
Viaggiare nell’età di Matilde. La Val di Lima e la viabilità medievale di Ilaria Sabatini
Il presente articolo appare per gentile concessione delle Fondazione Michel de Montaigne di Bagni di Lucca. Viaggiare nell’età di Matilde. La Val di Lima e la viabilità medievale, in Bagni di Luca terra di sovrane attenzioni, Atti delle Giornate di Studio 2015-2016 a cura di M.Cherubini e T. M. Rossi, Bagni di Lucca, Fondazione Montaigne, 2016, pp. 9-30.
Recentemente è stato ricollocato presso la chiesa di San Cassiano di Controne, nel territorio di Bagni di Lucca, un bacino ceramico dell’XI secolo[1]. Il bacino, che in origine era incastonato nella cuspide della facciata, reca la figura di un falconiere a cavallo ed è stato riconosciuto come manifattura islamica di provenienza siciliana o tunisina[2]. La presenza di un simile oggetto, così apparentemente fuori contesto, si può spiegare solo alla luce della storia della mobilità umana al cui seguito si spostano culti, idee e manufatti.

La Tuscia, in età augustea, fu una delle undici regiones amministrative nelle quali venne ripartita l’Italia. Essa diventò longobarda negli anni ’80 del VI secolo e le sue sedi ducali, all’inizio dell’VIII secolo, erano Lucca e Chiusi[3]. La viabilità della Tuscia ricalcava quello che rimaneva delle vie consolari romane, in particolare la via Aurelia e la via Cassia che, partendo da Roma, raggiungevano rispettivamente Pisa e Luni: la prima seguiva la linea litoranea e la seconda il percorso appenninico. A queste si aggiungeva un passaggio transappenninico, avallato dell’Itinerario Antonino che collegava Parma con Lucca. Il testo, collocabile tra il III e il IV secolo, riferisce esclusivamente il punto di partenza e di arrivo ma documenta con certezza la presenza della strada di collegamento tra Parma e Lucca da cui era poi possibile raggiungere Luni[4]. Nel VII secolo le grandi vie di comunicazione come la Flaminia Emilia, occupate dalle armate nemiche dei bizantini e dei longobardi, divennero impraticabili in tutta la loro estensione. All’arrivo dei longobardi, i bizantini avevano mantenuto il controllo della Marittima (la zona ligure), dell’Umbria e degli sbocchi appenninici a est. In questa condizione la Cisa era diventata un passaggio chiave per la percorrenza medievale. Il passo di Monte Bardone usufruiva di una strada romana che era rimasta la sola praticabile per i longobardi e questo ruolo si intensificò quando Rotari riuscì a sottrarre la Lunigiana ai bizantini. Questa via collegava Lucca a Parma e permetteva di raggiungere la capitale longobarda fissata a Pavia[5]. Essa riprendeva probabilmente il tracciato presunto della via Aemilia Scauri, la via consolare romana che collegava Parma a Luni (109 a.C.) e successivamente Luni a Lucca.

Quando i longobardi presero il controllo della Marittima e della Lunigiana nel 643 fu loro possibile attrezzare la via transappenninica con abbazie e ospizi a servizio dei viaggiatori e a garanzia del controllo dei luoghi. Che per i longobardi rivestisse grande importanza il passaggio in corrispondenza dell’attuale Cisa è testimoniato dal fatto che il re Liutprando († 744) fondò il Monastero di Berceto «quod est situm in cacumine montis cui nomen est Bardo»[6]. Secondo la tradizione riportata da Paolo Diacono, ma prima ancora da Flodoardo († 966) canonico di Reims, sul monte Berceto venne fondato un monastero da Moderamnus vescovo di Rennes[7]. Paolo Diacono († 799) individuava inoltre il punto topico della via per la Tuscia esattamente nel monte Bardone[8]. Al di là della tradizione agiografica il racconto rispecchia il contesto della politica longobarda circa la restaurazione dei beni ecclesiastici e la promozione di fondazioni monastiche lungo la viabilità del monte Bardone. Anche il re Astolfo intraprese un’azione di riorganizzazione viaria e nel 749 donò il territorio di Fanano e di Sestola – posti su un’altra importante percorrenza – al duca Anselmo suo cognato. Abbandonato il titolo, Anselmo si fece monaco e nel 752 fondò un monastero a Nonantola, in una zona resa particolarmente calda dalla presenza militare dai bizantini. Nonantola divenne così il nodo di un nuovo sistema viario permettendo il collegamento attraverso il Passo della Calanca[9]. Sulla via nonantolana[10] sorsero così strutture di sostegno ai viaggiatori: l’ospizio della Val di Lamola, dedicato a San Giacomo, alle dipendenze del monastero di Fanano e altri luoghi di strada la cui funzione è suggerita da toponimi come Ospitale[11].
Per quanto riguarda i collegamenti tra la capitale longobarda Pavia e la Tuscia tirrenica si possono prendere in considerazione due attraversamenti: uno che passava dal monte Bardone, l’attuale passo della Cisa, arrivava a Pontremoli e scendeva lungo l’alta valle del Serchio, e l’altro che giungeva da Nonantola, passava per Fanano, valicava al passo della Calanca, trovando appoggio nella pieve di Lizzano e a quel punto si biforcava in direzione del pistoiese e della valle del torrente Lima. Le due vie si ricongiungevano alla confluenza dei due fiumi, in prossimità del ponte di Chifenti (o della Maddalena) e il percorso continuava verso Lucca attraverso la bassa valle del Serchio. Anche il ponte della Maddalena sembra rientrare tra

quelli che vennero costruiti in funzione stradale intorno al X secolo, è noto però solo a partire dal XII secolo. Venne edificato nei pressi del castello di Rocca a Mozzano e della Pieve di Cerreto, intorno alla quale si disponeva l’insediamento altomedievale che rappresentava un importante centro mercantile. La Lima è il principale affluente del Serchio e costituiva una delle vie d’accesso verso i passi appenninici per il modenese. Il ponte, dal punto di vista viario, assicurava il collegamento tra la via della valle della Lima e la riva destra del Serchio, dove correva la viabilità principale[12]. Per la sua posizione la città di Lucca costituiva il principale sbocco al confine tra monte e pianura per chi percorreva la viabilità della transappenninica in un senso o nell’altro. Questa fu una della cause della precoce ripresa della vita urbana nella città e della sua fortuna politica che la portò a diventare sede di uno dei due ducati longobardi della Tuscia. Lucca era nota come tappa del percorso transappenninico già fin dall’VIII secolo come dimostra il fatto che viene citata in riferimento alla Tuscia nell’Itinerarium Sancti Willibaldi (723-26): «Inde Romam tendentes, Tuscie urbem devenere»[13]. Ma quando le condizioni geopolitiche cambiarono, la posizione di privilegio di Lucca nel sistema viario venne meno e fu surclassata da Firenze che svolgeva un ruolo di cerniera tra gli attraversamenti appenninici, riattivati dalla nuova continuità territoriale raggiunta sotto i Canossa, e la viabilità a sud dell’Arno[14]. Quando ai Longobardi si sostituirono i Franchi, anche la loro strada divenne la strada dei Franchi ed è in questo senso che vanno interpretate le attestazioni della Francigena. Francigena, infatti, non è un nome come quello attribuito alle vie consolari romane ma un aggettivo che qualche autore, a mio avviso correttamente, traduce con francesca o romea. Per la prima volta la via è definita «francisca» in un atto dell’876 riguardante il monastero di San Salvatore sul Monte Amiata[15], viene poi citata significativamente intorno al 1114 da Donizone nella Vita Mathildis[16]. E per il discorso sulla viabilità medievale in val di Lima ripartiamo proprio da qui, da Matilde e Donizone e dal ruolo che aveva la città di Lucca per i Canossa.
