di Aldo C. Marturano
Dai documenti che li descrivono alla fine del VII sec. d.C. quando ormai le grandi migrazioni dal sud delle steppe ucraine si sono ormai fermate, gli Slavi sono riconosciuti dai vicini come buoni agricoltori e soprattutto come coloro che sanno adattarsi (e nessuno meglio di loro!) a vivere nella foresta boreale europea piena di mortali paludi, di laghi estesissimi e di fiumi enormi. Molti indizi ci suggeriscono tuttavia che gli Slavi conservarono a lungo l’uso e lo sfruttamento del territorio in qualità di raccoglitori-cacciatori come era stato il modo di vita prevalente nel sud (nelle steppe ucraine) donde venivano. Dagli scavi fatti in zona polacca e nella Germania orientale risulta pure che gli Slavi (e i Baltoslavi) giunti da queste parti ai confini della foresta più fitta non avevano apportato alcunché di nuovo nelle tecniche agricole locali. Le rese perciò erano insufficienti, se la popolazione da nutrire superava un certo numero, e fatti bene i conti trarre alimenti dall’ambiente con le vecchie tecniche di raccolta e caccia restava indispensabile seppur in combinazione con l’agricoltura e con i modi di vivere contadini. Anzi! Per la ricchezza dei fiumi e dei laghi, nel nord d’Europa la caccia diventò in prevalenza… pesca!
Nella formazione dei primi stati slavi e slavo-russi in una compagine di un vasto territorio che si voleva gestito da pochi uomini la questione economica era primaria giacché, non esistendo industrie organizzate né una produzione di massa da orientare o da dominare, il commercio e i guadagni che da esso si ricavavano erano l’unica fonte di ricchezza alla quale attingere per sostenere un budget “statale”. L’VIII-IX sec. d.C. è persino un momento favorevole in questo senso poiché ci sono grossi centri compratori concentrati nelle grandi città in Europa e nel Centro Asia che guardano con interesse al nord europeo dove la foresta è il più grande giacimento di materie prime esistente e, guarda caso, non è ancora sotto il controllo di un unico grande stato. Sicuramente assoggettare gli Slavi e le altre etnie presenti nella foresta per il fine economico era nei piani sia del Regno dei Franchi (e poi Impero Romano d’Occidente) sia dell’Impero Romano, tanto è vero che il primo stato “slavo” che sorgerà intorno ai Carpazi sarà capeggiato da un mercante franco a nome Samo e auspice ne sarà Costantinopoli.
In ogni caso le materie prime vanno trasformate e occorrono gli artigiani che sappiano lavorarle. Dopodiché occorrono abili mercanti che sappiano creare e mantenere relazioni di compravendita fra acquirenti talvolta lontanissimi geograficamente e differenti nella domanda economica. Gli artigiani vanno nutriti, il potere va nutrito, i mercanti pure e pertanto la fornitura di cibo a monte di qualsiasi struttura economica statale – al tempo delle prime penetrazioni variaghe della Pianura Russa del VII-IX sec. d.C. ancora in embrione – potrebbe essere coperta tirando le somme dalla produzione agricola affidata alla presenza sparsa degli Slavi? Purtroppo benché la Chiesa Russa fosse in teoria l’organizzazione che si sarebbe dovuta interessare dei “pagani” slavi e delle altre etnie (pure pagane) che con questi ultimi convivevano e scriverne nelle CTP (Cronache del Tempo Passato) che sono le fonti primarie del Medioevo Russo, degli Slavi della foresta dice poco, se non niente, e delle risposte migliori le dobbiamo ricavare dall’archeologia.
Che cosa non funzionò a questo proposito nella Chiesa Russa? Concretamente iniziò a operare verso il 1100 d.C. cioè all’epoca in cui essa produsse le prime redazioni delle CTP, ma le parrocchie attive a contatto coi contadini sul territorio arrivarono molto più tardi. Non solo! Piuttosto che nella foresta le parrocchie sorsero lungo i grandi fiumi nelle vicinanze delle città-fortino dei Variaghi…
I Variaghi per conto loro conservavano già una brutta fama. Nella Pianura Russa come i loro congeneri Vichinghi seminavano soltanto terrore allorché, localizzato un villaggio, minacciavano di assaltarlo e saccheggiarlo senza pietà. La strategia variaga tuttavia non era favorevole alla totale distruzione giacché il traguardo finale era lo sfruttamento e non l’annientamento delle risorse materiali e umane e rapidamente fu perciò adottata la tattica di annunciare l’arrivo di altre bande svedesi come loro, ma con guai peggiori per i malcapitati contadini. Le altre bande infatti non avrebbero esitato a distruggere case e a prendere in ostaggio giovani e donne. Avvertivano però che tutto ciò si poteva evitare, se ci si fosse messi d’accordo per il mantenimento a vita (tramandato con la parola russa kormlènie) della loro compagnia armata che si sarebbe sistemata in un baluardo sul fiume a difesa contro ogni nemico e avrebbe lasciato piena autonomia al villaggio stesso.
La situazione evolve e nel X sec. d.C. i Variaghi già organizzano stati e staterelli nelle loro città-fortezze (gòrod) che sono riusciti a edificare e alleati con l’organizzazione ecclesiastica di modello costantinopolitano cercano ora la maniera più subdola di dominare e cioè diffondendo i concetti di missione divina del potere, l’obbedienza santa al signore et sim. Per metter su questa operazione ideologica i Variaghi si presenteranno lungo i fiumi insieme con preti e monaci ovunque esistesse un posto di scambio, un mercato. Come organizzazione propagandistica dei pirati svedesi, la religione cristiana a questo punto non faceva altro che suscitare altre paure e diffidenze specie fra la gente comune che osava frequentare i mercati. Figuriamoci le reazioni di queste persone, quando i preti estranei per lingua e cultura annunciavano di voler evangelizzare ogni uomo, donna e bambino e chiedevano informazioni sui villaggi di provenienza. I sacerdoti cristiani con i loro riti strani e misteriosi erano temuti dagli Slavi perché ritenuti potentissimi sciamani e, se si pensa che un parroco sarebbe stato destinato al villaggio per viverci tutta la vita e che la comunità avrebbe dovuto persino mantenerlo, si possono immaginare l’allarme che si creava a livello umano fra gli Slavi. Perché concedere a questo intruso terra da coltivare o dargli una donna in sposa se poi con la sua oltraggiosa dottrina mirava proprio a distruggere le istituzioni che gli antenati avevano tramandato?
D’altronde nulla accadrà di quanto appena detto finché il Patriarcato che gestiva le operazioni da Costantinopoli non fornì ecclesiastici di lingua slava, ma greci mandati allo sbaraglio, e quindi la Chiesa Russa agli inizi del suo mandato per ovviare alla carenza di personale ben addestrato e disposto a “penetrare” la foresta per portare la “parola di Dio” in lingua slavo-russa (bulgaro-slavo) soltanto con la fondazione a Kiev del Monastero delle Grotte istituì una scuola ad hoc. In più le comunicazioni con l’entroterra erano oltremodo difficili e la politica più immediata dei sedicenti principi a capo delle città-stato slavo-russe (o tout court russe) e istigati dalla chiesa fu di investire massicciamente nei monumenti e nelle festività affinché la gente fosse attratta fuori dalla foresta accorrendo a partecipare nell’ambiente cittadino dal sentito-dire di sfarzose sagre, mercati e processioni. Insomma il processo di propaganda per affermare il potere cristiano fu lentissimo e ebbe poco impatto sugli abitanti della foresta, a parte appunto la zona intorno a Kiev e a qualche altra città in crescita. La situazione non mutò fino al XV sec. d.C. e una testimonianza di tale situazione stagnante e dei suoi strascichi è un processo del 1492 (!!) dove il convenuto I. Onisimov, agricoltore, dichiarò che per 12 anni aveva lavorato nella zona intorno a Mosca disboscando e che… mai la sua ascia ne aveva incontrato un’altra!
Adesso sarà chiaro perché lo storico nel desiderio di parlare di cultura e di economia contadina deve intraprendere la ricerca e spaziare in vari campi senza aspettarsi esiti clamorosi. Innanzitutto deve ricorrere a ipotesi talvolta azzardate quando gli conviene supporre per comodità (euristica) che la società contadina rimanesse praticamente statica per ben 3-4 secoli o più, ma poi deve persino ricorrere alla “storia orale” raccontata nei racconti popolari (byliny) raccolti accuratamente e con gran fatica nei XIX-XX secc. Queste storie dovrebbero rispecchiare antiche abitudini, nascondere antichi riti pagani interessanti da conoscere per penetrare negli usi e nei costumi del passato slavo-russo e sarebbe pure giusto pensare che si rifacciano a fatti realmente accaduti con personaggi davvero esistiti. Tuttavia, se non va trascurato comunque l’esame di tali testi, occorre però fare dei confronti meno speculativi fra quanto questi testi ci suggeriscono e la realtà storica meglio nota dal lavoro di ricerca fatto al di là della Vistola e a sud dei Carpazi per gli Slavi negli scavi. Alla fine con le informazioni che si possono raccogliere lungo strade così tortuose noi tenteremo con molta precauzione di ricostruire un mondo d’economia contadina fra il IX e il XIV sec. d.C. nella Pianura Russa.
