Un po’ di medioevo in rima: il poema “La via santa” di Sergio Giovannetti
Un poema nel 2020? diranno i più. Ebbene sì, io l’ho scritto, e sono convinto che non sia possibile un affresco in poesia della spiritualità del Medioevo senza una cornice dove la complessa, ma unitaria e organica visione del mondo di allora, possa dispiegarsi (Si pensi alle complicate architetture di Divina Commedia e Decameron). Allo stesso modo che frammento e discontinuità sono la cifra del mondo di oggi, che non può più essere racchiuso in una forma compiuta.
Lo stesso vale per la rima. Che non può fare da accompagnamento al nostro accelerato andare in groppa a mostri d’acciaio dal rombo lacerante. Che io ho invece usato non solo perché tipica dei menestrelli, ma per dare armonia e unità alla narrazione e scandire il ritmo del viaggio. Quasi l’eco del ticchettio incessante degli zoccoli del cavallo sul selciato. O come una ninna nanna o un’antica nenia che culla il lettore in un percorso che s’inoltra in profondità che paiono oniriche. Un universo instabile e fluido come era la percezione del mondo dell’uomo medievale, per il quale labili erano i confini tra al di qua e al di là, scienza e magia, visioni e persone in carne e ossa.
È la storia di un giovane cavaliere, un viaggio-pellegrinaggio nel primo decennio del ‘trecento lungo la via Francigena. Dalle valli alpine scosse da impetuosi venti ereticali alle brume palustri e malefiche della Piana Padana, dalla perduta sensualità pagana di Luni alle inquietanti atmosfere di Lunigiana e Lucchesia, dalla dolce e insanguinata Valdelsa ai vicoli di Siena imbevuti di mistero e paure. Per puntare poi verso la mistica terra di San Francesco, verde e solatia, ma non meno sofferta e costellata di precipizi.
Ne emerge un Medioevo dalla spiritualità oscura e visionaria, come era allora quella religiosa (si pensi a “Il nome della rosa”). Con precisi riferimenti storici: non tanto per i nomi e le date che mai compaiono, ma per i contenuti e lo spirito che anima i dialoghi, ricreati non di rado da testi (letterari) dell’epoca.
Ed ecco allora far capolino i propositi di fra Dolcino:
Dulcis (… in fundo)
… «Il gran castigo di fuoco e sangue
pende sul clero lascivo e pingue.
Per tirare in terra l’era dei puri,
come Dio nostro, c’è da esser duri.
Penitenza, penitenza e agite!
Il Tempo è questo, da qui non fuggite.
Questi i giorni sanguigni e cupi
in cui pastori e cani son lupi» …
O, in una animata rievocazione del lago Gerundo e del drago Tarantasio, le idee dei Catari:
… «Oscura il male le belle contrade,
trabocca liquido dai lidi dell’Ade.
Un deus extraneus, un dio straniero,
percuote la terra, arrotola il cielo.
Da qui fuggi, fuggi via forestiero,
tornerà il drago e il lago nero!»
O la figura di San Francesco, che coglie il divino e il bene in ciò che appare come male e dolore:
… Sulla strada erta e polverosa
s’offriva estatico a spina e a rosa.
All’innocenza della sua mano
annuivan le belve, come ad Adamo.
Cantava con i grilli e l’usignolo,
fremeva col tutto, mai era solo.
Sposò povertà, asciugò lutti,
carezze dolci sempre ebbe per tutti.
Lungo la gelida terrena notte,
risanò ossa ed anime rotte.
A sorella ebbe la sofferenza
del cui sigillo schiuse l’essenza:
non va ad ascender, le azzurre vette,
chi non conobbe le sue carezze…
Ma non senza profonde contraddizioni:
… A tutto accogliere, il mal del Creato,
d’Amore piaga gli aprì il costato.
L’Amor non amato, l’Amor che non s’ama,
avea in cor confitto, e eran gli occhi fontana.
E amar poté, come non vana e pia,
d’Iddio la troppo inumana follia.
Nella vertigine dell’Alto Amore,
il cieco duol trasmutava in dolcore.
E s’è eclissato nel cielo più aperto,
chi lo segue nell’estremo deserto?
