
Una ricostruzione dell’aspetto originario della corona ferrea di Valeriana Maspero
Le datazioni al carbonio 14 effettuate negli anni Novanta indicano che la corona cosiddetta ferrea attualmente custodita nel duomo di Monza esisteva già nel V secolo. Le analisi metallografiche hanno escluso che il cerchio interno fosse di ferro, rivelandone la natura in argento, tuttavia dei residui ferrosi sono stati rintracciati (Augusto Calderara, 1994) nei fori che compaiono sul suo margine. Questi dati scientifici concorrono a chiarire due dei quesiti fondamentali sulla corona: perché è così minuscola (cm 15 di diametro) e come erano le sue dimensioni originali.
Le testimonianze di Eusebio di Cesarea (330 ca) e di Ambrogio (395) indicano che originariamente l’elmo da parata di Costantino il grande era armato con uno dei chiodi della croce di Cristo e bordato con un diadema che conteneva la reliquia lignea della croce. Indizi visivi su monete, medaglie celebrative e sigilli accostano – attraverso le somiglianze di forma e decori – il diadema in questione alla corona ferrea, giunta a noi superando numerose traversie che l’hanno gravemente alterata nei secoli.
Essa presenta trenta forellini in coppia e due più grossi su un margine, praticati obliquamente dall’esterno verso l’interno, quasi tutti in posizione nascosta dal filo d’oro perlinato che orna il sommo delle piastre. La loro esistenza permette di rispondere a un primo quesito sul suo uso. I fori minuscoli servirono ad assicurare la piccola corona su copricapi più grandi in alcune storiche incoronazioni (Carlo V nel 1530, Ferdinando d’Asburgo nel 1838). Le posizioni dei fori più grossi smentiscono le ipotesi di alcuni studiosi secondo i quali la ferrea sarebbe stata una corona votiva: sono posti rispettivamente a 124, 116 e 120 gradi, e non consentirebbero una sospensione in asse della corona: la si vedrebbe pendere sbilenca sopra l’altare. Essa aveva dunque funzione incoronatoria.
Le testimonianze storiche ci indicano poi che venne mutilata almeno due volte. La prima – testimoniata da Costantino Porfirogenito, dall’Anonimo Valesiano e dal vescovo Ennodio di Pavia – avvenne quando Teoderico degli Ostrogoti la ricevette indietro da Bisanzio (493) come insegna del regno d’Italia e la agganciò al suo elmo da guerra (kamelaukion). La seconda quando Manfredo e Raimondo della Torre (1272) impegnarono la corona – che era rimasta a Monza grazie alla regina Teodelinda – presso la locale confraternita degli Umiliati: Matteo Visconti nel 1319 la riscattò per 26 mila fiorini rimpicciolita (parva è indicata in un inventario del 1275). Per queste ragioni del diadema originario ci sono pervenute solo sei piastre e in una sequenza visibilmente rimaneggiata.

Le attuali sei piastre di cui la corona è composta non sono tenute insieme dal cerchio interno, ma da un meccanismo a cerniera – perfetto e mascherato ai lati di ogni piastra – formato da cilindretti in cui è infilato un lungo sottile perno che le tiene unite. Ogni piastra è dotata, a destra e a sinistra, di tre di questi cilindretti, che risultano opponibili tra di loro per incastrarsi verticalmente. Tre piastre portano questi tubuli in corrispondenza parallela sui due lati – due a partire dall’alto, una dal basso -; le altre li hanno invece in posizioni alternate. Questo andamento dei cilindretti determina la posizione delle piastre, che non sono intercambiabili tra loro: per potersi incernierare ognuna deve occupare una posizione precisa nella sequenza del diadema.

Anche il decoro delle piastre condiziona la loro posizione. Esso è composto da un motivo verticale di tre elementi (il piccolo quartiere, formato da tre gemme una sopra l’altra) e un motivo a croce di cinque elementi (il grande quartiere: quattro rosette con una gemma centrale). Tre delle piastre hanno il motivo verticale alla sinistra di quello a croce, le altre tre mostrano il motivo verticale a destra, da cui si deduce che erano in posizione speculare, simmetrica (come ancora sono) nel diadema originario. Alcune delle piastre nell’attuale sequenza mostrano delle anomalie significative.
La piastra che possiede la più evidente è quella che nel piccolo quartiere ha due rosette e una gemma invece che tre gemme come tutte le altre.
Un’altra piastra anomala mostra i cilindretti della cerniera brutalmente segati in più punti; inoltre mentre ogni piastra porta su un lato (tutte lo stesso) un filo decorativo perlato in oro, sporgente, che serve a mascherare elegantemente i cilindretti della sua cerniera, questa piastra lo porta su entrambi i lati. Proprio tra questa e la piastra successiva si nota l’effrazione più evidente: non sono correttamente allineate, appaiono estranee una all’altra, si incontrano mostrando entrambe il filo perlinato di copertura dei cilindretti che – come si diceva prima – sono stati grossolanamente espunti e ricollocati per essere compatibili, e il perno che li trapassa è difforme, troncoconico, più grosso degli altri e sfilabile dal sotto: è il chiaro segno dello scardinamento per l’espunzione e di una forzata ricomposizione, le operazioni subite dalla corona al tempo degli Umiliati.