La sede vescovile era stata istituita a Lucca, tra il IV e il V secolo, e rappresentava una delle tredici in cui era organizzato il territorio. Nell’VIII secolo il sistema delle chiese battesimali della diocesi era strutturato ormai in modo abbastanza regolare. Dopo la conquista di Carlo Magno nel 774 i suoi successori tennero in gran considerazione le pievi, considerandole un ottimo strumento d’inquadramento amministrativo della popolazione rurale[17]. Per i Franchi l’apparato ecclesiastico era parte integrante dell’ordinamento pubblico e dopo il 774 il ruolo e il prestigio dei vescovi crebbero grazie a un sistema di legittimazione basato sulla traslazione di corpi santi insieme a vari lavori di rinnovamento dell’edilizia ecclesiastica. A cavallo dell’800 cominciarono ad arrivare in Tuscia i nuovi ufficiali pubblici carolingi, inquadrati amministrativamente come conti. A metà del secolo IX, il Regno italico era governato da Ludovico II, figlio e successore di Lotario I e dunque nipote di Ludovico il Pio e detentore del titolo imperiale. A Lucca il conte Adalberto I, di stirpe bavara, con la sua azione estese la propria autorità sulle altre città della Tuscia nord-occidentale e ottenne così il titolo di marchese che connotava entità territoriali formate da più contee accorpate. Nacque così la marca di Tuscia che però comparve nelle fonti solo a partire dal X secolo. Verso l’886 il figlio omonimo si avvicenda ad Adalberto I e grazie al matrimonio con Berta, figlia di Lotario II, Adalberto II entra nella cerchia dell’aristocrazia imperiale. Ciò contribuisce a dimostrare che la Tuscia aveva un’importanza decisiva per il controllo del Regno anche per il fatto che essa costituiva la porta d’accesso naturale a Roma. A questo punto si comincia a capire meglio quale fosse il prestigioso ruolo di Lucca e il motivo della sua grande fortuna legata proprio a una felice posizione geografica che ne faceva l’ultima città prima degli appennini e la prima che apriva l’accesso alla Tuscia[18].

Secondo Donizone, biografo di Matilde, il capostipite dei Canossa fu Sigefredo di Lucca, un personaggio di cui non si sa altro se non che proveniva «de Comitatu Lucensis»[19] ma ciò non significa che ne fosse conte. Sigefredo si trasferì in Emilia-Romagna verso il 930, quando il re Ugo di Provenza gli concesse delle terre intorno a Parma[20]. Adalberto Atto, il bisnonno di Matilde di Canossa era figlio di Sigefredo della contea di Lucca. Atto viene definito conte per la prima volta in alcuni documenti del 958 e del 961 senza precisare su quale territorio si esercitasse la sua giurisdizione. Successivamente, nel 977 è detto conte di Mantova e alcuni documenti lo definiscono anche marchese. Egli era vassallo dell’Imperatore così come viene indicato in un Diploma di Ottone I del 962: «comes regiensis sive Mutiniensis… fidelis noster». Atto aveva sposato Ildegarda della famiglia dei Supponidi e attraverso questa politica matrimoniale era divenuto conte di Mantova nel 942[21]. Il potere dei Canossa derivava non solo dalle giurisdizioni comitali che permettevano loro di esercitare diritti pubblici in merito alla giustizia e ai censi, ma anche da una grande quantità di beni allodiali che possedevano in Italia centro settentrionale.
Uno dei tre figli di Atto, Tedaldo, si era recato in pellegrinaggio a Roma e il suo nome compare col titolo di conte in una bolla di Papa Benedetto VII. Tedaldo aveva sposato Guillia, che viene attualmente identificata come sorella di Ugo, marchese di Toscana, che era a sua volta figlio di un figlio naturale (Uberto) di Ugo di Provenza futuro re d’Italia[22]. Tedaldo morì tra il 1007 e il 1012 e gli successe il figlio Bonifacio che egli aveva associato a sé nel governo già negli ultimi anni della sua vita. Con Bonifacio grazie anche al suo matrimonio con Richilde (1010 ca.) il vasto dominio dei Canossa era concentrato nelle mani di un solo uomo. Nel 1027, quando il marchese Ranieri di Tuscia, si oppose a Corrado II il Salico, che scendeva nella penisola attraversando Lucca, dove Ranieri s’era asserragliato, la città fu espugnata e la marca assegnata a Bonifacio di Canossa[23]. Bonifacio spostò la corte da Canossa a Mantova e questo fece sì che la città diventasse la capitale dei possedimenti canossiani. Mantova fu scelta per la sua posizione centrale nel dominio e per il fatto di essere priva di vescovo cosa che dava a Bonifacio l’agio di non dover competere con un’autorità comitale pree- sistente come sarebbe stato per Modena o Reggio. Dopo la morte della prima moglie, Bonifacio di Canossa sposò Beatrice di Lorena nel 1040. Beatrice apparteneva a una illustre famiglia imperiale poiché era figlia del duca Federico di Lotaringia e di Matilde di Svevia. Bonifacio era allora uno dei più potenti signori dell’impero ed era fedele all’imperatore. Negli ultimi anni di vita di Bonifacio, Beatrice esercitò una grande influenza sul marito e fu probabilmente lei l’ispiratrice di una diversa politica nei confronti degli enti ecclesiastici. Tra X e XI secolo cominciò infatti a farsi sentire un’esigenza di rinnovamento della vita religiosa sulla base di una spinta che non veniva semplicemente dal mondo religioso ma anche dall’ambiente imperiale poiché l’impero aveva bisogno di una chiesa su cui poter fare affidamento e dunque, a partire da Enrico II, gli imperatori promossero la nomina di papi riformatori. Con Goffredo e Beatrice la capitale dei loro domini si trasferì da Mantova a Firenze, città avvantaggiata da una posizione di cerniera tra l’appennino e la zona a sud dell’Arno. Lucca, dove erano risieduti i duchi di Tuscia del X secolo, perse così il ruolo di privilegio che le derivava proprio dalla sua prossimità ai valichi appenninici[24]. Il cambio di assetto del territorio, dovuto alla maggiore continuità territoriale garantita dai domini dei Canossa, fu determinante per la città di Lucca e per il declino del suo ruolo politico nell’ambito della Tuscia.

A partire dal secolo XI, dopo alterne fortune, la pratica del pellegrinaggio diventò un fenomeno diffuso in tutto l’Occidente cristiano medievale. L’aumento del dinamismo e la crescita demografica che caratterizzarono la società dell’epoca comportarono una mobilità centripeta e centrifuga, di cui le crociate furono uno degli aspetti più appariscenti[25]. Con la rinascita dei commerci le istituzioni civili e religiose congiunsero gli sforzi per facilitare le comunicazioni attraverso la manutenzione delle strade e lo sviluppo di un sistema di punti di sosta. La cosiddetta via Francigena, com’è risaputo, non era una strada vera e propria bensì un sistema preesistente di strade che collegava longitudinalmente l’Italia partendo dal Monviso per arrivare fino a Roma. Il percorso che seguiva non era identificato da una o più strade in senso moderno ma da una serie di tappe dove si ricongiungevano i vari percorsi[26]. Nell’XI secolo cominciarono a manifestarsi anche gli albori di quella civiltà cittadina che poi sarebbe esplosa nei secoli successivi dando luogo a fenomeni di grande respiro in ambito culturale, commerciale, sociale e urbanistico. Il primo secolo del nuovo millennio non era semplicemente un secolo di prolusione bensì conteneva in sé le cause e gli agenti che sarebbero stati all’origine delle autonomie cittadine prima e della fioritura urbana poi. Matilde di Canossa, per quanto riguarda la regione della Toscana nord orientale, fu nel suddetto campo una delle protagoniste indiscusse. Questa donna tra le più potenti di tutto il medioevo rappresentò l’elemento di snodo in cui si incardinava l’azione politica del suo tempo: in particolare di Gregorio VII e Anselmo da Baggio.