Come dicevamo, l’archeologia ci ha indicato che i primi contatti che si stabilirono intorno al VIII sec. d.C. fra i Variaghi svedesi e le popolazioni autoctone, prima di altre ugro-finniche, nella Pianura Russa si fissarono partendo dal Mar Baltico via lago Ladoga e in pochi altri luoghi non lontani dalla costa baltica vista la natura (per ora) stagionale delle loro visite. Abbiamo detto come costoro si presentassero agli anziani dei villaggi che riuscivano a localizzare e come imponessero la riscossione di tributi tramite la procedura “mafiosa” che abbiamo ricostruito. Eppure, malgrado l’aiuto “spirituale” successivamente dato dalla Chiesa Russa, le CTP diffusero la leggenda intorno al XIV-XV sec. d.C. della chiamata dalla Svezia di un certo Riurik variago al quale veniva offerta con grande liberalità dalle genti autoctone la Terra Russa e le sue ricchezze “per mettere fine alle liti intestine continue”. Logicamente ciò è incredibile e al contrario occorre piuttosto immaginare una colonizzazione pianificata e condotta con la forza della minaccia armata anche perché tale colonizzazione svedese è nota essere ancora in atto all’Imperatore Costantino VII Porfirogenito (e non solo a lui!) nel X sec. d.C. L’Imperatore, fra l’altro nei suoi scritti, informa che i Variaghi di Kiev ogni inverno lasciavano la città e si dirigevano verso nord lungo il Dnepr e altri fiumi per raccogliere i tributi. Il giro (poljudie) terminava a Kiev verso aprile quando i “tributi” raccolti erano abbastanza per esser messi in vendita con profitto. Sappiamo che successivamente per rendere più efficace il poljudie Olga, reggente variaga di Kiev della seconda metà del X sec. d.C., in forza di un trattato stilato con l’appena nominato Imperatore pensò persino di fissare in poche e definite zone della Pianura Russa i luoghi d’incontro (pogosty) destinati a raccogliere le “tasse dovute” giacché gli incontri (e gli scontri) con i locali evidentemente erano stati finora insicuri perché affidati a intermediari non del tutto affidabili. Olga stipulò anche un contratto con Grande Novgorod or ora nata come statalità autonoma onde assicurarsi che una buona parte delle esportazioni scambiate finora coi mercati del Mar Baltico tramite i Variaghi di Ladoga (postazione svedese a qualche centinaio di km a nord di Grande Novgorod) fosse gestita da Kiev e destinata a Costantinopoli invece che, come avveniva, tramite i Bulgari del Volga se ne istradasse verso il Centro Asia.
Dunque le imposizioni sotto forma di merci arrivano, ma chi è il fornitore fisico? Seanche questa volta rispondessimo gli Slavi, trascureremmo la loro distribuzione sul territorio che l’archeologia ci assicura e cioè che fossero più numerosi nella parte occidentale della Pianura Russa. Nel nord e nel nordest le genti sono altre: Baltoslavi e Ugrofinni.
Intanto il villaggio tipico slavo è una postazione nelle radure alquanto elevate della foresta in raggruppamenti che non superano la decina di famiglie con le loro case. I campi da coltivare si trovano di solito o alle spalle delle abitazioni o, addirittura, a valle dell’altura o ancora si sfrutta il terreno ottenuto abbattendo gli alberi col metodo del taglia-e-brucia (podseka). Le stagioni buone sono brevi e la pioggia è poca per cui i cereali che si coltivano sono prevalentemente orzo e segale per la sussistenza e lino e canapa per gli usi tessili. Di solito gli abitanti hanno qualche cavallo da tiro in comune e allevano animali di piccola taglia che lasciano pascolare nella adiacente foresta. Il porco è comunque di gran lunga l’animale più comune che fornisce carne sulla tavola contadina e lardo per svariati usi anche artigianali. L’agricoltura è condotta con pochi arnesi e, non appena il terreno si esaurisce nel giro massimo di un decennio, si va a cercare nuova terra vergine da qualche altra parte. Una volta che lo spostamento è impellente occorre scegliere fra le opzioni che sono o 1. abbandonare il villaggio attuale e fondarne uno nuovo o 2. fare la spola con la nuova area agricola ricavata come abbiamo detto col taglia-e-brucia mantenendo il vecchio villaggio in piedi.
Questo per quanto riguarda gli Slavi, ma gli Ugro-finni? Concentrati nel nordest della Pianura Russa hanno un’esistenza più precaria per la latitudine delle loro regioni e per il clima relativo e la caccia e la pesca prevalgono nelle loro attività di sussistenza, seppure insieme con una limitata orticoltura, ma giusto in funzione di tale modo di vita sono abituati da tempo agli scambi commerciali dei prodotti che ricavano nel loro ambiente.
Questi a grandi tratti sono gli uomini, ma a chi danno conto della loro esistenza?
Non conosciamo bene i paganesimi della Pianura Russa, ma di certo la credenza comune dominante è che gli dèi del cielo e della terra hanno messo le risorse a disposizione degli uomini mortali e ogni potere umano sulla natura scaturisce da questa concessione divina. La natura inoltre è immaginata vivente in ogni sua parte e quindi non va affrontata violentemente, ma con deferenza.
Gli Slavi non avevano una Chiesa Pagana organizzata, ma veneravano i loro dèi in santuari con un sacerdote addetto e a cui facevano capo un certo numero di villaggi. Nei rispettivi villaggi le cerimonie più solite erano officiate dagli anziani, mentre nel santuario si celebravano le feste solenni in onore del fondatore divino della stirpe (rod) ossia per il padre eponimo antenato che si preoccupava di far da tramite fra i suoi discendenti e gli dèi del cielo. Il santuario di solito era costruito in luoghi isolati e ben occultati nella foresta ed era pure fortificato affinché gli abitanti dei villaggi dipendenti potessero trovarvi ricetto e porsi sotto la protezione divina in caso di attacchi ostili. Vi si accedeva da una porta percorrendo l’unica via mascherata da un labirinto sacro. E’ notevole un aspetto che va segnalato e che si riferisce a qualsiasi altra porta che introducesse in un luogo abitato da uomini e cioè che essa guardava perpendicolarmente il sorgere del sole e permetteva così alla luce dell’astro di entrare nello spazio interno per restarvi un buon numero di ore. Siccome alle latitudini alle quali ci riferiamo il sole non sorge ogni giorno nello stesso punto dell’orizzonte, ma su punti discosti l’uno dall’altro lungo un arco di cerchio abbastanza esteso e tenendo conto di altri fenomeni che rotazione e rivoluzione terrestre subiscono nel tempo, con un calcolo non molto complicato (M. Faccini in E. Cadelo, v. bibl.) si può determinare… la data di costruzione del sacro complesso!
E non è il solo tipo di santuario trovato dagli archeologi nella Pianura Russa. Luoghi santi erano considerati gli spazi intorno alle querce e altri simili angoli della foresta. Al contrario nella palude intorno a Grande Novgorod sono stati trovati ben tre luoghi di culto e l’uno accanto all’altro uguali fra di loro come quelli della figura qui sotto. Evidentemente ogni santuario qui era usato dalle tre diverse etnie che poi fondarono la detta città. E ciò non è forse una prova che in area novgorodese la collaborazione fra ugro-finni, baltici indoeuropei e slavi fosse abbastanza pacifica? Che farsene quindi della leggenda di Riurik?

A parte le religioni, non si può trascurare il ruolo culturale importantissimo dei Bulgari del Volga che con la loro attività nell’enorme regione subartica dominarono il nordest e il Volga per secoli.
Da tutto ciò si capisce che la cultura slavo-russa nella Pianura Russa a nord delle steppe è un sincretismo molto peculiare di costumi e di credenze che si rispecchia e si riscontra nel folclore di oggi, mentre la cultura degli Slavi “occidentali” più a contatto col Regno dei Franchi resta quasi intatta dalle infiltrazioni allogene, salvo gli elementi baltoslavi.
Tornando ai “nostri” Slavi e al loro villaggio, l’abitato rappresentava un’unità vivente, un piccolo universo del quale l’individuo faceva parte per nascita o per adozione. Non solo! La famiglia (verv’) e la casa (dom in russo di genere maschile) materialmente erano (e sono ancora oggi) il cuore del tempo e della vita che passa. Qui si trovava assistenza, tranquillità, affetti e difesa ed è logico che in russo mir significhi allo stesso tempo villaggio e pace e quindi pure mondo, cosmo.
Ogni dom aveva un capofamiglia con poteri di vita e di morte sui suoi famigliari e a lui era affidato il compito tradizionale di fare attenzione affinché le alleanze e i rapporti sociali con gli altri dom rispondessero alle sacre costumanze fissate dagli dèi nelle generazioni passate. Il villaggio intero invece faceva capo a un anziano (starožilec) eletto/scelto o sopravvissuto fra i capifamiglia. Questi custodiva non solo l’armamentario sacro per i riti religiosi iniziatici dei giovani maschi e delle giovani femmine, ma anche per le altre cerimonie più intime: nascite, matrimoni, morti etc. che lui stesso officiava. Da lui che impersonava la memoria collettiva e la sapienza tecnologica si andava per aver consiglio su come costruire una casa, come fare un oggetto, chiedere e ricevere certi arnesi etc. Per queste caratteristiche lo starožilec era perciò in grado di presiedere l’assemblea (veče) che si riuniva per prendere le decisioni importanti.
Alla base di tutto però c’è la famiglia slava e il sistema di parentele inventato per tenere legate famiglie con famiglie e villaggio con villaggio. Quella slava in antropologia è classificata come SUDANESE (M. Godelier v. bibl.) e val la pena di esaminare in qualche dettaglio la sua struttura. Gran parte della nomenclatura antica, ancora usata in russo oggi, indica la posizione di ogni membro nell’albero genealogico e gli incarichi che gli sono affidati rispetto agli altri suoi parenti.
Legenda:
Carta delle relazioni di consanguineità in russo e in inglese (le linee tratteggiate indicano generazioni che non possono avere legami stabili e sessuali e quelle continue per le relazioni riconosciute).
In qualche cassetto c’è la scritta removed e ciò si riferisce al fatto che tale denominazione è scomparsa dalla nomenclatura odierna con la nuova legislazione dell’URSS nel 1920.
Legenda:
La famiglia di EGO (l’uomo). Il segno × indica il matrimonio (alleanza) permesso, le linee orizzontali indicano le generazioni separate e le frecce i figli generati considerati legittimi.
Legenda:
La famiglia della donna. Anche qui il segno × indica il matrimonio (alleanza) permesso, le linee orizzontali indicano le generazioni separate e le frecce i figli generati considerati legittimi.