Il quesito diventa: quante e quali furono le piastre espunte?
In primo luogo, poiché le sei piastre residue sono speculari, e ce n’è una con il piccolo quartiere formato da due rosette e una gemma, doveva essercene un’altra con un identico decoro, e anch’essa – simmetrica alla sua corrispondente – con i cilindretti paralleli bassi/alti per l’aggancio (nel disegno esplicativo è indicata con la Y).
Venendosi così a formare, con l’integrazione di questa piastra Y, un segmento regolare di quattro piastre (4, 5, 6, Y), il segmento corrispondente sull’altro lato del diadema non poteva essere composto da tre soli elementi: quindi doveva esserci un’altra piastra, che l’andamento dei cilindretti indica possibile tra la 1 e la 2, con cilindretti alterni bassi/alti per essere compatibile con la 6 (nel disegno indicata dalla X).
La specularità tra i due segmenti di quattro piastre confermerebbe la presenza di una piastra centrale tra la 3 e la 4. Ma qui entriamo nel campo delle ipotesi: forse ai lati essa aveva due piccolo quartiere rosetta-gemma-rosetta e al centro una pietra incastonata altamente significativa per il diadema: la gemma indicata come la più preziosa di tutte (quella in cui era incluso un frammento del legno crucis divinae redemptioni) secondo Ambrogio (395), e successivamente la pietra che la vipera custodisce con maggior accanimento secondo il vescovo Ennodio nel suo Panegiricon di Teoderico (495 ca). Una tale conformazione della piastra centrale giustificherebbe il piccolo quartiere anomalo dell’unica piastra attualmente rimasta che lo porta, e della sua ipotetica gemella speculare Y, che chiuderebbero il retro del diadema richiamando il motivo rosetta-gemma-rosetta della piastra frontale, nonché il doppio filo perlinato della piastra 3, destinato a nascondere due cerniere.

La sequenza di nove piastre così ottenuta (disegno 4), assicura la regolarità del ritmo del decoro gemmato e del filo perlato laterale; i cilindretti delle cerniere risulterebbero tutti esattamente compatibili tra di loro (piastra 1 cilindretti alterni bassi/alti; piastra X cilindretti alterni bassi/alti; 2 paralleli bassi; 3 paralleli alti; piastra centrale paralleli bassi; 4 alterni alti/bassi; 5 alterni alti/bassi; 6 paralleli alti; Y alterni bassi/alti). Da notare che l’orafo che al tempo degli Umiliati scelse le piastre da togliere dalla corona calcolò bene come farlo, intervenendo con un unico rimaneggiamento: infatti solo togliendo la X, la Y e la C, poteva scardinare gli orli di congiunzione tra la 3 e la 4 e ricomporre così la 1 con la 2 e la 3, e simmetricamente la 4 con la 5 e la 6, così come oggi sono incernierate nella corona.

Con le nove piastre previste da questa ipotesi di ricostruzione il diadema verrebbe ad assumere un diametro compatibile con la sua funzione di bordo di un copricapo ampio tanto da proteggere la testa di un guerriero dalla fronte alla nuca, come dovevano essere stati il leggendario elmo di Costantino prima, e il kamelaukion di Teoderico poi.
Un ultimo dato interessante che emerge da questa ricostruzione è rappresentato dalla nuova successione che i fori più grossi presenti sul margine della corona assumono nella sequenza: essendo situati sul castone di testa delle piastre 3, 4, 6 e, per deduzione, X, essi risultano simmetrici tra di loro (disegno 5). I quattro grossi fori si presentano in corrispondenza dell’incrocio di due corde regolari della circonferenza e potrebbero rappresentare i punti di aggancio dell’armatura che assicurava il diadema all’elmo, e che storicamente diedero il nome di ferrea alla corona.
Laureata in storia e filosofia, ex docente, pubblicista, autrice di testi scolastici, ha scritto testi di storia e narrativa. Fa parte di associazioni culturali e tiene incontri e conferenze per promuovere la conoscenza della storia della corona ferrea e del periodo medievale in Lombardia. Tra le pubblicazioni: Percorsi visivi, corso di educazione artistica, Ghisetti&Corvi, Milano, 2001, Homo, corso di storia, Immedia, Milano, 2004, La corona ferrea, storia del più celebre simbolo del potere in Europa, Vittone, Monza, 2004/2008, Il gioco della corona ferrea, Immedia, Milano, 2005, Bonincontro e il Chronicon modoetiense, EiP, 2010, Geostoria della civiltà lombarda, Mursia, Milano, 2013, Il ghibellino di Modoezia, LibraccioEditore, Milano 2014, Memorie di una millenaria, LibraccioEditore, Milano, 2016, saga storica ‘La dinastia del drago – i Visconti di Milano’ LibraccioEditore, Milano, 2017.
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