L’XI secolo fu un periodo denso di accadimenti politici ma, a dispetto di quanto comunemente si crede, essi non riguardarono soltanto gli aspetti stanziali della vita nella società occidentale ma anche quelli del viaggio. La prospettiva è insolita, non esiste uno studio sistematico della storia della società occidentale intesa nella sua dimensione mobile. Come segnalava Marc Bloch, la storia stradale dell’Europa prima del secolo XVIII resta ancora un argomento ben lungi dall’essere esaurito[27]. Molto si è fatto dal punto di vista storiografico per superare il luogo comune di una società medievale immobile come se fosse assoggettata a un rigido principio di stabilitas loci: tale esigenza di stanzialità esisteva effettivamente ma era vincolante soltanto se inserita all’interno di una prospettiva monastica[28]. La stanzialità, come fenomeno centrale del sistema di organizzazione cittadino, sarebbe diventata un discrimine di tale importanza che in base ad essa si sarebbero valutate le altrui forme di civilizzazione: quanto più si era vicini al modello della civiltà urbana tanto più si era vicini alla natura umana[29]. Il grado di urbanizzazione diventava paradigma interpretativo del mondo, di modo che il nomadismo veniva giudicato come una condizione moralmente negativa. Per uno strano paradosso coloro che esprimevano con assoluta chiarezza tali convinzioni erano proprio i viaggiatori, in particolare i pellegrini fio- rentini del pieno medioevo, che provenendo da una realtà cittadina di grande peso e confrontandosi con un Oriente ancora in parte nomade lo interpretavano sulla base del modello occidentale della civitas[30]. Il nomadismo e il pellegrinaggio, in un certo senso, erano le facce di una stessa medaglia. Le due pratiche erano strettamente correlate da una comune componente di vagatio ma erano anche distinte dal ruolo che in esse assumeva la mèta dell’andare.
In epoca carolingia, prima dello smembramento dell’impero, la cura delle strade veniva incoraggiata dall’autorità stessa. Del resto tale pratica si appoggiava a una preesistente tradizione di tutela del sistema viario. Come ricorda Szabó, il Digesto giustinianeo dedicava quattro capitoli alla manutenzione stradale e il longobardo Liutprando vietava l’ulteriore danneggiamento delle strade romane[31]. Con l’avvento dei carolingi fu Pipino a ristabilire il rispetto delle antiche consuetudini del restauro delle strade e dei ponti. La politica di tutela stradale, sia d’acqua che di terra, ebbe una ripresa durante la rinascenza carolingia ma fu abbandonata nel corso del IX secolo. Il Capitulare de functionibus publicis dell’820 stabiliva che i privati che si prendevano cura del mantenimento dei ponti potevano riscuoterne il pedaggio[32]. Il punto chiave della questione, che si tratti di epoca romana o di età medievale, è sempre quello dell’esistenza di un’entità statale o comunque di un’autorità sufficientemente organizzata da potersi occupare della manutenzione delle vie di comunicazione. Patitucci e Uggeri fanno il punto della questione in merito alla problematica sopra esposta e anche riguardo alla possibilità di indicare il concreto tracciato topografico di particolari strade. Tale esigenza è stata sentita finora soprattutto da parte di topografi antichisti ma la rapida e crescente evoluzione, dopo il Giubileo del 2000, della moda di ripercorrere le vie di pellegrinaggio pone un problema anche agli storici. Esiste un approccio specifico per individuare un tracciato. Tale metodologia considera come fonti di riferimento la situazione geomorfologica; le fonti scritte; i tracciati, i manufatti e le infrastrutture connessi con la via; il tessuto insediativo sotteso dalla strada e infine la toponomastica[33].
In linea generale le zone collinari e montane sono più stabili delle altre e, a parte fenomeni specifici, non si registrano grosse trasformazioni del paesaggio tra l’età medievale e quella moderna. Viceversa grosse variazioni si registrano lungo le linee di costa, in alcune aree lagunari, nei corsi inferiori dei fiumi e nelle pianure alluvionali. L’aumento della piovosità alla fine del VI secolo provocò dissesti tali da causare l’impaludamento di alcune di quelle aree dove era venuta meno la manutenzione[34]. Molte terre tornarono ad essere coltivate solo con l’intervento dei benedettini, grazie a un’attività di disboscamento e bonifica. Molti fiumi mutarono il loro corso a causa delle esondazioni come nel caso del Serchio che divenne autonomo dall’Arno: il miracolo di San Frediano non è altro che il fenomeno della migrazione dell’alveo reinterpretata in chiave provvidenziale[35]. Il regime dei fiumi era instabile e per questi motivi la viabilità altomedievale individuava percorsi di crinale o di mezza costa. I fondovalle vennero di nuovo utilizzati a partire dal XIII secolo quando furono bonificati e messi a coltura, e quando ritornarono a espandersi i commerci. Per i motivi sopra esposti, nel presente studio, si è ritenuto opportuno compiere un ragionamento che partisse dall’aspetto orografico del territorio e dalla sua conformazione idrogeologica. Individuando e geo-localizzando le pievi quali elementi caratterizzanti di una probabile viabilità, si è osservata una ripartizione sulla base dei principali corsi d’acqua presenti e si sono raggruppate le strutture in pievi dell’alta val di Serchio, pievi della bassa val di Serchio e pievi della val di Lima. Ovviamente questo lavoro deve intendersi come strumento interpretativo in fieri, perciò non sarà applicata alcuna ripartizione rigida e anzi si prevede di aggiustare la classificazione mano a mano che le informazioni si sedimentano.
La condizione di vuoto di potere, associata agli eventi climatici che incisero sulla morfologia del territorio, fece sì che la viabilità chiaramente strutturata di epoca romana fosse sostituita da percorrenze svincolate da tracciati precisi. I percorsi divennero fasci di tracciati più o meno stabili. Per dirla con Sergi si dovrebbe parlare di «aree di strada» ossia non di grandi vie internazionali e percorsi nettamente disegnabili ma del territorio da essi condizionato[36]. Le strade medievali seguivano spesso i crinali e derivavano dall’adattamento di precedenti mulattiere. I riferimenti della viabilità erano i punti di convergenza obbligati quali valichi e guadi che punteggiavano le percorrenze più importanti. Le infrastrutture stradali di età medievale erano legate alle necessità essenziali: il passaggio dei fiumi, il superamento dei valichi e il ricovero dei viaggiatori. Le stationes stradali romane erano scomparse mentre erano rimasti alcuni ponti che continuavano ad essere utilizzati e restaurati[37]. In genere i ponti e i valichi divennero anche luoghi di sosta in quanto punti di convergenza degli itinerari. Le pievi come si può ben intuire furono strutture religiose di fondamentale importanza per quanto riguardava l’organizzazione ecclesiastica e amministrativa del territorio, di conseguenza ebbero nel tempo un ruolo nel sistema di strutturazione viaria[38]. La Mediavalle del Serchio, secondo il Libellus Extimi Lucane Diocesis redatto per consentire l’imposizione di una tassa straordinaria sul clero, nel 1260 ne annoverava otto. Facendo un riscontro con i documenti dell’Archivio Storico Diocesano di Lucca recentemente censiti da Lallai[39] troviamo che tutte le pievi interessate erano già documentate prima del X-XI secolo. Procedendo dal confine con il pistoiese verso la lucchesia incontriamo Lizzano[40], Vico Pancellorum, Villa Terenziana (Pieve di Monti di Villa), Controne, Casabasciana, Loppia, Mozzano, Diecimo e Monsagrati. L’origine della loro istituzione è in relazione con la grande opera di evangelizzazione promossa fin dalle origini dalla Chiesa Cristiana. La pieve dell’Italia centrale si distinse per alcune caratteristiche peculiari: pratica di vita comune del clero, diritto a possedere il fonte battesimale, diritto a possedere il cimitero, diritto di riscossione delle decime dalle chiese dipendenti. Essa era il nodo cruciale nella vita religiosa, le chiesa matrice delle campagne. La popolazione rurale che ne dipendeva doveva raccogliervisi per assistere comunitariamente agli eventi sacramentali. Le pievi inoltre svolsero un ruolo di assistenza nei confronti di viandanti e pellegrini mediante l’istituzione di hospitales o xenodochia[41].