La parentela è innanzitutto patrilineare e le donne che si generano al suo interno devono essere espulse da qualsiasi gestione autoritaria perché il loro potenziale di riprodurre maschi concorrenti al potere del capofamiglia in carica disturba e deve essere ben controllato affinché gli epigoni non diventino elementi di disaccordo fra le diverse famiglie, se sobillati dalle madri. Vige pertanto il matrimonio esogamico in cui la donna è data in sposa fuori del dom dove essa è nata e avrà il ruolo di pegno vivente che preserva la cooperazione fra i dom di altri villaggi. La donna è venduta (il maschio paga un prezzo ai genitori di lei (il cosiddetto veno che in seguito in regime moscovita diventerà una tassa) da un dom all’altro, ma esclusivamente all’interno della stessa stirpe (rod).
La parentela nella maggior parte delle società umane – e quindi pure slave – è allo stesso tempo alleanza e discendenza, consanguineità e affinità e per tali motivi la sessualità dei membri almeno parzialmente deve essere sotto il controllo del capofamiglia affinché le copule che potrebbero mettere in pericolo l’ordine costituito siano impedite e le regole fissate in tal senso infatti vengono a far parte integrante dell’educazione di ogni minore all’interno del proprio dom. Molte di quelle regole inglobano le insufficienti conoscenze biologiche che si avevano sul ruolo di ciascun sesso nella “fabbricazione” del prossimo neonato…
Partiremo dai tre schemi qui sopra (proposti da Genevra Gerhart, v. bibl.) dove in particolare nello Schema No. 1 sono riportati come erano chiamati (e in parte lo sono ancora) i membri di una famiglia contadina tradizionale in cui il quadrato nero è EGO (termine antropologico per indicare il soggetto) ossia la persona intorno alla quale la parentela si costruisce. Nello Schema No. 2 è EGO (la figurina nera) che sposa LEI e a fianco c’è la scelta permessa come si nota nello schema delle famiglie. Nello Schema No. 3 la figurina in nero è stavolta LEI, la sposa, e qui è indicata la scelta dello sposo fatta dalla famiglia della sposa e che pagherà il veno.
Il discorso è complesso e noi ci rifaremo in ogni caso al già citato M. Godelier sforzandoci di riassumere – senza alterarne il senso – le recenti ricerche di questo autore sull’argomento.
Inoltre i confronti vanno sempre fatti alla fine con la religione cristiana purché, ricordiamolo, si riconosca che nel caso slavo-russo questa ideologia ha cancellato e inquinato dal punto di vista storico grandissima parte delle tradizioni. Nel modo di vedere cristiano l’organizzazione slava delle parentele con tutti gli strascichi di costume e di regole interpersonali che prevedeva fu considerata fondamentalmente incestuosa. Si noti bene tuttavia che incesto ossia l’offesa sessuale maggiore al dio cristiano per una comunità convertita non in tutto il mondo ha lo stesso significato e quindi neppure presso gli Slavi prima della loro conversione. Così, quando il cristianesimo entrerà nel dom slavo, l’incesto definito dai preti come unione sessuale fra “consanguinei” richiederà la revisione della classifica di consanguineità prevista negli schemi detti. La differenza in questo ambito fra i sistemi di parentela cristiano (di tipo antropologico INUIT) e slavo-pagano è sostanziale ed è ad esempio comprensibile perciò la forte ostilità slava sull’interdizione del diritto del capofamiglia di esercitare il jus primae noctis sulla sposa-nuora (snohà) prima della copula col legittimo sposo allo scopo di verificare di persona la funzionalità della prossima madre nel garantirgli un nipote.
A parte ciò ricordiamo che il sistema di parentela slavo-russa rappresenta, come ogni altro studiato in questi ultimi 20 anni fra le varie comunità/etnie umane del mondo, una gerarchia di potere imposta da una divinità immortale e poi trasmessa ai discendenti mortali. E’ basata sulla maggiore età dei capi ed è imperniata su una sessualità regolamentata e riservata per i subordinati in modo diverso da quella degli eletti e il tutto giustificato e legittimato da una sequela di leggende in cui la divinità creatrice affidò nella notte dei tempi la gestione della vita dei membri del gruppo a pochi uomini scelti. E per questo loro difficile compito costoro si assicurano l’avvicendamento dopo la loro morte soltanto fra le persone educate a conservare immutata la gerarchia.
Genericamente pare che i sistemi di parentela fossero, i più antichi, matrilineari in cui gli uomini erano espulsi verso altre parentele già a partire dal fatto dell’essere potenziali concorrenti del potere e quindi passavano sotto l’obbedienza di altre donne-capo. In seguito a una qualche rivoluzione ideologica e culturale (non ben fissata nel tempo finora, ma comunque non molto anteriore agli inizi del 1° millennio d.C.) il potere passò nelle mani degli uomini e furono le donne a questo punto a dover essere espulse dalla parentela “di nascita” giacché il sistema ora era diventato, come nel caso Slavo e Baltoslavo, patrilineare. E’ facile dedurre da ciò quanto importante fosse la determinazione accurata del sesso del neonato giacché, a seconda del sistema in auge, il nuovo individuo poteva essere incluso o rispettivamente escluso dal gruppo dei parenti.
Quanto poi al comportamento sessuale dei membri nell’ordine pagano patrilineare slavo, nella realtà erano permesse molte cose che il cristianesimo vietava. Dobbiamo comunque confessare che sappiamo poco sulla vita sessuale del contadino russo nel Medioevo e le osservazioni più serie di viaggiatori stranieri che visitarono la Pianura Russa risalgono al XVI e al XVIII sec. d.C. per cui possiamo soltanto dire che la promiscuità femminile e la competizione spermatica, che negli ultimi tempi sono stati confermati come aspetti evoluzionistici fondamentali per quasi tutta la natura vivente compreso l’uomo, furono subito notati dagli evangelizzatori e bollati come brutture intrinseche all’indole degli Slavi. Assimilati a comportamenti incestuosi dagli agenti della Chiesa Russa, si decise che certi costumi dovessero essere eliminati insistendo sulla dottrina del peccato originale e sulla definizione cristiana dell’incesto.
In un potere slavo organizzato in parentele parallele che si alleano tramite lo scambio delle femmine come abbiamo visto, che succede quando il capofamiglia muore? A lui non succede il figlio, ma il fratello in vita magari a capo di un altro dom mentre la famiglia del defunto è destinata a dissolversi in quella del nuovo capofamiglia. A questo punto è una decisione di quest’ultimo autorizzare uno o più figli del defunto che abbiano già una sposa a fondare nuovi dom, emigrando.
E il vecchio dom? Non ha più alcun senso (sacro) di essere abitato da altri ed è lasciato alle fiamme o allo sfacelo. Val la pena accennare alla cerimonia di abbandono officiata dalla vedova del defunto, se c’è, o dalla donna più anziana di casa poiché nel momento in cui il capofamiglia muore si chiude una gestione economica nelle coltivazioni, nel pezzo di terra etc. e la vedova o l’anziana non sono eredi di alcunché, ma curano solo col rito appropriato che gli dèi non vengano offesi. E così, dopo aver atteso che ogni oggetto mobile sia stato asportato, si riaccende la stufa (pečka) per l’ultima volta (spenta alla morte del padrone di casa) e si lascia che la legna si consumi. Una parte della brace è presa con sé come pegno e, ciò fatto, ci si allontana per sempre affinché un nuovo ciclo di vita possa ricominciare da un’altra parte con le stesse radici.
Questi ultimi fatti li ricordiamo perché ci riconfermano un aspetto dei popoli diversi che la Pianura Russa ospitava e cioè che il mondo germanico nella variante svedese non aveva attecchito granché neppure nel mondo Slavo-russo dal punto di vista culturale dopo la separazione di secoli prima fra i due blocchi: Germanico e Slavo. L’unica traccia “svedese” probabilmente si conservò nell’etnonimo che si attribuì ai sudditi dello stato slavo-russo di Kiev quando esso stesso si nominò Rus’. L’origine della parola è un altro rebus che in questa sede tuttavia non ci interessa.
Nel lungo discorso sulla famiglia slava, la tesi è che l’economia che si stabilisce nel suo interno è funzione del sistema medesimo giacché è la famiglia che assegna non solo la posizione gerarchica basata sul sesso di ciascun membro, ma anche le funzioni pratiche e lavorative che competono a costui/costei e perciò le responsabilità economiche dell’individuo nel budget del dom.
Facciamo allora il punto. Innanzitutto è bene fugare la visione erronea di un ambiente forestale pieno zeppo di villaggi contadini e assolutamente privo di contatti col territorio circostante, visto che dal numero di punti abitati prospettati dagli archeologi la densità demografica che se ne deduce deve essere stata bassa. E’ bene invece notare che la circolazione di merci e di uomini fosse intensa abbastanza seppur soggetta a difficoltosi attraversamenti di paludi e di intricate realtà forestali. Quel che ci interessa è che, finché il mondo contadino restava in grandissima parte staccato dal dinamismo cittadino che andava crescendo nella Pianura Russa. E perché ne rimaneva staccato? Per il tipo di vita che si conduceva fondata sull’ignoranza di ciò che avveniva nel mondo esterno asl villaggio. Non c’era pertanto un motivo per produrre un surplus da scambiare con conseguente diversificazione delle produzioni del villaggio – e quindi non solo alimentare – e si consumava quasi interamente ciò che ai produttori stessi serviva. Il mercato locale significava esclusivamente un’occasione di svago e di divertimento sacro, ma di minimissimo interesse economico e tardò a svilupparsi in senso nazionale.