La croce non è il fine, è solo la cruna,
che apre a durevole pace e fortuna»…
Il poema ha poco a che fare con la “chanson de geste”. Riecheggia piuttosto (ma non nella metrica, perché non uso l’ottava) le narrazioni popolari cantate dai cantastorie di fine ‘ottocento ed oltre. Non mancano quindi le tinte gotiche, le creature d’ombra, le visioni ultraterrene. E scorci del mondo pagano, con la sua sensualità e la lucentezza dei marmi, mortificata dal cristianesimo, che baluginava ancora come un astro notturno dalle rovine di Luni… E leggende, pievi, castelli, per rievocare ed evocare, con l’intensità della poesia, l’anima di luoghi e tempi che non sono più.
Ma come la storia s’immerge nel passato per parlare al presente, tanto più lo deve fare la poesia. Nel delineare la figura dell’alchimista, per esempio, ho di mira la brama di onnipotenza della scienza odierna, che ne ha ereditato lo spirito. Nella descrizione della caccia alle streghe ho in mente le inverosimili bufale e la gratuita demonizzazione di incolpevoli persone oggi dilagante sui social. Per non parlare di “La città degli specchi morti”, profonda satira dell’alienante dipendenza dal web.
E ancora ai nostri giorni ci riporta il divino vate che innanzi al castello di Fosdinovo spara a zero contro la corruzione e il decadimento dei costumi ai suoi tempi. A dimostrazione che la storia è sempre la stessa, o meglio è sempre la stessa storia, la stessa zuppa:
… «Traligna Chiesa, che osteggia l’Impero,
perso è l’ordine naturale e vero.
Infranti i cardini, ito ogni rispetto,
d’autorità rovinò mura e tetto.
Dalla gran falla, aperta la stalla,
dilaga e mugghia feccia e marmaglia.
Villani e migranti la fan da padroni,
tutto ci rubano, superbi e felloni:
entra il bifolco e il faccendiere,
e l’occhio acuto del barattiere;
con la mercatura fanno tesoro,
e compran cariche ed il decoro.
Entra ’l mercenario e ’l masnadiero,
il lurco alemanno e l’uomo nero»…
Anche pestilenze e carestie, ovviamente presenti alla grande nel testo, paiono rimandare all’attualità. Come a voler ricordare a questo secolo distratto, che rifugge dall’idea stessa della morte, che la condizione dell’essere umano è sempre la stessa, e la sola possibilità che ci è data, nell’oscuro labirinto dell’essere al mondo, è la ricerca di una via di salvezza oltre la vita ordinaria. Quale che sia. Come l’uomo medievale rivolto tutto alle questioni ultime.
Il cui cercare e andare peregrino (per agros ire) può anche sembrare vano:
… E andava, andava, e andava…
strette spire svolgeva la strada,
soffiava del tempo il serpente,
i gesti cadevan nel niente,
il cavallo inseguiva la biada…
“Qui multum peregrinantur, raro sanctificantur”, ebbe a dire la Chiesa stessa resasi conto che il pellegrinaggio più che occasione di redenzione si poteva rivelare, come ogni strada del mondo, via di perdizione. Il cammino non può quindi essere un “Itinerarium mentis in Deum”.
Così, un vecchio pellegrino, interrogato dal giovane protagonista, conclude:
… «Lunga è la via, né mai finita,
ma per la strada, non perdi Dio e Vita?».
… In un punto il cammino andò storto?
Non s’avvide, ed era già in porto?
Dura è la terra, e l’ossa ti frange,
né Ciel ti accoglie nel blu del suo seno:
solo, a aspettarlo una vecchia che piange,
solo, aspettava, un altro giorno sereno?
… «A gran passi s’appressa il tramonto,
l’Oste bussa, e non torna il conto».
Ma la fede non sboccia miracolosamente proprio dalla coscienza dell’assoluta nullità nostra e dall’impossibilità, al tempo stesso, di rassegnarsi al Nulla?
… Sognante è lo stato di Dio,
di lui fluida è la vela e la tela:
la tristezza è il suo mare fecondo.
Nell’andare insensato per via
disparendo a noi si disvela:
quasi eterno, ai viventi, miraggio,
o baluginio di quieta-lenta agonia,
nell’ora estrema dell’altro viaggio.
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