovo proprio di Savona. La loro ostilità verso Antoniotto non fa che accrescersi quando l’Adorno fa prigioniero Benedetto Viale, dottore in legge, che finisce i suoi giorni in carcere duro a Lerici, dopo dieci giorni di prevaricazioni e soprusi. I Viali trovano il sostegno di Fieschi e Spinola, con cui cercano di rovesciare il doge una prima volta. E, se anche questa prima insurrezione fallisce, ridona il coraggio ai nemici di Antoniotto, che, impavidi di fronte alla repressione da questi adottata contro i ribelli, trovano il loro leader in Antonio Montaldo, che nel giugno 1392 riesce finalmente a deporre l’Adorno.
Antonio, giovane di belle speranze, appena ventiseienne, figlio di quel Leonardo Montaldo che era ancora uno dei pochi dogi di cui si serbavano ricordi prevalentemente positivi, riaccende nuovamente le speranze di quanti cercavano un minimo di stabilità. E tuttavia neanche lui riesce a garantire a Genova la tanto agognata pacificazione interna. Deposto dagli ormai usuali giochi di palazzo nel luglio del ’93, a lui seguono ben sei dogi in appena tre anni. Pietro Fregoso, Clemente Promontorio, Francesco Giustiniani Garibaldo, lo stesso Montaldo, Nicolò Zoaglio e Antonio Guarco. Un lungo elenco di nomi, su cui sarebbe vuota erudizione soffermarsi, ma che rende conto della gravità della crisi genovese. E di questo marasma, ovviamente, non poteva non approfittare Antoniotto Adorno, che nell’agosto 1393 cerca di rientrare a Genova con un nutrito stuolo di seguaci, avvalendosi anche del supporto del Visconti. È sconfitto da Antonio Montaldo, che a seguito di questa vittoria otterrà nuovamente il dogato, anche se macchiandolo dei problemi del precedente, riassumibili nel sostegno della nobiltà a scapito del popolo, che così non può fare altro che rivolgersi di nuovo ad Antoniotto, che, per l’ennesima volta in esilio, trama contro il doge di turno.
La sorte di Antoniotto diventa una questione di stato, in grado di fare cadere un dogato, come è nel caso di Niccolò Zoaglio, costretto ad abdicare da Fregoso e Guarco a motivo della sua propensione ad ascoltare le suppliche del vecchio doge e a riammetterlo in città. In questo frangente, peraltro, si colloca uno dei momenti più bassi di tutta la storia genovese, se si deve credere a quella tradizione secondo cui, deposto Niccolò, il dogato sarebbe stato conteso in una partita a dadi tra Pietro Fregoso e Antonio Guarco. Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre del 1394 Antoniotto tenta l’ennesimo ingresso manu militari in città, ma è sconfitto e fatto prigioniero dal Montaldo, che si attira così la gelosia del Guarco, il cui dogato, ottenuto con la fortuna del gioco, è ben presto abbandonato dalla buona sorte, segnato, come intuibile, da una cronica instabilità. Di fronte all’acredine del doge, Montaldo si rende protagonista di uno dei tanti, sorprendenti, rovesciamenti di alleanze che con il tempo avrebbero segnato la storia genovese, e, liberando l’Adorno, vi si allea con l’intento di cacciare Antonio Guarco dal seggio dogale.
Avuta ragione del comune nemico, Montaldo e Adorno si accordano sulla comune rinuncia al dogato, delegando a un’assemblea di cittadini riunita nella chiesa di San Francesco – demolita all’inizio dell’Ottocento, i cui resti superstiti si trovano tra palazzo Bianco e palazzo Doria-Tursi – l’elezione del nuovo doge. Qui però, il 3 settembre 1394, Antoniotto non si fa scrupoli a rimangiarsi la parola data, e dando sfoggio di tutta la sua abilità retorica riesce a convincere i presenti, tra cui molti uomini del popolo minuto, da sempre prezioso alleato della politica Adornea, a conferirgli, per la quarta volta, il dogato.
L’ultimo governo di Antoniotto è segnato, in città, da una malaccorta apertura verso la nobiltà, che determina l’allontanamento di borghesi e popolo minuto dal doge, mentre sui confini della Superba si fa sentire, sempre più stringente, la pressione francese. Intanto, nel loro comune esilio, Guarco e Montaldo si riavvicinano per condurre una nuova azione contro l’Adorno, che si avvicina alla Francia preferendo la protezione dei Valois all’arbitrio dei suoi nemici. A complicare ulteriormente il quadro, nel novembre del ’94, Savona si ribella, come di consueto, a Genova. Solo che questa volta trova un protettore d’eccezione nella figura di Luigi d’Orléans, che si impadronisce della città chiamato dagli stessi suoi cittadini, che preferiscono la sua signoria al vorace dominio genovese. Tenuto conto di tutto questo, quindi, la dedizione di Antoniotto Adorno alla Francia, tanto vituperata dalla storiografia più tradizionale, non è altro che l’inevitabile risultato di una fragilità politica che, dentro e fuori, non può che portare il doge nelle braccia di Carlo VI. Tanto più che l’Adorno riesce a salvare il possesso genovese di Savona proprio consegnando il dominio della Superba al re di Francia. Infatti, nelle lunghe trattative che preparano il passaggio di Genova alla signoria francese, Antoniotto evidenzia come clausola imprescindibile la restituzione di Savona alla Dominante, cosa che il sovrano d’oltralpe ordina di buona lena al fratello, preferendo di gran lunga il controllo di Genova alla difesa dei savonesi. Inoltre, è pur sempre vero che, nonostante la disparità tra le due potenze in campo, Antoniotto tratta – quasi – da pari a pari con il re di Francia,e non rinuncia al doppiogioco diplomatico, cercando di garantirsi il sostegno dei Visconti in chiave anti-francese, anche se senza successo. Pertanto, dopo estenuanti contrattazioni con i Valois, Antoniotto Adorno cede Genova alla corona di Francia nell’ottobre del 1396.