All’opposto le poche realtà cittadine con la necessità di approvvigionarsi di alimentari richiesero subito la nascita di una classe agricola che operasse non lontano dalle città e funzionasse sulla base della vendita di buona parte di ciò che produceva. Saranno questi contadini “orbitanti” ai confini fra foresta e steppa (le CTP indicano come tali gli Slavi Poljani) a servirsi dei contatti col mondo esterno (cristiano-cattolico del tempo) per migliorare le proprie tecniche e i propri metodi e far uscire nella società kievana (poi russa) nuove personalità economiche sconosciute finora che lanceranno lo sviluppo di un mercato più vasto e più ricco senza coinvolgere i “colleghi della foresta” e si aggregeranno volentieri intorno al signore variago di turno. Lo stesso variago san Vladimiro, quando decide di fare di Kiev la capitale del suo stato dopo aver abbandonato Grande Novgorod alla sua autonomia amministrativa e politica, ha da affrontare il problema della sussistenza e lo risolve trapiantando dall’estremo nord genti di ogni schiatta – e perciò agricoltori tecnicamente impreparati – al sud. Dà loro terra da coltivare ai confini con la steppa per rifornire la detta Kiev giacché avrà saputo che qui, poco a sud di Kiev, la terra è molto fertile per la presenza del loess (un’argilla dei suoli acidi) e che i russi per il colore chiamano Terre Nere (Cernozjòm).
Malgrado la misura vladimiriana, la Bulgaria del Volga pure localizzata nelle Terre Nere, ma in quelle situate nel Medio Volga, continuerà a dominare il mercato delle granaglie nella Pianura Russa e continuerà a servire sia Kiev sia Grande Novgorod per ancora dei secoli con i propri cereali. I trasporti e la logistica si attueranno lungo la cosiddetta Via dell’Okà che parte appunto dal fiume Okà poco sotto Mosca attuale a nordest sulla riva opposta alla capitale bulgara, Bolgar, e attraversa la foresta in circa 20 tappe per finire a sudovest di Kiev. Il traffico con Grande Novgorod si svolgerà invece via Mercato Nuovo (in russo Torzòk), cittadina-deposito fondata dai novgorodesi nelle vicinanze di Tver’ per raccogliere qui le merci che viaggiano dal nord verso il Basso Volga, sempre per tramite e mediazione internazionale di Bolgar.
Se al cibo, bene o male, il contadino sopperisce col suo lavoro e con i cereali che il clima e il suolo permettono di coltivare: orzo e segale in primo luogo e poi miglio e avena (il frumento arriverà verso il XVI sec. d.C.); che altro produce l’economia contadina? Ritornando alla distribuzione degli Slavi nella Pianura Russa, schematicamente si nota che, se la concentrazione è massima nel sudovest fino ai Carpazi, man mano che ci si muove verso nordest aumentano invece le popolazioni ugro-finniche che dominano totalmente fin nella tundra verso il Circolo Polare Artico. Da secoli raccoglitori-cacciatori, come abbiamo accennato, nella congiuntura favorevole dei mercati internazionali furono in grado più degli Slavi di offrire i prodotti della foresta molto richiesti e ad alto valore aggiunto e cioè le pellicce pregiate, il miele e la cera, il minerale di ferro e le pietre semi-preziose e persino argento dagli Urali e ciò dovuto anche ai loro secolari contatti con Bolgar. Insistiamo su questo punto poiché lo stato di Kiev ebbe una marcata impronta agricola a base della propria economia (X-XI sec. d.C.) e i Bulgari del Volga e Grande Novgorod ne ebbero invece una assolutamente mercantile. In altre parole Kiev impersona la monarchia santa e assoluta e Grande Novgorod una repubblica sui generis. Bolgar al contrario è un emirato (dal 921 d.C.) musulmano pure sui generis la cui élite però non necessita di forniture di cibo esterne neppure sotto forma di tributo obbligatorio come si fa per Kiev giacché gli stessi bulgari coltivano le Terre Nere e l’emiro partecipa direttamente nella coltivazione e alla produzione.
Perché allora abbiamo scelto il contadino slavo-russo per l’indagine presente? La risposta è che dalla nostra posizione di moderni noi sappiamo che Mosca, subentrata a Kiev e a Grande Novgorod (in parte ai Bulgari del Volga diventati in seguito i Tatari di Kazan) nel dominio dell’intera Pianura Russa, cominciò a interessarsi della “classe” contadina finora sconosciuta e negletta solo verso la seconda metà del XVI sec. d.C. con un interesse chiaramente colonialistico del territorio e dei suoi abitanti più o meno in auge anche nell’Europa Occidentale, salvo l’atteggiamento moscovita per una sudditanza senza mezze misure a uso e consumo della nuova élite russa imperiale. Non si ammise alcuna differenza etnica o religiosa, salve pochissime eccezioni, nei sudditi e di qui il nostro intento di capire il cammino storico che il “libero” contadino slavo-russo seguì, uscendo dal suo ambiente forestale e diventando volente o nolente un “suddito russo” senza più alcuna identità culturale.
La Chiesa Russa da Kiev e poi da Mosca ebbe un ruolo in qualche modo preponderante nell’imporre con la sua attrezzata burocrazia tale situazione, sebbene con i mezzi di comunicazione del tempo fosse capace di esibire più che altro la facoltà di consolatrice sui generis a chi frequentava le città passando dai latifondi ecclesiastici in continua crescita e tutta tesa al fine di evitare sollevazioni o rivolte contro il potere che cominciava a esser percepito dispotico e opprimente e che essa invece difendeva.
La situazione culturale della Pianura Russa non fu comunque mai statica. Intorno al XIII sec. arrivano i cattolici Cavalieri crociati dal Mar Baltico a colonizzare il territorio baltoslavo. E’ una lotta impari senza mezze misure e senza pietà tanto che un intero popolo baltoslavo, i Prussiani, sarà sterminato e cancellato dalla storia. Ciò non tocca direttamente gli Slavo-russi, ma spinge i Baltoslavi, Lituani specialmente, a volgere l’attenzione ai loro quasi congeneri slavi Krivici e alle altre genti slave vicine. Le zone interne cominciano a sentire l’odore di bruciato dell’invasione della loro foresta. Un’invasione che tuttavia si manterrà lungo i corsi d’acqua più grandi.
Nel sud della Pianura Russa invece, nelle steppe ucraine, arrivano nuove etnie che concorrono volenti o nolenti all’aumento della multietnicità pur non penetrando all’interno. La grande ondata arriverà nel XIII sec. d.C. provocata da Cinghiz Khan e con la stabilizzazione del nuovo stato tataro dell’Orda d’Oro nei secoli seguenti renderà la situazione nella Pianura Russa un po’ più calma permettendo così negli angoli più remoti che si intensifichino i legami interetnici dove, guarda caso, il “modello slavo” sembra essere considerato, a ragione o a torto, superiore e quindi da emulare.
Un aspetto notevole del modello slavo è la standardizzazione del concetto di attività lavorativa dei membri della parentela e quindi dell’amministrazione del tempo dell’individuo da parte del potere. I campi vanno coltivati, ma l’attività lavorativa non può ridursi a questa unica occupazione e deve invece soddisfare tutti gli svariati bisogni della grande famiglia slava che andavano dalle costruzioni di case all’abbigliamento, dalle strade lungo le paludi etc. etc. Eppure la parola russa moderna per lavoro, rabòta – ma è lo stesso per altre lingue slave e non slave – è praticamente eguale a schiavitù (rab è lo schiavo in russo) e si distingue dal termine più antico trud che indica invece la fatica nel lavorare… non costretti da qualcuno! Semantica, questa, che l’URSS tenne bene in vista. Occorre pertanto vedere un po’ meglio la questione del lavoro giacché fra il XII e il XIV sec. d.C. la parola non ha nella Pianura Russa gli stessi contenuti filosofici e giuridici che noi troviamo in Occidente nello stesso periodo.
In termini più “scientifici” il lavoro si traduce in una spesa di energia prodotta dal proprio corpo per un’attività tesa a fini utilitaristici e richiederebbe almeno una piena scelta personale di quel che fare e quanto a lungo, se non si è costretti da momentanea convenienza. Diciamo pure che, se il lavoro è imposto senza libertà di scelta, diventa costrizione e in tal caso suscita rifiuto e rivolta, mentre la fatica è una sensazione più complessa che dipende da molti fattori psichici e somatici. Tutto questo è ovvio per come noi “capiamo” il lavoro oggi agganciandoci però alla remunerazione che, sempre secondo la nostra logica, deve essere congruente nel valore con la fatica conseguente. Per il contadino nel Medioevo Russo un ragionamento simile non esistette. Occorre vederlo invece come un membro di una comunità organizzata di parenti legati reciprocamente secondo regole “discese dalle divinità pagane” e per il quale il lavoro risulta parte delle sue attività vitali sullo stesso piano del tempo e dell’energia spesi per mangiare, camminare etc. La fatica è richiesta dagli dèi “datori di vita e di forza” e in principio perciò è una donazione/corvée alle divinità e non può essere remunerata se non con la fortuna e la buona salute. In pratica il lavoro non può svolgersi sempre e solo nei campi dove lo si impiega per trarne il cibo e la sussistenza, ma deve rivolgersi pure all’ambiente naturale che il contadino conosce bene. Qui ci sono altre ricchezze a disposizione che si possono utilizzare trasformate, adattate o semplicemente usate così come sono per soddisfare i bisogni materiali non-food. Né il contadino oppone, come faremmo oggi, il lavoro al tempo libero giacché per lui il tempo libero è ozio inutile e dannoso. Il verbo russo otdyhat’ ossia riprendere il fiato che si usa per il tempo libero ha una semantica diversa rispetto all’italiano vacanza che significa mancanza di attività. Non solo! In questo spazio concettuale non è neppure immaginabile un artigiano/operaio che lavori per qualcuno dietro compenso e che il “datore di lavoro”, uomo qualsiasi, abbia il diritto di far lavorare gli altri al posto suo e se ne possa arricchire…
In questa logica il primo riferimento per impostare un lavoro, quello che sia, è il dialogo con le forze divine che governano l’universo magari con l’intercessione degli antenati quando occorre ossia per il tramite dell’élite della parentela. Trasferiamoci allora nell’immediata realtà e osserviamo come il contadino ancora incontaminato dal cristianesimo si muove guidato dalla filosofia pagana.