Secondo il Libellus Extimi Lucane Diocesis del 1260, partendo dal confine con il pistoiese si incontrano gli ospedali di San Francesco di Crasciana, San Regolo di Cabbi di Villa Terenziana, San Tommaso di Benabbio, San Leonardo di Calavorno, San Martino in Greppo, Sant’Ansano. Significativo è in territorio pistoiese il toponimo Ospitale attribuito sia ad un paese nei pressi di Fanano sia ad un torrente che sgorga dalle pendici del Passo di Croce Arcana, confinante con il territorio di Bagni di Lucca. Riguardo ai luoghi d’accoglienza è molto più difficile definire una cronologia certa. Se per le pievi ci si può muovere sulle attestazioni documentarie riuscendo a stabilire un terminus ante quem che ci permette almeno di accennare un quadro generico della situazione esistente prima dell’età di Matilde, per gli ospedali questo non è praticamente possibile[42]. Sappiamo però che alla metà del IX secolo Amulone, arcivescovo di Lione, sanciva il modello di vita da seguire nella sua diocesi. La sua epistola individuava gli obblighi liturgici e pastorali spettanti alle chiese rurali: lì il popolo doveva ascoltare le messe e ricevere il battesimo, l’eucarestia, la penitenza, la visita durante le malattie e infine la sepoltura dopo la morte. Tali chiese rurali erano tenute a destinare le elemosine agli orfani, alle vedove povere e ai pellegrini. Amulone imponeva esplicitamente che accanto a queste chiese venisse organizzata una qualche ospitalità[43]. Non sappiamo esattamente quanto questo modello possa essere applicato alla situazione italiana ma vi sono buoni margini per ritenere che lo fosse. In età carolingia, infatti, è nota l’importanza conferita dall’autorità imperiale alla riorganizzazione del territorio attuata proprio mediante le strutture pievanali.

Nonostante una persistente tradizione popolare attribuisca il restauro o addirittura la fondazione di molti edifici sacri e strutture stradali a Matilde di Canossa, è ormai acclarato che la situazione dal punto di vista storico è molto differente[44]. Va però considerato che negli ambienti matildici maturava quella riforma gregoriana che avrebbe avuto profonde conseguenze in campo religioso, giuridico e politico. Il fermento di rinnovamento non riguardò esclusivamente l’ambito teologico e canonistico ma andò a incidere anche sull’idea di caritas che, come sottolineava Fornasari, può essere intesa come chiave interpretativa della svolta rappresentata dalla riforma[45]. La caritas, nell’ottica anselmiana, non è solo oboedientia ma anche utilità del prossimo. Essa è prassi, intesa non come mera fattualità ma come esercizio concreto della scientia scritturale. In questo clima di riforma la prassi della carità diventa così parte integrante del rinnovamento giuridico, teologico e politico. Ecco dunque che lo studio del pellegrinaggio, delle sue strutture materiali e della sue forme, all’epoca di Matilde nelle terre di lucchesia si configura non come un argomento parallelo bensì come un percorso che rientra a pieno titolo nel tema della riforma. A questo proposito esistono due documenti molto interessanti che riguardano l’attività caritativa della Grancontessa e di sua madre: la donazione effettuata all’ospedale delle cattedrale di San Martino di Lucca e la dotazione dell’ospedale di San Martino in greppo, che si incontra sul lato destro del Serchio pochi chilometri a valle del grande ponte della Maddalena. Nel primo caso, come ricorda Cappellini in un recente intervento, Beatrice e Matilde, tra il 1072 e il 1076, concedono la propria protezione all’ospedale di San Martino di Lucca[46]. Recita l’atto: «Prendiamo sotto la nostra tutela e difesa questo edificio che è stato costruito per l’ospitalità e per l’accoglienza dei poveri vicino alla medesima chiesa di San Martino, presso la chiesa di Sant’Alessandro e la pusterla detta del giudice Leone. Per avere un’idea di cosa significava amministrativamente un edificio del genere basta continuare a leggere il testo in cui le due nobildonne dichiarano di prendere in carico la predetta mansionem con tutti i beni mobili e immobili che le sono pertinenti e che le apparteranno in futuro insieme ai coloni e ai servi che dipendono da quel luogo. «Perciò – continua l’atto – ordiniamo che nessun conte, visconte, gastaldo, esattore, decano o qualunque persona osi turbare quel luogo, i suoi rettori, i coloni o i beni adesso pertinenti né ora né in futuro»[47].

Un altro atto redatto nel 1078 riguardava il territorio di Diecimo: Matilde donava la quarta parte, quella che era di sua pertinenza, del monte, del poggio e del castello con le mura e ogni costruzione all’episcopato di San Martino, ossia al vescovo e al capitolo di Lucca[48]. L’atto doveva rafforzare la posizione di Anselmo II in un periodo particolarmente delicato e rientrava in una politica più generale di sostegno che si esprimeva nell’elargizione di donazioni e protezioni[49]. La pieve di Santa Maria di Diecimo era stata la sede di un altro placito del 1111 in cui Matilde aveva deliberato di prendere sotto la sua protezione dei beni sull’isola di Gorgona facenti capo al monastero pisano di San Vito, posto sul lungarno di quella città. Questi interventi sul territorio non significano che esistesse un rapporto preferenziale tra i Canossa e l’area della Val di Lima ma potrebbero essere la conseguenza del suo ruolo di area di strada in rapporto alle modalità di spostamento dei conti di Toscana. A questo si aggiunga che proprio nel territorio di Corsena, una zona che mantiene ancora oggi il medesimo toponimo nel territorio di Bagni di Lucca, aveva posto la propria sede uno dei feudatari di Matilde di Canossa e di Beatrice: Pagano da Corsena dei Porcaresi. La famiglia dei Porcaresi, nominata a partire dalla metà dell’XI secolo, con centro del proprio potere in Corsena, faceva parte del seguito della corte marchionale[50]. Quella dei Porcaresi in Val di Lima fu una presenza duratura che si protrasse fino alla seconda metà del XIII secolo. Il capostipite di questa famiglia longobarda fu Beraldo citato per la prima volta in una carta del 960 in cui il vescovo di Lucca gli concede a livello la chiesa di San Pietro a Vico[51]. Uno dei figli di Beraldo, Rodilando è ricordato in due carte del 1011 dove riceve a livello dei terreni dai canonici di San Martino e nella seconda offre agli stessi canonici le decime che possedeva a San Pietro a Vico[52]. Nel primo dei suddetti documenti, sul margine, è annotato «de isto Rodilando fuit Beraldus qui Paganellus dicebatur anticuus Porcarensium»[53]. Nel 1064 ottiene a livello dal vescovo Anselmo, divenuto papa Alessandro II, una parte dei possedimenti di Porcari e delle chiese di Sant’Andrea e San Giusto[54]. Da questa serie di documenti si evince che solo successivamente la famiglia si insedia a Porcari che diventerà nel tempo il più importante dei loro possedimenti e dal quale deriverà il loro nome. Da una carta del 1049 Pagano risulta sposato ad Adaleita ma pare possibile che si tratti della seconda moglie presa in matrimonio dopo aver perduto Ermengarda. Il fatto che fosse conosciuto come de Corsina invece che de Porcari indica che egli risiedeva ancora lì, ossia che nel territorio di Corsena possedeva un feudo a cui veniva data maggiore importanza rispetto ad altri possedimenti. Giambastiani ipotizza che ne fosse investito dai Canossa, dal marchese Bonifacio di Toscana o dalla stessa contessa Beatrice.
Nei regesti degli atti delle contesse Beatrice e Matilde ricorre spesso il nome di Pagano da Corsena ed è dunque possibile seguire i suoi spostamenti sui territori dei Canossa in un periodo che va dal 1070 al 1083. Egli è a Firenze il 25 maggio 1070, a Frassinoro 29 agosto 1071, a Mantova il 19 gennaio 1072, a Chiusi il 7 giugno 1072 (Calceraki), a Colle Vignali il 7 e 9 luglio 1072, a Lucca l’8 settembre 1072, a Firenze il 27 febbraio 1073, ad Atagerra il 19 aprile 1073, a Torricello sul Po il 10 settembre 1073, a Campitello il 10 settembre 1073, a Firenze il 7 maggio 1075, a Marengo il 27 maggio 1076, a Firenze il 6 giugno 1077, a Poggibonsi l’11 febbraio 1078 (Burgo de Martuli), a Puntiglo il 19 febbraio 1078 (contado senese), a Ferrara il 7 settembre 1079, a Bricole il 17 settembre 1079, a Corneto (Tarquinia) il 26 marzo 1080, a Ferrara il 20 settembre 1080, a Ferrara il 23 novembre 1080, a Mantova il 10 maggio 1083[55]. Non si consideri questa enumerazione di luoghi e date come un mero esercizio di pratica documentaria: soltanto avendo presenti i vari luoghi, i tempi e gli spostamenti del feudatario Pagano si può avere un’idea di quella che poteva essere la mobilità nel medioevo. Rispetto agli studi precedenti il placito di Mantova del 10 maggio 1083 permette di spostare in avanti l’ultima attestazione in vita di Pagano da Corsena. Esso va considerato insieme al placito di Sursiano del 10 aprile 1100 che fornisce un elemento per stabilire un probabile teminus ante quem della morte. Si può dunque collocare la morte del feudatario tra il 1083 e il 1100 circa. Nel documento di Sursiano infatti viene citato per la prima volta Rolando figlio Pagano di Corsena e non diretta- mente Pagano che probabilmente all’epoca era già morto o comunque impossibilitato a muoversi. L’ultima attestazione riguarda il placito di Pieve Fosciana del 10 luglio 1105 che viene convocato per dirimere la questione riguardante i beni del monastero di Pozzeveri donati da Ildebrando. In questo documento vengono enunciati i beni che furono di Ildebrando figlio del fu Pagano da Corsena ed erano posti in Corsena, Cocila, Cuculagio, Muniano, Buliano, Villa, Granaiolo, Piscolle, Luliano, Muntefegatese, Gali- cano, Mulazana, Col de Melo, Munte Altissimo, Calumine e Saxi[56]. La sua presenza non risulta al placito di Diecimo del 1111 perché evidentemente era già morto.