Gli ultimi anni di Antoniotto vedono il suo abbandono della politica. Sul finire del ’96 si dimette dall’incarico di governatore, che passa a Valeriano di Lussemburgo, conte di Ligny, e si ritira a vita privata, rifugiandosi a Castelfranco di Finale, presso i marchesi Del Carretto. Qui, abbandonata ormai ogni velleità revanscista, si spegne, a 58 anni, tra il 5 e il 6 giugno 1398, vittima, come Leonardo Montaldo, di un’epidemia di peste.
La figura di Antoniotto, quindi, come accennavo all’inizio di questo articolo, è sicuramente enigmatica e complessa, e, al netto di alcune costanti nella sua attività politica e di governo, la sua intera esistenza è sfuggevole e densa di tribolazioni, così simile alla città che tanto lo amò e altrettanto ugualmente lo detestò. Si rivela estremamente poco agevole, quindi, cercare di trarre alcune considerazioni di carattere generale da un personaggio così tormentato e, per alcuni aspetti, sgradevole, ma forse proprio questa problematicità è il primo e più importante dato da tenere in considerazione. Antoniotto non ha una linea politica netta e definita, è ondivago e pronto a cambiare fronte a seconda delle necessità del momento. Non si fa scrupolo a parteggiare ora per il popolo ora per la nobiltà, e allo stesso modo non esita ad allearsi con il nemico di ieri per affrontare l’avversario del momento. L’unica costante è, per lui, l’ottenimento del potere; il quale, però, non è del tutto disgiunto da un travagliato ‘amor di patria’. Dopotutto, molte delle azioni di Antoniotto come doge sono volte a riaffermare la potenza genovese, e le sue stesse, frequenti, rinunce al dogato possono essere lette non solo come l’esito di un raffinato calcolo politico, volto all’abbandono del potere per consolidare il proprio peso all’esterno e poter quindi tornare più forte in patria, ma anche come indice dell’effettivo attaccamento alla sua gente da parte dell’Adorno, che così facendo risparmia ai suoi concittadini i tanti danni e lutti risultanti da una guerra civile. Certo, si dirà, è pur vero che una volta in esilio Antoniotto non esita a radunare uomini e mezzi per rioccupare manu militari Genova, ricorrendo anche ad apporti esterni come, in primis, quelli viscontei, ma lo fa sempre e comunque da fuori, con risorse a suo avviso preponderanti, e non insiste mai in sanguinose rappresaglie ai danni del popolo. Egli, insomma, si scaglia esclusivamente contro i propri nemici, o quantomeno quelli che considera tali, dimostrandosi comunque restio, anche in questi casi, a ricorrere all’eliminazione fisica dei suoi antagonisti, preferendo rinchiuderle o allontanarle dal potere politico, anche se diverse eccezioni a questa regola costellano la sua carriera, specialmente nei momenti in cui sente più fragile la propria egemonia, quando più stringente diventa la sua paranoia. D’altro canto la maggior parte dei nemici del doge sono spesso e volentieri nobili, ed è salvato il suo rapporto privilegiato con il popolo – esclusion fatta, come abbiamo visto, per il suo ultimo dogato –, che a lui guarda come il suo difensore. La politica dell’Adorno è infatti chiaramente demagogica e populista, finalizzata a trovare nel popolo minuto quel sostegno delle masse di cui aveva bisogno per conservare il potere. Nella stessa ottica si collocano, come abbiamo visto, i tentativi del doge di costruire un proprio dominio feudale a ridosso di Genova, e la sua scaltra politica matrimoniale, che lo avvicina ai Doria con la seconda moglie Ginevra e rafforza i suoi legami con i Del Carretto, legando i propri figli e figlie a membri dell’illustre casato ponentino. Infine, anche nel cerimoniale di corte e nella politica evergetista di cui si fa carico, abbellendo il palazzo ducale ed ingrandendolo con ampi e ricchi e saloni per le riunioni dei consigli cittadini, manifesta una chiara volontà di potenza, il desiderio di cementificare il proprio potere attraverso una politica di prestigio.
Luci e ombre, pertanto, coesistono in Antoniotto, e non si possono trattare le une senza le altre, due facce di una stessa medaglia in un’epoca così travagliata e difficile come l’ultimo Trecento genovese, dove vige l’instabilità politica e la pacificazione interna appare un miraggio. Egli, insomma, abbiamo visto, è un personaggio ricco di contraddizioni, e forse per questo così appagante. E del resto la coerenza non era sicuramente la virtù dell’uomo medievale.
Riferimenti bibliografici
M. Levati, Dogi perpetui di Genova 1339-1528. Uno studio biografico, Marchese & Campore, Genova 1928.
G. Oreste, Adorno, Antoniotto, in Dizionario Biografico degli Italiani – volume 1 (1960).
Petti Balbi, Tra dogato e principato: il Tre e il Quattrocento in Storia di Genova, Mediterraneo, Europa, Atlantico, Società Ligure di Storia Patria, Genova 2004.
E. P. Wardi, Le strategie familiari di un doge, Antoniotto Adorno (1378-1398), Paravia Scriptorium 1996.
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