Nella natura vi vedrà tanti cicli ripetitivi di eventi, sebbene mai esattamente uguali, nei quali si troverà coinvolto proprio perché sta lavorando la terra e fa parte di essa. A questi cicli misurati secondo i ritmi lunari accorderà i lavori da eseguire come si riconoscono nei nomi slavi originali dei mesi, oggi quasi ovunque sostituiti da quelli convenzionali di origine latina. Sappiamo bene che la composizione dell’anno di 12 periodi lunari o mesi (il latino mensis o il russo mesjac significano entrambi sia luna che mese) era già stata ideata in Mesopotamia millenni prima dell’apparizione degli Slavi e che era stata ereditata direttamente col racconto biblico dal Cristianesimo e dall’Islam. Per questo motivo è interessante leggere nella Genesi (3, 17) a proposito del lavoro agricolo: “E (il signore dio) disse ad Adamo… maledetta è la terra per causa tua. Nel dolore ti nutrirai da essa per tutti i giorni della tua vita.” prefigurando nell’attività del lavorare i campi una condanna da scontare piuttosto che una necessità per ottenere una sopravvivenza più piacevole. Dunque tutt’altro concetto del lavoro che nella realtà slava. C’è da aggiungere piuttosto che il Cristianesimo qualche secolo prima aveva alterato il giudizio biblico sull’agricoltura e aveva stigmatizzato tale attività invece come umana e “santa”, benché in “espiazione del peccato originale”, e l’aveva raccomandata in conventi e abbazie. E ciò in chiara contraddizione col mito di Caino e Abele (Genesi 4, 1-15) in cui il primo, contadino, uccide il secondo, pastore, e per il fratricidio Caino è mandato maledetto e ramingo per il mondo dal dio creatore. La Rus’ di Kiev cristianizzatasi alla fine del X sec. d.C. tranquillamente accettò il modo di vita agricolo come l’unico “civile” e marchiò invece “selvaggia” ogni altra maniera di esistere e di abitare e il posto occupato da tempi antichissimi dai nomadi pastori (evidenti discendenti di Abele!), la steppa, fu detto con un tono dispregiativo nelle CTP della Chiesa Russa Campo Selvaggio o non coltivato (russo Dìkoe Polje).
L’attività contadina “cristiana” passava poi attraverso tutta una serie di festività patrocinate da un nugolo infinito di santi e sante ai quali ci si poteva rivolgere, nei riti prescritti e per mezzo del prete, per ottenerne protezione e benevolenza, ma non dimenticando mai che il lavoro è sofferenza. Unico neo cristiano fu l’introduzione dell’idea di proprietà privata della terra contro il concetto pagano di concessione divina a una comunità, senza alcun proprietario.
Naturalmente niente di nuovo nella sostanza, ma il paganesimo slavo, sapendo che ogni giorno o ogni mese è il teatro di un evento naturale diverso, per giustificarne la realtà e per capirne per quanto possibile lo svolgimento, antropomorfizzava l’evento stesso e lo interpretava e lo spiegava sotto la forma di lotte continue fra forze invisibili sovrumane. La tradizione avvertiva l’uomo attivo di stare ben attento a non fare da disturbatore, bensì ad agire da attore/collaboratore che contribuisce alla vittoria delle forze divine a lui favorevoli e migliora così l’universo…
Esisteva allora qualche somiglianza di credenze nell’ambito calendario/lavoro dei campi? E perché abbandonare il vecchio modo pagano di scandire il passare delle stagioni con vari riti? Al limite si sarebbero dati dei nomi dei santi cristiani alle forze divine implicate e venerate di fronte ai medesimi fenomeni ciclici secondo l’antica consuetudine.
Nel calendario nordico ci sono però alle latitudini di Mosca (meno a Kiev), di Novgorod e di Bolgar-sul-Volga alcuni aspetti del cielo di fronte ai quali il Cristianesimo (X-XI sec. d.C.) e l’Islam (921 d.C.) si trovarono per la prima volta nella loro storia e ne rimasero impressionati per la spettacolarità: la lunghissima notte del solstizio invernale (24-25 dicembre) e il lunghissimo giorno del solstizio estivo (24-25 giugno). Non solo! Il passaggio da una stagione all’altra inoltre era molto più netto qui poiché il sole al suo zenit era abbastanza inclinato sulla testa del contadino nordico rispetto alla quasi perpendicolarità alle latitudini mediterranee. Su questi eventi celesti era basata gran parte della mitologia pagana e i riferimenti pratici nella vita attiva. Ne tennero mai conto i due monoteismi che stavano colonizzando con le loro ideologie la Pianura Russa e il resto della Slavia? Non lo sappiamo di certo, ma dobbiamo sottolineare che altro era il modo in cui il Paganesimo nordico percepiva i fenomeni naturali e le domande fatidiche che la gente si poneva preoccupata ogni fine d’anno erano: E se il sole non tornasse più? O peggio: Chi garantiva che ritornasse il fresco della notte e che invece tutto non bruciasse sotto il torrido sole estivo (si raggiungono ancor oggi temperature intorno ai 40° C con le molte ore di insolazione)? Insomma occorreva chiedere aiuto/consiglio agli antenati che questi eventi avevano ai loro tempi superato e con la loro sapienza ne erano usciti indenni e non alle Sacre Scritture o al Corano che al contrario non davano tali spiegazioni. Per questi motivi, ad esempio, l’anno cominciava non prima di essersi assicurati che il sole sarebbe ritornato nel cielo. I sacerdoti pertanto si ponevano in attesa che la luce tornasse nel firmamento e a loro era affidato il compito di superare la paura collettiva implorando l’intervento degli eponimi presso gli dèi affinché il mondo non perisse. E così, dopo sette magici giorni (in russo koljady) ovvero più o meno al 1° di gennaio, se tutto andava bene, la luce del sole tornava. Altro che nascita di Cristo…
Questi elementi di pensiero nella cultura slava e in quella ugro-finnica non sono da trascurare giacché denunciano un grosso bagaglio culturale apportato nella tradizione slavo-russa che non è evidentemente tutta slava e perciò fanno immaginare quanto difficile e laborioso per le religioni istituzionalizzate, cristiana o islamica, che non ammettevano eccezioni e disprezzavano i pagani per principio, fosse entrare, compenetrare e eliminare le tradizioni “diaboliche” (per i cristiani) e “idolatre” (per i musulmani) mantenute da queste genti.
Purtroppo conosciamo abbastanza bene Cristianesimo e Islam e conosciamo abbastanza male il Paganesimo del Grande Nord e, benché i paragoni fra le rispettive mitologie siano incerti e ambigui, notiamo a nostro vantaggio che il Paganesimo sia sopravvissuto nella Pianura Russa almeno nel corpus folcloristico e meglio che in altre regioni slave d’Europa. Per il nostro assunto ciò è fondamentale. Anzi! Il Paganesimo lo si ritrova ancora oggi in veste ufficiale nella Repubblica dei Mari (Mari El) tanto che il Presidente eletto, Vladislav Zotin, è stato consacrato nel 1992 dal locale Vescovo ortodosso e dal Gran Sacerdote pagano nazionale dei Mari.
Ma ecco tornare l’onnipresente tradizione nel discorso che dovrebbe spiegare e chiarire ogni visione del mondo. Malgrado tutto la tradizione non è una serie di regole e di concetti immutabili, né si oppone genericamente all’evoluzione tecnica o alle esperienze scientifiche nuove. Anzi! Periodicamente cambia di nome e si trasforma in scienza e scibile da insegnare ai giovani (la scienza, l’istruzione, la materia di insegnamento e simili sono aspetti aggiornati della tradizione). Alla fine non c’è arretratezza congenita né caparbia opposizione dello smierd (questo è il nome più generico e alquanto spregiativo del contadino russo) al sapere e di conseguenza non ci permettiamo di giudicare negativi in toto i principi olistico-pagani. Muoversi e agire nel reale è difficile sempre e ovunque. Gli ostacoli non vanno semplicemente eliminati, ma capiti e studiati e, se ci sono, vuol dire che gli dèi li hanno voluti porre là dove si trovano. Il confronto con la natura insomma deve essere cauto e attento e nei dubbi la tradizione, appunto, suggerisce quali riti celebrare per vincerli.
Ad esempio, prima di introdurre un seme nel terreno, occorreva il permesso dalla dea Madre Umida Terra e la tradizione indicava come si poteva ottenerlo. In più si doveva ringraziare la dea donandole l’ultimo covone che infatti era lasciato sul campo alla fine della mietitura. Lo stesso rispetto verso la stessa dea c’era nel decidere quando cominciare a lavorare i campi giacché, se si trasgrediva e si andava in campagna prima delle Radunicy (ricorrenza pagana che cadeva poco prima della Pasqua e ricordava gli antenati), essa avrebbe risposto con la siccità e una carestia per la comunità del mir in quanto non si concepiva che un membro potesse incorrere in atti inconsulti di offesa agli dèi e che ne rispondesse individualmente! Il mir è fatto di alleanze di parentele e, se c’è un famigliare che sbaglia, è il mir intero a dover riparare. Anche la parola può recare danni, se detta con intenzioni malvagie! Sicuramente dopo qualche tempo le parole oltraggiose ritorneranno sotto forma di fantasmi orribili e vendicatori e vagheranno per il villaggio non soltanto in cerca dell’izbà (nome generico della casa tipica slava di fronte al dom che indica il complesso anche di izby separate) del trasgressore, ma tormenteranno tutti finché l’offesa non sarà lavata dalla comunità.