La valle della Lima in età longobarda e carolingia era uno dei tre distretti amministrativi della montagna lucchese: fines carfanienses, fines Castrinovi e fines contronenses[57]. Dunque la valle del torrente Lima, veniva identificata come territorio contronenses e da questo si deve dedurre l’importanza della relativa zona insediativa che trova poi conferma nella complessità della struttura amministrativa ecclesiastica. Il territorio risulta suddiviso in quattro nuclei: la pieve di Santa Giulia a Villa Terenziana (ricordata per la prima volta nell’anno 772); la pieve di Santo Stefano di Bargi (anno 913) a Pieve di Controne; la pieve di San Quirico di Casanicclo (anno 918), a Casabasciana; la pieve di Vico Pancellorum (anno 873). Esse erano già esistenti in età matildica. Annessi alle pievi, ma talvolta anche indipendenti, erano gli ospedali, strutture di accoglienza per i viaggiatori che rivestivano fondamentale importanza nelle pratiche religiose medievali. Dalle pievi della valle dipendevano numerose ville, cappelle e ospedali. Le pievi dunque sono un segnale importante per indicare quella che Sergi ebbe a definire un’area di strada. Non tanto perché da sole fossero in grado di dare vita a un distretto stradale ma, al contrario, perché per la loro stessa funzione richiedevano di essere collocate in punti raggiungibili dalla popolazione rurale. Questo implicava il fatto di tener conto anche della posizione viaria.
Partendo dall’alto della Valle del torrente Lima si incontra la pieve di Vico Pancellorum documentata nell’873. Essa risulta intitolata a San Paolo e l’edificio attuale risale al secolo XI. Aveva alle sue dipendenze la Cappella di San Donato a Casoli documentata nell’anno 943[58]. Dopo Vico Pancellorum si incontra la Pieve di Controne attualmente dedicata a San Giovanni Battista. Si ha notizia di questa chiesa nell’anno 844 quando era ancora una cappella sita in località Bargi dipendente dalla pieve di Santa Giulia di Controne e dedicata a Santo Stefano. Nel 913 Santo Stefano era divenuta chiesa battesimale e aveva acquistato l’intitolazione a San Giovanni Battista. La tradizione lucchese ne attribuisce la fondazione già come chiesa battesimale a San Frediano. Secondo gli spogli del Giambastiani essa aveva alle sue dipendenze la pieve di Santa Giulia (e San Giovanni Battista) che veniva chiamata pieve di Granaiolo o di Villa o di Terenziano o di Casalino. Le due pievi vennero via via separandosi finché nel XIII secolo la divisione fu completa. La pieve di Santo Stefano di Bargi prese il titolo di pieve di Controne mentre la pieve di Santa Giulia fu chiamata Pieve di Villa Terenziana, l’attuale Monti di Villa. L’edificio della Pieve di Controne risale al IX secolo e ha subito diverse trasformazioni compresa l’inversione dell’abside nel XIV secolo dovuta a una frana che ne ostruì l’ingresso. Nelle vicinanze della pieve era situato un ospedale dedicato a Santa Maria che nel 1584 fu unito all’ospedale di San Luca di Lucca. Dalla Pieve di Controne dipendeva tra le altre la cappella di San Cassiano di Controne. Questa cappella fu ampliata nel XII secolo e divenne poi la chiesa parrocchiale di San Cassiano di Controne. Dipendeva inoltre dalla Pieve di Controne la cappella di San Pietro in Corsena. Presso Corsena si trovava un ospedale dedicato a San Martino che fu annesso al San Luca nel 1520. A Benabbio vi era poi un ospedale dedicato a Santa Maria la cui prima attestazione risale alla visita apostolica del 1575.

Dalla Pieve di Controne dipenderà anche l’ospedale di San Tommaso di Benabbio molto più tardo dell’epoca che qui interessa essendo stato eretto nel 1354[59]. Si incontra poi la Pieve di Villa Terenziana attestata dall’anno 772 e dedicata a Santa Giulia. Essa aveva giurisdizione sul territorio della cappella di Santo Stefano di Bargi che sarebbe poi diventata la Pieve di Controne. Nel 913 Santo Stefano appare già costituita in pieve e la Pieve di Santa Giulia, con il titolo aggiunto di San Giovanni Battista, è sottoposta ad essa pur conservando dignità di plebana ed essendo sul medesimo territorio. Per distinguerla dalla pieve di Bargi, ossia la Controneria, venne chiamata pieve di Granaiolo o di Villa o di Terenziano o di Casalino finché nel XIII secolo vennero definitivamente separate. L’edificio attuale che conserva solo la dedicazione a San Giovanni Battista risale a una ricostruzione del XII secolo. Alle dipendenze della Pieve di Villa Terenziana era posto l’ospedale di San Regolo a Cabbi dedicato a San Martino. Esso si trovava lungo la via da Tereglio alla Foce a Giovo e ha lasciato traccia nel toponimo Ospedaletto e nel toponimo Gabbio posto vicino a questo. Vi è inoltre la cella dell’ospedale di Cabbi citata nell’Estimo nel 1260 come Ospitale cum cella de villa. Fu abbandonato nel XVI secolo e sostituito da una sua dipendenza: l’ospedale di San Regolo a Montefegatesi[60]. Sul lato sinistro della Lima si trova la pieve di Casabasciana dedicata ai Santi Quirico e Giulitta. La pieve di Casabasciana era anche detta Pieve de Casanicclo e la sua prima attestazione è dell’anno 918: essa risulta anche dedicata a San Giovanni Battista. Nel 1503 un preesistente oratorio dedicato a San Pietro e posto nel centro abitato assunse il titolo di pieve e l’intitolazione ai Santi Quirico e Giulitta mentre l’edificio plebano originario fu declassato a semplice oratorio nel 1645. Da essa dipendevano l’ospedale di San Francesco a Cruciana che si trovava lungo la via che andava da Ponte a Diana a Brandeglio sul fondovalle del torrente Lima. Traccia della sua presenza si può rinvenire nei toponimi di Pian dell’ospedale e rio Spedaletto[61]. Andando verso la piana si incontra poi l’ospedale di San Martino in Greppo risalente alla fine dell’XI secolo che fu alle dipendenze della pieve di Santa Maria Assunta di Diecimo di cui si è parlato sopra. La Pieve di Diecimo, poco distante e originariamente dedicata a San Gervasio, è documentata nell’anno 919. Successivamente nel 979 la dedicazione è cambiata in santa Maria e san Giovanni Battista. Infine nel 995 è dedicata alla sola Santa Maria. Secondo la tradizione popolare sarebbe stata fondata da San Frediano e l’intitolazione originaria la daterebbe al IV – V secolo. L’edifico attuale è una ricostruzione dell’XI secolo che, secondo una delle numerose tradizioni analoghe, si dovrebbe attribuire all’intervento di Matilde di Canossa[62]. A Matilde di Canossa, come si è detto, la voce popolare attribuisce anche il ponte della Maddalena[63] che insieme al Ponte di Sant’Ansano posto nell’attuale territorio di Ponte a Moriano rappresenta uno dei grandi attraversamenti fluviali che accompagnano la percorrenza del Lima-Serchio[64].