Un aspetto tipico della tradizione contadina è pure l’esortazione a rispettare la ripartizione delle fatiche fisiche quotidiane (il lavoro!) fra i sessi e fra le età che, come sappiamo, sono legati alle gerarchie del gruppo-famiglia-villaggio patrilineare. Esiste perciò il lavoro femminile distinto da quello maschile. Per questa ragione il giovane/la giovane era educato/a non ad essere maschio o femmina a tutti i costi, ma a vedere nella differenza di sesso il proprio destino predeterminato anche dal punto di vista economico. Da un lato ciò è logico dato che non si era ancora giunti alla produzione di massa che rispondesse a logiche di mercato e dall’altro era indispensabile che chiunque sapesse fare qualsiasi cosa poiché la versatilità nel lavoro restava la virtù maggiormente stimata. Lo specialista opposto e superiore al contadino per principio non poteva esserci e su quest’ultimo punto non è stato provato neppure oggi nel nostro sistema societario che una persona dotata apparentemente di facoltà particolari e eccezionali esista per natura genetica, ma che al contrario in condizioni ambientali favorevoli in un gran numero di persone chiunque è stimolato ad esprimere il meglio di sé e di conseguenza dare origine a un’innovazione utile a tutti. Nella visione pagano-slava perciò chi sapeva far qualcosa meglio di altri non veniva esaltato né “mercificato” come si fa oggi, ma semplicemente gli veniva riconosciuto lo sguardo particolare su di lui da parte degli dèi e… unicamente per il tempo che consumava nell’abilità per la quale si distingueva! Insomma un’eccezionalità personale e fisica, eccetto che nei membri dell’élite, era un’anomalia e la si sopprimeva ove e appena possibile.
Eppure malgrado quanto detto sappiamo che gli artigiani erano importanti per le realtà cittadine della Pianura Russa. A Bolgar-sul-Volga (è meglio chiamarla così la prima capitale dei Bulgari) dal principio del X sec. d.C. una parte della grande città era stata costruita vicino alla piazza del mercato e riservata agli artigiani con le vie divisorie fra specialità e specialità. Allo stesso modo era stato organizzato il Podil di Kiev o della capitale càzara, Itil, per tacere della repubblica di Grande Novgorod. Quando arrivarono i Tataro-mongoli nel XIII sec. d.C., ovunque si trovassero artigiani gli invasori li prelevavano e li mandavano a Qara Qorum a servizio del Gran Khan, sconvolgendo le situazioni “artigianali” finora consolidatesi nelle città tanto che si cominciò a temere da parte dei principi russi che i loro specialisti migliori potessero attirare l’invidia dei Tatari e che questi prima o poi li avrebbero deportati senza por tempo in mezzo per cui valeva la pena nasconderli o mascherarli millantando la loro incapacità a produrre roba buona. E’ una situazione che durerà fino all’emancipazione di Mosca nel XV sec. d.C. dal giogo tataro, ma che si fissò in certe strane informazioni in cui si spargeva la voce che far fare un certo oggetto fosse un affare complicatissimo giacché l’artigiano non era reperibile o abitava lontano o era prigioniero di un mostro e simili altri racconti fantastici di cui rimane l’eco nelle favole russe (byliny).
E da dove venivano gli artigiani, se il mondo contadino li negava?
Non abbiamo conoscenze di scuole d’artigianato, a parte quella che doveva esserci a Kiev nel Monastero delle Grotte nell’XI sec. d.C. e quella ritrovata dagli archeologi a Grande Novgorod per la confezione e la pittura delle icone sacre e di altri oggetti per l’uso ecclesiastico da datare intorno al XIV sec. d.C. e pertanto possiamo dire che gli artigiani erano dei praticoni venuti fuori qui e là nei villaggi e passati al servizio delle corti dei principi nelle città-fortezze per vari motivi. Prima dell’arte però viene la materia prima sulla quale tale arte si materializza e quindi possiamo parlare a pieno titolo di artigiani del legno, di tessitori di mestiere e di pellai e pellicciai.
Chiaramente il ventaglio dei mestieri è molto ampio e la produzione di massa è agli inizi e a questo proposito sorsero seri problemi presso i Riurikidi, la dinastia al potere negli stati russi. Un artigiano, se gli si dà da produrre qualcosa, come controllarlo nel progresso del suo lavoro? E se gli si è affidata una materia prima costosissima da trasformare? Già lo si strappava con la forza o col ricatto dalla realtà del suo mir e da tutte le garanzie che il mir forniva mettendolo in una situazione scomoda. La soluzione globale fu di legare l’artigiano con un contratto a vita o holopstvo al principe (o a chi altro lo impiegava) il quale ultimo si prendeva a carico, ma quasi in ostaggio addirittura, la famiglia e i figli anch’essi strappati all’ambiente tradizionale. Eppure A. Guagnini, visitatore italo-polacco del XVII sec. d.C. a Mosca scriveva: “Il lavoro degli artigiani di solito si paga con pochi soldi. Quando poi aumenta il prezzo del pane per costoro è difficile comprarne con quello che guadagnano lavorando per tutta una giornata.” E’ questo l’apprezzamento a Mosca imperiale per l’artigiano? Siamo però nel XVII sec. e ormai l’impiego dell’artigiano è già diventato una vera e dura schiavitù contro la quale persino la Chiesa Russa (che però ne usava) si lamentava a gran voce.
Artigiano, abilità manuale, lavoro… Non abbiamo ancora parlato degli strumenti e della materia prima più importante e diffusa sia in casa sia nella campagna di quei tempi che è il legno. Intanto c’è da lamentarsi che il legno costituisce un problema archeologico imbarazzante poiché lascia pochissime tracce nel campo di scavo e scompare addirittura, se si tratta di oggetti non voluminosi come le suppellettili e gli arnesi più minuti che sono di fatto reperti rarissimi. Gli archeologi invece hanno scavato molti tipi di strumenti in ferro per lavorare il legno, noti fra il XI e il XIII sec. d.C. e fabbricati nella Pianura Russa con minerale ferroso locale.
Nelle figure qui sopra (da M. Semjònova, v. bibl.) ne sono disegnati alcuni. A sinistra ci sono due tipi di ascia/accetta (russo topor): sopra è quella che col lungo manico può diventare un’arma micidiale e sotto quella “da falegname” con dimensioni ridotte e talmente comune da essere stata usata come moneta di scambio. Quanto alle seghe (russo pilà) ne sono state trovate sia lunghe oltre i 2 m con i denti triangolari ritagliati nella lama sia con piccole pieghe a zig-zag (più facili da fare, per il fabbro!). Se ne sono trovate persino piccole e con le lame a nastro fini e dentate tese fra un arco di legno, come si vede nell’altra figura a destra e poi ceselli e altri strumenti da punta.
Naturalmente le collezioni disegnate qui e altre che si vedono nei musei non significa che esse fossero il corredo di un solo falegname come vedremmo oggi entrando in un’officina giacché in ogni caso gli strumenti a disposizione in ogni izbà erano pochissimi e spesso presi in prestito dal capo-villaggio o scambiandoseli coi vicini evitando inutili costosi doppioni lasciati inoperosi.
Facciamo però una considerazione in più. Gli dèi erano i custodi della scienza e della tecnologia e perciò il lavoratore nell’usare le sue abilità in realtà diventava un agente divino e, siccome gli strumenti e gli arnesi erano stati fabbricati secondo disegni divini e andavano difesi dalle forze invisibili degli dèi ostili cioè le cosiddette nečistye sily, scaturiva l’obbligo di chi li aveva in consegna di custodirli in un luogo appartato, ma sicuro e sacralizzato. Dunque l’uomo d’inverno non lavorando i campi si dedica a una serie di altri lavori di manutenzioni, riparazioni etc. e non lavora al chiuso a causa del rigido clima esterno o altro, ma perché in casa si sente in ambiente protetto, pulito nel fisico e nel cuore e può esser sicuro di esercitare il suo mestiere nel migliore dei modi perché è sicuro che gli déi qui lo guardano e lo assistono. Non solo! La tradizione prescriveva anche di tenersi lontano dalle donne le quali, si diceva, frequentavano le nečistye sily !
L’armamentario metallico è raramente di rame e, se per qualche tempo certi strumenti di ferro vennero dal Mar Baltico e dal Centro Asia, successivamente la materia prima fu di provenienza locale cioè dagli Urali quando si cominciò a cercarne e a trovarne in buone quantità persino nelle paludi (ferro meteorico) e lo si scambiò grezzo, questa “pietra nera”, in forme fucinate standard che vagamente ricordavano le asce delle figure qui sopra. Per molto tempo intanto non si seppe (o non si osò) lavorarlo dato che fucinare etc. era per il contadino un’attività misteriosa e pericolosa e si temevano gli uomini che piegavano, scioglievano e formavano una pietra con l’azione del fuoco tanto che il fabbro ugro-finnico restò un estraneo al confine del villaggio. Ciò non vuol dire che nella Pianura Russa non esistessero fabbri prima del XIII sec. d.C. giacché nell’estremo nord, sulle rive del lago Ilmen a 2 km da Grande Novgorod, c’era l’insediamento variago-svedese, il già nominato forte Riurikovo Gorodišče dove sono stati trovati strumenti da fabbro collegati col mondo militare e risalenti al VIII sec. d.C.! Un po’ più tardi e stavolta a Gnjòzdovo vicino a Smolensk, alle sorgenti del fiume Dnepr, esistette un’altra officina variago-svedese pure dedicata alla lavorazione delle lame da spada importate dal Reno.
Malgrado ciò la società contadina slavo-russa, al contrario di quella slava occidentale che viveva ai piedi di montagne ricche di minerali, non andò oltre la grande conquista “sociale” di accettare nel mir la presenza del fabbro quasi sempre straniero a patto che costui s’impegnasse a svolgere il suo lavoro unicamente “su ordinazione” e operasse isolato in una tenda adibita all’uopo come quella del disegno. La tenda, ger o jurta (come la chiamiamo noi), del fabbro ferraio delle steppe ucraine è, avverte il tedesco P. S. Pallas ancora nel XVIII sec., vietata alle donne perché… disturbano il fuoco! Al contrario il fuoco regnava nell’attività culinaria femminile e stavolta era al maschio interdetto l’accesso in cucina.
Qui sopra a sinistra (da V.V. Aleksandrov, v. bibl.) c’è pure il disegno di un’officina sacralizzata come ambiente separato del dom di cui parlavamo più sopra. Si notino la slitta, il truogolo, la scala a gradini, la macina rotante e poco altro, mentre strumenti riposti non ce ne sono.
A noi che abbiamo visitato molti musei del legno (e comunque altri musei) nel nord Europa ci va di fare un’osservazione. Nelle esposizioni ammiriamo sculture, pitture, ricami e li consideriamo degli oggetti abbelliti dalla voglia artistica e in genere ignoriamo il vero significato di quel “lavoro in più” che ai nostri occhi rende “belli” gli oggetti più comuni. L’abbellimento infatti costituisce un elemento magico-religioso che serviva a proteggere il manufatto caricandolo di segni che garantissero efficacemente e a lungo la sua “funzionalità” contro le azioni delle dette forze invisibili impure (nečistye sily) che tendevano a deteriorarlo (la ruggine ad esempio!) e a distruggerlo (tarlo, muffa) di conseguenza non poteva esistere una libertà di scelta dei soggetti da ritrarre né dei simboli o dei materiali e dei colori con cui coprirlo e tutto rispondeva a regole prefissate…
Se a Grande Novgorod esistevano scuole di iconografia famose che sfornarono artisti eccellenti come Andrei Rubljòv applicando questi criteri, per lo smierd che scuola c’era per imparare e raffinare i suoi tanti mestieri? E non dimentichiamo che nella repubblica nordica l’arte di lavorare il legno era l’industria regina. Essa si inseriva nella gamma di attività del Cantone dei Falegnami sulla Riva del Mercato della città dove si eseguivano non solo manutenzioni navali per i natanti dei mercanti che risalivano o scendevano lungo il fiume Volhov, ma si fabbricavano e si fornivano elementi di arredamento, strumenti, contenitori, telai, aratri, remi, pegole etc. insieme con statue di prima qualità da incorporare nello scafo o in un piedritto della porta di casa etc. a scopo apotropaico oltre che per sacro abbellimento. L’intero cantone era una scuola permanente e l’accesso era proibito a qualunque estraneo perché l’arte custodiva segreti tecnologici. Da essa certamente uscivano degli ottimi carpentieri di classe. E chi aveva creato questo cantone decenni dopo la fondazione della città? Costantino VII Porfirogenito ci informa che i Rus’ era rinomati per la costruzione di natanti fatti da un solo e intero albero (monoxyloi li chiama), smontabili e che riuscivano a navigare velocissimi nelle innumerevoli vie d’acqua della Pianura Russa. L’arte doveva essere molto antica fra gli Slavi che con fiumi e laghi avevano a che fare in ogni momento della giornata e della notte e di certo l’avevano passata ai Bulgari del Volga e ai Cazari che se ne servivano doviziosamente.
Il legno diventa bello lucidato e dipinto e la pittura nella civiltà contadina si apprezzava meglio sulle suppellettili di casa che non sulle navi e che non mancavano in nessuna izbà.
Molti oggetti raffigurati qui sotto (a sinistra tratti da O.N. Selegina, v. bibl., e quelli di destra da L.V. Belovinskii, v. bibl.) sono fatti prevalentemente in legno o con scorza di betulla e di tiglio e persino con il cuoio (specie per gli otri e più in uso nella steppa), fra i materiali appare il ferro (ghisa e fucinato) che, ripetiamo, è un apporto tardivo del XIV sec. d.C.
Notiamo comunque la pentola (a) per cuocere zuppe e stufati chiamata čugunka che, riempita degli ingredienti, veniva immessa nella pečka posta sul treppiedi o tagan/taganka. Nel passato però invece del treppiedi e della pentola di ghisa (o di bronzo) si usava un bel pentolone di coccio con tre piedini sul fondo. Il secchio di legno o vedrò è destinato a tirar su l’acqua dal pozzo, mentre le botticelle sono usate per le bevande alcoliche rituali (l’idromele o mjod). In questi articoli si nota la tecnica delle doghe tenute insieme dai vimini e non dalle fascette di ferro come avverrà in seguito.
La cassapanca o sunduk in basso serviva per riporvi il corredo e altri tessuti e il cucchiaione o kovš/kuvšin fungeva allo stesso tempo da scodella da cui si sorbiva la zuppa e lo si reggeva dal grosso manico. Non esistevano infatti piatti e di solito, se si trattava a volte di dover tagliare della carne, lo si faceva sulla lavka o sulla ridotta piattaforma davanti alla bocca della stufa o pečka e nelle cene all’esterno su ceppi/resti di tronchi lisciati.
Se mancano i corni bovini per bere è perché essi si usavano esclusivamente per le libagioni e perché i bovini erano molto pochi e di piccola taglia.
Notevole è ancora la lučina o svetec cioè un ramoscello di betulla che intriso com’era di resina (djogot) bruciava con un buon profumo e faceva luce per quanto ne serviva.
Senza scendere nei particolari rileviamo che i soggetti da dipingere restarono senz’altro le nature morte con bestie e fiori e di certo raffiguravano vari elementi magici pagani come ninfe e esseri immaginari, mentre si evitavano i paesaggi ritenendo ridicolo riprodurli quando era possibile guardarli da sé nella realtà né potendone immaginare di diversi di quelli creati dagli dèi.
Guardando l’izbà dall’esterno, si nota la scultura di una testa di cavallo o (più raramente) di gallo sulla punta rivolta alla strada. Il cavallo infatti era l’animale del Sole, ma anche il gallo era considerato un membro della famiglia e grazie a lui che per primo vedeva il sole tornare nel cielo chi dormiva si svegliava e tornava in vita. Anzi! Siccome le nečistye sily agivano nell’oscurità e di notte, il gallo col suo canto le scacciava immediatamente al mattino. Insomma il dom tramite queste sculture era ben protetto!
All’interno dell’izbà le pareti, la lavka, le ante delle porte erano sempre dipinte, ma non la pečka forse per ragioni tecniche e nelle cartoline museali qui sopra di una casa russa (regione degli Urali, da V.A. Baradulin v. bibl.) si può ammirare l’ambiente colorato del XIX sec. d.C. che di certo ricalca gusti e moda di tanti secoli fa e la ricca collezione di suppellettili di legno.
Un lavoro maschile fuori casa fu a lungo la raccolta del miele e della cera, quasi un monopolio per i Baškiri e per gli Ugro-finni. Miele e cera si ricavavano dal saccheggio periodico degli alveari selvatici che si formavano nei cavi degli alberi e che occorreva svuotare prima di un temibile e vorace concorrente: l’orso! E’ l’embrione di un’industria organizzata dei prodotti forestali giacché i due prodotti erano richiestissimi in tutta l’Europa medievale per cui si pretendevano forniture e qualità regolari. Le uniche realtà politiche atte a tale tipo di commercio erano Grande Novgorod e Bolgar-sul-Volga che infatti lo controllavano in grandissima parte.
E giacché parliamo di embrioni di attività industriali, non possiamo non menzionare l’industria dell’estrazione del salgemma che si concentrava nella regione elevata ad ovest di Kiev: La Podolia e la Volynia dove oltre al sale di miniera si trovavano le sorgenti della Vistola e del Bug (meridionale e settentrionale) e quindi in una posizione favorevolissima al trasporto verso nord e verso sud. Di questa industria si impadronirono i Riurikidi del ramo dei Rostislavidi. Il sale era fondamentale non soltanto per la conservazione delle pellicce pregiate, ma anche per la salatura della carne e del pesce e di verdure e così diventò un’arma per piegare i Riurikidi di Kiev quando ce ne fu bisogno. E a proposito del pesce, affumicato o salato, era un prodotto che circolava nei mercati della Pianura Russa. A quei tempi esistevano ancora pesci d grossa taglia come gli storioni che, catturati, vicino alla foce dei grandi fiumi raggiungevano moli ragguardevoli da sfamare un’intera famiglia per settimane. E con il cristianesimo e le periodiche proibizioni sul cibo carneo il pesce popolarissimo sulla tavola contadina ne prendeva il posto.
Sono però i “lavori femminili” che ci interessano ora perché dal punto di vista economico sono gli unici che spesso producono quel surplus di cui lamentavamo la mancanza e che era scambiato nei mercati periodici dei villaggi. Cominciamo da un’attività lavorativa femminile antichissima: la tessitura. Apparsa già all’inizio dell’invenzione dell’agricoltura e della a sedentarizzazione dell’uomo, essa cominciava con la coltivazione della pianta più conosciuta per questo uso nel nord: il lino (Linum usitatissimum in russo ljòn). La coltivazione riservata alla donna avveniva in terreni separati vicino al fiume e le piante tessili oltre al lino erano la canapa (Cannabis sp. in russo konopljà) e qualche altra. Il lino e la canapa non richiedono terreni particolari e crescono quasi ovunque nel nord purché si dedichi loro una cura costante. Gli steli devono crescere abbastanza alti da dare fibre lunghe e tenaci.
Un po’ prima che cominci a fruttificare la pianta è estratta dal terreno con tutte le radici a mano. Non può essere mai tagliata (la falce è un arnese maschile!) e le fibre così risulteranno indenni da piegature e rotture. Dopodiché gli steli sono messi a macerare per qualche tempo finché le lunghe fibre si staccano le une dalle altre liberandosi dal collagene. Per separare e scartare il collagene rimasto, le fibre sono scassate e pettinate e finalmente date a filare con i fusi verticali tradizionali.
Accadeva a volte che il numero di piante da raccogliere e poi lavorare producevano tanto filo che tessuto e trasformato dava teli in quantità maggiore del necessario per gli usi della famiglia. D’altronde non si poteva lasciar marcire gli steli in più e tutti andavano utilizzati fino a esaurimento ed ecco allora il surplus: filo e teli in più!
Scassatura, cardatura, torcitura, filatura con il fuso etc. erano i lavori più fastidiosi prima di passare sul telaio. Il fuso col contrappeso di argilla era uno strumento sacro e poteva essere usato soltanto dalla sua prima padrona tanto che il contrappeso portava il segno il nome di quest’ultima. Il filo infine era raggomitolato sull’arcolaio. Se poi si richiedeva una colorazione previa, varie piante si trovavano nella foresta per far ciò e la preparazione e l’ottenimento dei colori vegetali nel cui bagno il filato doveva essere immerso era un lavoro complicato, lunghissimo e puzzolente.