In questo studio è stata trattata per la prima volta organicamente la percorrenza transappenninica che dal territorio della Val di Lima, attraverso il passo della Croce Arcana, si collega col modenese raggiungendo la località di Ospitale[65], Fanano e infine Bobbio. L’insieme dei dati raccolti ci permette di ricostruire una ipotesi legata a una viabilità che troverei forzato definire Via Francigena. Di certo si trattava di una via d’attraversamento importante e tutte le tracce archeologiche e documentarie portano a dire che la Val di Lima costituisce un’area di strada che si collega con la viabilità transappenninica della via Cassiola[66]. Si può ipotizzare che i pellegrini, ma anche i mercanti, gli armati, i diplomatici provenienti dalle terre di Matilde e dalla zona adriatica, attraversassero l’Appennino nella zona del passo di Croce Arcana e poi continuassero lungo la valle del Lima fino a ricongiungersi con la via Clodia nell’attuale territorio di Borgo a Mozzano. Essi erano attratti tra l’altro dalla statua reliquiario del Volto Santo che, secondo la leggenda elaborata dai canonici, aveva scelto Lucca come propria la sede. Il culto non è solo un potente magnete capace di attrarre viaggiatori di vario tipo ma è anche un’affermazione di potere e di autorità. Quello eminente del Volto Santo trovava sponda in un oggetto reso straordinario agli occhi dei fedeli e dei cittadini da una narrazione agiografica che rimandava immediatamente alla Terra Santa e con essa alle crociate e ai grandi movimenti di pellegrinaggio che in quest’epoca si svilupparono tra Oriente e Occidente. Non a caso tale venerazione venne promossa a Lucca nel pieno dell’età della riforma, proprio quando i grandi attori della scena politica erano i vescovi, i canonici lucchesi e i conti di Canossa.


[1] Il bacino ceramico venne distaccato nel 1975 per essere sottoposto a restauro ed essere poi esposto al Museo Nazionale di Villa Guinigi a Lucca. Nel luglio 2016 è stato ricollocato nell’oratorio posto vicino alla chiesa di San Cassiano, attualmente adibito a sala espositiva.
[2] G. BERTI, L. CAPPELLI, Lucca. Ceramiche medievali e post-medievali (Museo nazionale di villa Guinigi). I. Dalle ceramiche islamiche alle “maioliche arcaiche”. Secc. XI-XV, in «Ricerche di ar- cheologia altomedievale e medievale», pp. 19-20. Si veda come testo generale Ceramiche con coperture vetrificate usate come “bacini”. Importazioni a Pisa e in altri centri della Toscana tra fine X e XIII secolo a cura di G. BERTI e M. GIORGIO, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2011.
[3] M. RONZANI, Il quadro storico (secoli VI-XIII), in Visibile parlare. Le arti nella Toscana medievale, a cura di M. COLLARETA, Firenze, Edifir, 2013, p. 7.
[4] Itinerarium Antonini Avgvsti et Hierosolymitanvm ex libris manvscriptis, a cura di G. F. C. PARTHEY e M. PINDER, Berlino, Friedrich Nicolai, 1848, nn. 284, 289. Si veda P. STORCHI, La viabilità nella provincia di Reggio Emilia: la via di val d’Enza. Elementi per l’individuazione di un tramite fra Italia centrale e settentrionale, in «Orizzonti. Rassegna di archeologia», IX (2008), pp. 104-105.
[5] M. LOPES PEGNA, Itinera Etruriae, in «Studi etruschi», XXI (1950-51), pp. 407-442.
[6] Acta sanctorum julii, I, p. 50.
[7] Si veda L. CANETTI, Culti e dedicazioni nel territorio parmense. Il dossier bercetano dei santi Moderanno e Abbondio (secoli VIII-X) [A stampa in Studi sull’Emilia occidentale nel Medioevo, a cura di R. GRECI, Bologna, Clueb, 2001, pp. 65-100 – Distribuito in formato digitale da “Reti Medie- vali”].
[8] «Per Alpem Bardonis Tusciam ingressus». PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, V, 27.
[9] R. DONDARINI, La via Cassiola tra vocazioni naturali e divisioni politiche, in Camminando sulla storia. La piccola Cassia, a cura di B. BORGHI e D. CERAMI, Bologna, Minerva, 2013, p. 14. Si veda anche D. LABATE, Archeologia del pellegrinaggio: il rinvenimento di due tombe di pellegrini nell’Ospitale medievale di Spilamberto (MO) ed altre testimonianze di signa peregrinationis dal Modenese, in «Compostella. Rivista del Centro Italiano di studi Compostellani», 31 (2010), pp. 43-44.
[10] Si veda R. STOPANI, La via romea nonantolana, Firenze, Centro Studi Romei, 2007.
[11] E. REPETTI, Dizionario geografico fisico storico della Toscana contenente la descrizione di tutti i luoghi del Granducato, Ducato di Lucca, Garfagnana e Lunigiana, vol. 1, A-C, Firenze, Tipografia A. Tofani, 1833, p. 839.
[12] Una tradizione quattrocentesca attribuisce la fondazione del ponte a Matilde di Canossa († 1115). In realtà molte costruzioni di edifici sono attribuite alla contessa in tutto l’Appennino ma va segnalato che questa notizia trova conferma in una lapide datata nell’anno 1101, forse non coeva alla costruzione attuale, murata ancora nel secolo scorso nell’ultimo pilastro del ponte. F. BARONI, L. GIOVANNETTI, S. GOBBATO, J. A. QUIRÓS CASTILLO, Viabilità e ospedali nella Valle del Serchio, in L’ospedale di Tea e l’archeologia delle strade della Valle del Serchio, a cura di A. QUIRÓS CASTILLO, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2000, pp. 78, 103-104.
[13] Itinera et descriptiones Terrae Sanctae, I, a cura di T. TOBLER, Ginevra, 1877, pp. 252-263
[14] P. M. CONTI, Luni nell’alto Medioevo, Padova, Cedam, 1967, p. 173.
[15] W. KURZE, Codex diplomaticus amiatinus, Band. I, n. 157, p. 332.
[16] DONIZONE, Vita di Matilde di Canossa, a cura di P. GOLINELLI, Milano, Jaca Book, 2016, p. 140.
[17] C. VIOLANTE, Ricerche sulle istituzioni ecclesiastiche dell’Italia centrosettentrionale nel Medioevo, Palermo, 1986, pp. 145-204.
[18] P. GOLINELLI, Matilde e i Canossa, Milano, Mursia, 1991, p. 158.
[19] DONIZONE, Vita di Matilde di Canossa… cit., p. 18.
[20] M. G. BERTOLINI, Note di genealogia e storia Canossiana, in I ceti dirigenti in Toscana nell’età precomunale, Atti del I Convegno di studi sulla storia dei ceti dirigenti in Toscana (Firenze, 2 dicembre 1978), Pisa, 1981, pp. 110-149. Si veda la voce Adalberto Azzo di Canossa, a cura di M. G. BERTOLINI, in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 1 (1960).
[21] P. GOLINELLI, Matilde e i Canossa… cit., p. 35.
[22] Ibidem, p. 53.
[23] M. RONZANI, Il quadro storico… cit., pp. 11-19. Si veda anche del medesimo autore, Lucca dai Longobardi al Comune, in Scoperta armonia. Arte medievale a Lucca, a cura di C. BOZZOLI e M. T. FILIERI, Lucca, Fondazione Ragghianti, 2014, pp. 1-14.
[24] P. GOLINELLI, Matilde e i Canossa… cit., pp. 69, 158.
[25] Si vedano a titolo di esempio DUPRONT, Il sacro. Crociate e pellegrinaggi. Linguaggi e immagini, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; F. CARDINI, Gerusalemme d’oro, di rame, di luce: pellegrini, crociati, sognatori d’Oriente fra XI e XV secolo, Milano, Il Saggiatore, 1991; J. FLORI, La guerra santa, Bologna, Il Mulino, 2009.
[26] Giuseppe Sergi, molto opportunamente, definisce la via Francigena con il concetto di “area di strada”. G. SERGI, Premessa, in Luoghi di strada nel Medioevo. Fra il Po, il mare e le Alpi Occidentali, a cura di G. SERGI, Torino, Scriptorium, 1996, p. 5.