Finalmente si passava sul telaio che, com’è naturale, ogni izbà, piccolo o grande ne aveva uno.
Il più diffuso nella Slavia sembra essere stato quello verticale. Era compito dell’uomo, subito dopo la trebbiatura (operazione in gran patrte femminile!), ripararlo, pulirlo e metterlo in ordine dopo averlo tirato giù dalla soffitta (čerdak) e finalmente montarlo. Una volta pronto la padrona di casa si metteva al lavoro insieme con le altre donne. L’apparecchio (i disegni qui sotto sono tratti da una cartolina museale) era sotto il patrocinio della dea slavo-russa Mokoš o Mokošà, parificata in seguito dai cristiani a santa Parascheva o santa del Venerdì e in reverenza ad essa la tessitura era interrotta il venerdì e ripresa il lunedì.
Ogni filo in colore diverso era posto su un proprio arcolaio e in lunghezze tagliate fisse e con un pesino legato a un bandolo (si trovano moltissimi pesini negli scavi archeologici!) se ne appendevano in un certo numero sul subbio superiore del telaio e facevano da ordito. Il resto del filo s’avvolgeva sulla sua navetta e costituiva la trama (o le trame in colori diversi). Navetta e spola, sebbene nella figura la trama si vede raccolta a lato senza navetta, erano maneggiate solitamente dalle ragazze giovani giacché la donna adulta era la responsabile operatrice del telaio.
Sotto forma di ricamo (benché raramente a impuntura essendo questa un lavoro troppo lungo da eseguire senza luce sufficiente) con fili di diverso colore fra trama e ordito la donna di casa riusciva a disegnare sui teli figure mitologiche stilizzate a seconda della destinazione del telo stesso (abito? tovaglia? lenzuola? etc.) come nella figura a destra dove si vedono i ricami apotropaici dominanti nella campagna russa. Filare, tessere e mettere insieme dei panni per fare un abito, un mantello o una stuoia erano lavori che assorbivano tempo e così pure cucire usando ago e filo per cui, in quest’ultimo caso, era più semplice ricorrere a bottoni e legacci o, se si riusciva a procurarsene, a fibbie di metallo e spilloni per tenere insieme più teli.
Le CTP registrano inoltre la netta differenza di qualità, ad esempio, dei teli “russi” rispetto a quelli greci di Costantinopoli e da quando era arrivato il parroco e c’era una chiesa, il lavoro al telaio era di fatto aumentato per offrire addobbi e in certi casi occorreva la collaborazione dell’intero villaggio. Con la Chiesa i disegni sui teli erano cambiati come pure i colori ammessi poiché erano state introdotte numerose e complicate proibizioni “cristiane” sulla tessitura, sulle fibre tessili e sui colori. Non solo! Certi tessuti li tessevano i monaci nei pochi conventi affinché non se ne profanasse la santità con mani femminili. Un esempio? La tessitura e il ricamo dell’antimension (russo antimìns) o tovaglia sacra usata per l’altare ortodosso erano eseguiti interamente dai monaci.
Ci siamo soffermati su questa industria domestica e specialmente sul lino giacché la richiesta era enorme presso la gente di qualsiasi ceto di questa fibra per la biancheria intima. Anche i tessuti in canapa erano richiesti e l’attrezzatura era la stessa, ma era per usi più umili o per le corde. Insomma una filiera d’attività così complicata non si svolgeva nelle città-fortezze e raccogliere teli, abiti semi-confezionati e simili rappresentò a lungo uno dei tributi primari che le élites laiche e ecclesiastiche esigevano dal mondo contadino. Anzi! Avere una tessitrice o un tessitore nel proprio palazzo era una delle aspirazioni maggiori dei principi e dei notabili, poiché costoro non vedevano di buon occhio le “proprie” donne occupate al telaio. Ciononostante con i Tataro-mongoli si preferì a lungo continuare a importare teli di cotone e di seta dal Centro Asia…
Un’altra attività femminile importantissima, stavolta però non del tutto “estraibile dall’izbà e trasferibile nel bene pubblico” era e resta preparare il cibo e quindi la fabbricazione delle pentole. L’argomento “cucina” però è troppo vasto e articolato per osare di riassumerlo qui. Aggiungiamo invece che alla donna era riservata in primo luogo la conduzione dell’orto di casa per coltivare erbe e spezie e in secondo luogo la ricerca delle piante medicinali (oltre a quelle tintorie). Verso l’autunno a partire già dal Solstizio estivo era consueto vedere donne anziane insieme con ragazze chinarsi lungo i fossi per strappare uno stelo o tagliare un cespuglietto da riporre nel sacco a tracolla. Le erbe venivano poste a seccare a casa dietro la pečka e secche erano poi tritate a mano per usarne in infusi vari giacché l’attività di erboristeria e la farmacognosia erano prerogative femminili esclusive, come era ed è ancora in queste regioni del nord Europa. Di queste erbe se ne faceva gran commercio a tutti i livelli e le fornitrici dalla foresta ne facevano profitto.
E le pentole? Per lungo tempo furono eseguite dalle donne a mano senza la ruota del vasaio e portavano decorazioni tipiche… utilissime per l’archeologo che ne scava oggi i cocci.
Un surplus di produzione “agricola contadina” che non va dimenticato erano gli schiavi.
C’è da dire che il traffico di questa “merce” già noto da tempi immemorabili coprì il fabbisogno di personale servile delle corti musulmane e europee dal X fino al XIV sec. d.C. con giovani di provenienza slava. Costantinopoli era il cuore di tali traffici giacché è l’Impero Romano a subire eventi storici più rilevanti specialmente perché è contro le angherie della burocrazia imperiale che sorge e si espande l’Islam. Gli schiavi in questa nuova organizzazione cultural-religiosa non hanbno più ragion d’essere, se accettano il nuovo ordine musulmano. Eppure il traffico non declina, ma si modifica. Non è più la manovalanza contadina che si cerca perché adesso convertendosi all’Islam ce n’è in abbondanza, ma personale di servizio nelle corti. Dove cercarlo?
Per quanto riguarda gli Slavi, dai documenti imperiali sappiamo che la politica più solita ai tempi quando questa gente era tuttora coinvolta con Unni e Avari in scontri e guerre era di non mantenere molto a lungo senza riscatto in stato di schiavo (cioè persona/oggetto da vendere!) il prigioniero ottenuto come bottino e ridargli la libertà dopo un certo numero di anni offrendogli l’opzione di essere adottato nella grande famiglia slava, nel caso non sapesse dove andare a finire la sua vita. In seguito quando le attività maggiori degli Slavi ormai non più in perenni campagne militari si concentrarono nel lavoro agricolo che abbiamo descritto fin qui e si dovettero fare i conti con la produttività del lavoro in tempi di pace, non avendo prigionieri da vendere, ma bocche in più da sfamare se i figli e le figlie diventavano troppo numerosi e le porzioni di cibarie da dividere diventavano più magre, il capofamiglia decideva spesso di liberarsi delle bocche in più vendendole ai mercanti specialisti. Insomma: era meglio mandare i ragazzi all’estero e a servizio dove avrebbero avuto da vivere decentemente che non rischiare la morte per fame in patria!
Quest’ultimo aspetto (più tardivo!) del traffico di schiavi è testimoniato nel Medioevo Russo dall’esistenza di un famoso mercato all’interno della foresta: Dručesk (oggi Druzk in Bielorussia). Purtroppo sfuggiva al controllo di Kiev giacché i mercanti da Druzk viaggiavano coi ragazzi via terra per la Turingia e non usavano affluenti del Dnepr. Tuttavia schiavi per i signori mercanti kievani ce n’erano di altra provenienza. E’ quasi certo infatti che la stessa politica di cui dicevamo vigente nella famiglia contadina slava delle bocche in più fosse in vigore anche presso gli Ugro-finni poiché Grande Novgorod era in grado di fornire giovani a sufficienza per Kiev e per Bolgar ancora fino al XII-XIII sec. d.C. di tale provenienza per poi mandarli a Baghdad o a Samarcanda.
Quanto poi alle etnie turche delle steppe, doveva essere in vigore un costume simile persino da queste parti poiché i Genovesi e i Catalani in Crimea facevano commercio di giovani slavi e turchi (Cumani) ancora nel XV sec. d.C. ma qui invece che personale servile, si acquistavano e rivendevano cavalleggeri addestrati e pronti alla guerra di età non superiore ai 15-16 anni.
© 2015 di Aldo C. Marturano
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Aldo C. Marturano
Nato a Taranto, ha studiato nelle Università di Bari, poi di Pavia, infine di Amburgo, dove ha chiuso i suoi corsi di laurea in chimica industriale. Non ha mai lavorato come chimico e ha invece sfruttato le sue conoscenze linguistiche. Conosce infatti (parla e scrive correntemente) russo, inglese, tedesco, francese, spagnolo, ungherese e ne ha studiate un’altra decina che spera di portare a maggiore perfezione nel prossimo futuro. Si è diplomato in Lingua Russa all’Istituto Pusckin di Mosca dove ha avuto inizio la sua avventura nel Medioevo Russo. Lavorando sui mercati internazionali si era infatti appassionato al Medioevo, ma quando scoprì che non riusciva mai a sapere gran che su quello russo, colse l’occasione della tesi all’Istituto Pusckin e scelse di studiare un personaggio del Medioevo bielorusso, Santa Eufrosina di Polozk: di lì via via è entrato in quel mondo magico e nuovo.
Ha pubblicato il saggio storico in chiave divulgativa Olga La Russa, 2001 (che non è la sorella di Ignazio La Russa, per carità!), e poi per i ragazzi L’ombra dei Tartari, 2002, ovvero la saga di Alessandro Nevskii.
Altre sue opere sul Medioevo russo sono visibili nel portale delle Edizioni Atena.
Collabora attivamente con il portale Mondi Medievali curando la rubrica Medioevo Russo.