[27] Nota di M. BLOCH, in F. IMBERDIS, Les routes médiévales. Mythes et réalités historiques, in «Annales d’Histoire Sociale», I (1939), p. 416.
[28] Peregrinatio e stabilitas erano due principi che coesistevano nel monachesimo medievale. Si veda G. TABACCO, Spiritualità e cultura nel medioevo. Dodici percorsi nei territori del potere e delle fede, Napoli, Liguori, 1993, pp. 43 e seguenti, pp. 159-166.
[29] Si veda ad esempio G. TODESCHINI, Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna, Il Mulino, 2007.
[30] I. SABBATINI, «Tutti erano ignudi e tutti neri». La fisiognomica dell’alterità musulmana, in Deformità fisica e identità della persona tra Medioevo ed età moderna. Atti del XIV Convegno di studi organizzato dal Centro di studi sulla civiltà del tardo medioevo (San Miniato 21-23 settembre 2012), a cura di G. M. VARANINI, Firenze, Firenze University Press, 2015, pp. 378-379.
[31] T. SZABÓ, La rete stradale del contado di Siena. Legislazione statutaria e amministrazione comunale nel Duecento, in «Mélanges de l’Ecole française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes», t. 87, n. 1. 1975. p. 141.
[32] Monumenta Germaniae Historica, Capitularium Francorum, vol. 1, n. 143, c. 3.
[33] S. PATITUCCI, G. UGGERI, La viabilità nell’Italia medievale. Questioni di metodo, in La Salaria in età tardoantica e altomedievale, Atti Convegno di studi. Rieti, Cascia, Norcia, Ascoli Piceno, 28- 30 settembre 2001, a cura di E. CATANI e G. PACI, Macerata, Dipartimento di Scienze Archeologiche e Storiche dell’Antichità – Roma, L’Erma di Bretschneider, 2007, pp. 323-358 (p. 324).
[34] PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, III, 23-24.
[35] Si veda G. ZACCAGNINI, Vita sancti Fridiani. Contributi di storia e di agiografia lucchese medioevale. Edizione critica ed elaborazioni elettroniche, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 1989, pp.45-52.
[36] Si veda G. SERGI, Potere e territorio lungo la strada di Francia. Da Chambéry a Torino fra X e XIII secolo, Napoli, Liguori, 1981 poi ripreso da P. Toubert, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale, Torino, Einaudi. 1997, pp. 150, 219. Si veda anche G. SERGI, Evoluzione dei modelli interpretativi sul rapporto strade-società nel Medioevo, in Un’area di strada. L’Emilia occidentale nel Medioevo. Ricerche storiche e riflessioni metodologiche. Atti dei convegni di Parma e Castell’Arquato, novembre 1997, a cura di R. GRECI, Bologna, Clueb, 2000, pp. 3-12.
[37] Si veda A. MOSCA, Ponti del Diavolo e viabilità romana, in «Padusa» 26-27 (1990-91), pp. 339-348.
[38] Si tengano presenti le puntualizzazioni correttive circa il concetto di pieve come distretto stradale di T. Szabó nella presentazione alla riedizione di J. PLESNER, Una rivoluzione stradale del Dugento, Firenze, La Seppia, 1979, pp. III-XIX.
[39] M. LALLAI, La diocesi di Lucca. Da Luni a Massa Carrara-Pontremoli. Il divenire di una diocesi fra Toscana e Liguria dal IV al XXI secolo, Modena-Massa, Aedes Muratoriana-Palazzo di Santa Elisabetta, 2015.
[40] In un diploma del 998 emanato dall’imperatore Ottone III a beneficio del vescovo pistoiese Antonino furono confermati possessi fondiari, immunità insieme a diciannove pievi. Tra queste viene nominata la pieve di Santa Maria di Lizzano. Regesta Chartarum Pistoriensium, Alto Medioevo, 105. Si veda anche G. FRANCESCONI, Districtus civitatis Pistorii. Strutture e trasformazioni del potere in un contado toscano (secoli XI-XIV), Pistoia, Società Pistoiese di Storia Patria, 2007.
[41] Si veda L. NANNI, La parrocchia studiata nei documenti lucchesi dei secoli VIII-XII, Roma, Aedes Universitatis Gregorianae, 1948 (Analecta Gregoriana, XLVII). Per un esempio di indagine specifica, cfr. A. SPICCIANI, Allucio da Pescia (1070 ca.-1134). Un santo laico dell’età postgregoriana. Religione e società nei territori di Lucca e della Valdinievole. Atti del Congresso tenuto a Pescia, 18- 19 aprile 1985, a cura di C. VIOLANTE, Roma, Jouvence, 1991, pp. 159-198. Presso l’Università di Pisa sono state discusse (relatore il prof. C. Violante) due tesi di laurea su alcune pievi lucchesi per il periodo altomedievale: L. BERTINI, I plebati di Controne e di S. Maria a Monte. Le chiese lucchesi dell’ottavo secolo (a. a. 1970-71); M. MANNOCCI Burlando, Pievi e chiese della diocesi di Lucca del secolo IX. Le pievi di S. Maria di Sesto, di S. Martino di Fiesso e di S. Maria di Massa Buggianese (a. a. 1973-74).
[42] Si veda M. FRATI, Gli ospedali medievali in Toscana osservazioni preliminari, in L’accoglienza religiosa tra medioevo ed età moderna. Luoghi architetture percorsi a cura di S. BELTRAMO e P. COZZO, Roma, Viella, 2013, pp. 61-87.
[43] AMULONIS ARCHIEPISCOPI LUGDUNENSIS, Epistolae, in Monumenta Germaniae Historica, Epistolarum, Tomus V, Epistolae Karolini aevi III, p. 366.
[44] Si veda P. GOLINELLI, I mille volti di Matilde. Immagini di un mito nei secoli, Milano, 24 Ore Cul- tura, 2003.
[45] G. FORNASARI, S. Anselmo e il problema della «caritas», in, Sant’Anselmo, Mantova e la lotta per le investiture. Atti del convegno internazionale di studi (Mantova, 23-24-25 maggio 1986), a cura di P. GOLINELLI, Bologna, Patron Editore, 1987, pp. 301-307.
[46] Si veda il contributo di V. CAPPELLINI, Matilde di Canossa e Lucca. La contessa nei documenti dell’Archivio Storico Diocesano, presente in questo volume alle pp. 31-50.
[47] ARCHIVIO STORICO DIOCESANO DI LUCCA (d’ora in avanti A.S.D.L.), ARCHIVIO CAPITOLARE DI LUCCA, (d’ora in avanti A.C.L.), Diplomatico, CC 20. Si veda Documenti e lettere di Matilde di Canossa a cura di F. CANOVA, M. FONTANILI, C. SANTI, G. FORMIZZI, Bologna, Patron Editore, 2015, pp. 92-94.
[48] A.S.D.L., ARCHIVIO ARCIVESCOVILE DI LUCCA, (d’ora in avanti A.A.L.), Diplomatico, Privilegi, n. 80. Si veda Documenti e lettere di Matilde di Canossa… cit., pp. 112-114.
[49] Si vedano M. L. CECCARELLI LEMUT, I Canossa e la Toscana, in Matilde di Canossa, il papato, l’impero. Storia, arte, cultura alle origini del romanico. Catalogo della mostra (Mantova, Casa del Mantegna, 31 agosto 2008–11 gennaio 2009), a cura di R. SALVARANI e L. CASTELFRANCHI, Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2008, pp. 226-235; R. SAVIGNI, Episcopato e società cittadina a Lucca da Anselmo II († 1086) a Roberto († 1225), Lucca, Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti, 1996.
[50] A. FORNACIARI, F. COSCHINO, Il castello di Benabbio in Val di Lima (LU). Le trasformazioni insediative tra XII e XIV secolo, in Atti del VI Congresso di Archeologia Medievale, L’Aquila 12-15 settembre 2012, Firenze, All’insegna del Giglio, 2012, pp. 257-264.
[51] A.S.D.L. A.A.L, Diplomatico, * C 75. Si vedano C. GIAMBASTIANI, I Bagni di Corsena e la Val di Lima lucchese dalle origini al XIII secolo, Lucca, Istituto Storico Lucchese, 1996, p. 79; M. SEGHIERI, Porcari e i nobili porcaresi, in Storia di Porcari, vol. II, Porcari, 1985.
[52] A.S.D.L., A.C.L., Atti Capitolari, LL. 1, cc. 5v-6r, 1011 luglio 18. C. GIAMBASTIANI, I Bagni di Corsena… cit., p. 80.
[53] C. GIAMBASTIANI, I Bagni di Corsena… cit., p. 81. Grazie allo spoglio di Giambastiani (pp. 82-84) è possibile ricostruire alcune tracce dei rapporti economici che Pagano intrattenne con l’episcopato e la società lucchese. Nel 1031 i canonici di San Martino concedono a livello a lui e ai suoi fratelli alcuni appezzamenti di terreno che lo zio Opizo aveva donato alla chiesa di San Martino. Nel 1056 Pagano, per rimedio dell’anima sua, del padre e dei fratelli defunti, offre ai canonici di San Martino degli appezzamenti a Picciorana. Pagano compare come teste in una carta del 1047 per una concessione a livello ed è ricordato nel 1048 in una carta nella quale riceve a livello dei beni a Gugliano, Vivario e Cafaggio dalla chiesa di San Martino per un censo annuo di 12 denari lucchesi d’argento e 25 anguille secche. Nel 1049 Pagano insieme alla moglie Adaleita vende alcuni beni nel pesciatino. Nel 1061 egli dona alla chiesa di San Martino parte dei suoi possedimenti a San Giusto e parte della chiesa di Sant’Andrea e delle terre annesse. Lo stesso giorno riceve da Anselmo I vescovo di Lucca († 1073) un anello d’oro dietro promessa di non contestare i diritti vescovili sui possedimenti di Porcari, le chiese di Sant’Andrea e San Giusto, una parte del castello di Castiglione di Garfagnana, una parte del castello e corte di Gallicano.
[54] Ibidem, p. 84.
[55] Documenti e lettere di Matilde di Canossa… cit., pp. 44, 46, 50, 52, 54, 72, 76, 82, 96, 98, 108, 110, 124, 128, 130, 146. Cfr. C. GIAMBASTIANI, I Bagni di Corsena… cit., p. 86.
[56] Documenti e lettere di Matilde di Canossa… cit., p. 294.
[57] C. GIAMBASTIANI, I Bagni di Corsena… cit., pp. 43-44. B. ANDREOLLI, Il sistema curtense nella Garfagnana altomedievale, in La Garfagnana. Storia, cultura, arte, Atti del Convegno (Castelnuovo Garfagnana 1992), Modena, 1993, pp. 73-86.
[58] M. LALLAI, La diocesi di Lucca… cit., pp. 160-161. C. GIAMBASTIANI, I Bagni di Corsena… cit., pp. 182 e seguenti.
[59] M. LALLAI, La diocesi di Lucca… cit., pp. 161-162. C. GIAMBASTIANI, I Bagni di Corsena… cit., pp. 124 e seguenti. Si veda anche B. CHERUBINI, Vicende dell’ospedale di San Regolo di Cabbi, sulla strada transappenninica della Foce a Giovo, in «Notiziario filatelico-numismatico con rubriche di storia, scienze, lettere, arti», IX (1969), pp. 22 e seguenti.
[60] M. LALLAI, La diocesi di Lucca… cit., pp. 169-169. C. GIAMBASTIANI, I Bagni di Corsena… cit., pp. 128 e seguenti.
[61] M. LALLAI, La diocesi di Lucca… cit., pp. 163-164. C. GIAMBASTIANI, I Bagni di Corsena… cit., pp.195 e seguenti.
[62] M. LALLAI, La diocesi di Lucca… cit., pp. 165.168. G. GHILARDUCCI, Diecimo. Una pieve, un feudo, un comune, vol. I, Il medioevo, Lucca, Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti, 1990.
[63] Vedi supra, nota 10.
[64] Il 17 febbraio 1115 Rodolfo vescovo di Lucca investiva Gottifredo di Rodolfo, Sigismondo di Rustico ed Baroncione di Orsico di beni posti tra il rio di Santa Maria di sesto e il rio di Molerna fino al ponte qui dicitur de Moriano. A.S.D.L., A.A.L., Diplomatico, † A 36 e †† A 20. Cfr. Lucensis ecclesiae monumenta, vol. III, parte I, a cura di G. CONCIONI, C. FERRI, G. GHILARDUCCI, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2013 pp. 236. La relazione tra l’ospedale e il ponte, ribadita in una carta del 1132, risulta chiara se si pensa alla posizione posta all’affluenza del rio Molerna nel Serchio, a metà strada fra la pieve di Sesto e Ponte a Moriano.
[65] Il toponimo rimane a testimonianza dell’ospitale della Val di Lamola.
[66] Una carta del 1124 dell’abbazia di Santa Lucia di Roffeno ne documenta l’esistenza quando riferisce che la chiesa abbaziale è posta vicino a questa strata. Regesti dell’archivio diplomatico di Santa Lucia, mazzo 1, 1124, n. 8. L’argomento è stato trattato tra gli altri in R. ZAGNONI, L’abbazia di Santa Lucia di Roffeno nel Medioevo, in Monasteri d’Appennino. Atti della giornata di studio (Capugnano, 11 settembre 2004), a cura di R. ZAGNONI, Pistoia, Società Pistoiese di Storia Patria, 2006, pp. 83-128. P. FOSCHI, Oltre i confini: da Modena e da Reggio lungo le strade d’Europa, «Quaderni Estensi», 5 (2013), pp. 199-256. Camminando sulla storia. La piccola Cassia, a cura di B. BORGHI e D. CERAMI, Argelato, Minerva, 2013. Si vedano anche C. SARDI, Vie romane e medievali nel territorio lucchese in Atti della Regia Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti, XXXIV (1914), pp. 149-236; M. P. PUCCINELLI, La viabilità nel contado pistoiese in rapporto con i monumenti romanici, in Il romanico pistoiese nei suoi rapporti con l’arte romanica dell’Occidente, Atti del I Convegno Internazionale di Studi Medievali di Storia ed arte, Pistoia-Montecatini, 27 settembre-3 ottobre 1964, Pistoia, 1979, pp. 193-211.

Il mio percorso universitario è iniziato nell’ambito della Filologia Neolatina sotto la guida del Professor Livio Petrucci (SNS). In seguito, per esigenze di tesi laurea ho scelto il trasferimento all’indirizzo Storico Medievale, essendo mia intenzione coniugare gli studi storici con gli studi filologici in cui mi sono formata. Allieva del professor Marco Tangheroni (Dir. Dip. Storia Medievale), nel marzo 2004 ho conseguito la laurea presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi Pisa, ottenendo la votazione di 110/110 e lode. Parallelamente al mio percorso universitario, sono stata responsabile del laboratorio di informatica per la didattica delle discipline umanistiche (P.I.A. Istituto comprensivo di Coreglia Antelminelli) e ho tenuto corsi di formazione agli insegnanti sulle applicazioni informatiche per le discipline umanistiche. Ottenuta l’ammissione al Dottorato di Ricerca in “Studi di Antichità Medioevo e Rinascimento” presso il SUM (entrato a far parte della Scuola Normale Superiore di Pisa), dal 2005 ho svolto la mia attività di ricerca, inerente la rappresentazione del Vicino Oriente nei diari di pellegrinaggio tardo medievali, con il coordinamento del professor Gherardo Ortalli (Università Cà Foscari di Venezia) e in collaborazione con Franco Cardini (Università degli studi di Firenze). Nel 2005 ho partecipato al progetto BDI (Biblioteca Digitale Italiana) – RICaBiM (Repertorio di Inventari e Cataloghi di Biblioteche Medievali). Nel 2007 ho fatto parte del PRIN Corpus italicarum peregrinationum (CIP). Nel 2009 ho discusso la mia tesi di dottorato sull’Oriente nell’odeporica cristiana medievale. Attualmente sono reasearch fellow presso SISMEL con il progetto ARVO (Archivio Digitale del Volto Santo). Spinta da una particolare curiosita verso le digital humanities ho deciso di sperimentare l’uso dei social networks nel campo delle discipline storico-umanistiche attraverso la pagina Facebook Risorse digitali per umanisti (e il corrispondente gruppo). Il mio blog, medievista.it, rappresenta la naturale evoluzione del dialogo tra humanities e digital applications che da molti anni mi appassiona..
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